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“La prima regola è quella di non farsi fottere”

La prima volta che mi portarono in questura (non avevo nemmeno 15 anni) insieme a un compagnetto della stessa mia età, mi sentivo un eroe.

Noi eravamo ragazzi, l’adrenalina scorreva nelle vene.

Uscimmo da quella avventura fieri del nostro gesto convinti di aver ottenuto la prima medaglietta di una lunga carriera di rivoluzionari.

Giovani “guardie rosse” pronti a sfidare la repressione dello Stato a testa alta.

Quando uscimmo, fuori ci aspettava il papà del compagno con cui ero stato fermato.

Un comunista che aveva subito il carcere fascista e le torture.

Aveva pure avuto una medaglia, vera, da appuntare sul petto e un attestato di partigiano che, quando si incazzava, affiggeva nel cesso.

E quella sera era davvero incazzato.

Ci guardo dall’alto in basso e ci disse solo poche parole.

“Coglioni”. “La prima regola di un buon combattente è quella di non farsi fottere”.

Una lezione pratica che marcava la differenza fra la rivolta spontanea e la lotta organizzata.

Fra la rabbia e la presa di coscienza.

Senza voler esorcizzare o criminalizzare la rabbia, compito degli sbirri e dei democratici fra le cui file non mi sono mai arruolato, ma convinto che ogni “rivoltoso” è un patrimonio comune da proteggere e coltivare.

Ogni brandello di coscienza anticapitalista, anche quando si esprime nelle forme più elementari, è un tassello da non sacrificare, un punto di partenza, l’inizio di un percorso.

Manca un punto di sintesi, capace di dare un senso e indirizzare, quella rabbia.

Quel “piccolo gruppo compatto” che “tenendosi strettamente per mano” traccia la strada che ci porterà fuori dal pantano.

Perché anche “distruggere” è un’arte e un lavoro di professionisti.

Ma anche questo è un prodotto storico, frutto delle “condizioni oggettive”.

Frutto di ciò che la classe, “che fa la storia” sarà in grado di mettere in campo.

Lentamente tutti i tasselli del puzzle si stanno ricomponendo.

La crisi generale del capitale che, a ovest come a est, azzera i profitti e terremota le economie.

La guerra che diventa elemento strutturale, determinante e irreversibile, dello “sviluppo”.

La barbarie nei rapporti Stati e nazioni e, dentro i loro confini, fra classi e individui in lotta per la sopravvivenza.

Il Titanic sta affondando.

E a chi sta affogando nelle stive non resta che combattere per conquistarsi una scialuppa di salvataggio.

Combattere.

Con l’ottimismo della ragione e l’indulgenza verso il “disordine” della volontà.

* da facebook

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