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Il messaggio suprematista dei sostenitori di Israele

Non è poi così difficile decifrare il “messaggio” dei sostenitori di Israele; cioè la direzione di senso dell’ideologia liberale e atlantista alle prese con la guerra contro Gaza.

È sufficiente leggere quanto pubblicato quotidianamente dai suoi rappresentanti più fanatici per individuarne gli “stereotipi”, ossia quei “significati” che si ripetono come “grandezze costanti”.

Si tratta, a ben vedere, di un messaggio dannatamente banale, fondato su un “nucleo semantico” immediatamente riconoscibile; e che si presenta su diversi livelli tra loro interconnessi, ognuno contenente almeno due piani, uno letterale, dei significati manifesti, l’altro secondario, quasi invisibile ma comunque decifrabile, quello dei significati impliciti.

Il primo livello di questo “messaggio” è di appartenenza; in esso si concentrano tutte le caratteristiche discorsive tipiche di chi vuole esplicitare il proprio posizionamento: si organizza il discorso – la “narrazione”, se si preferisce – per confermare l’adesione a un gruppo, una tribù politica, una tendenza culturale … Il “messaggio” è il vincolo identitario.

Detto diversamente, il discorso investe il reale di un “valore” che preesiste alla sua analisi; pertanto, il giudizio sull’azione dei soggetti che agiscono nel contesto del conflitto israelo-palestinese si definisce solo in funzione dell’aderenza a quel valore.

Insomma, dall’organizzazione del discorso emerge in modo chiaro come il “messaggio” sia indipendente dal rapporto con la verità del reale, bensì teso a specificare l’appartenenza a un corpus ideale.

Da ciò derivano altri livelli, i quali confermano l’appartenenza replicandola con significati diversi. È importante, in questo senso, il livello che potremmo definire “simbolico”; per esempio, la bandiera israeliana esibita nel profilo social rimanda al campo liberal-democratico e diviene il segno di un legame e, soprattutto, indica la “democrazia” tout court.

È questo, senza dubbio, un livello abbastanza tipico: più la bandiera ostenta un’appartenenza e più essa fornisce il proprio significato simbolico, che certo corrisponde a un insieme di significati paradigmatici (sacralità del comportamento di Israele; sostegno indiscriminato alle sue politiche; istituzione di una differenza tra israeliani e palestinesi; ecc.).

Questa pluralità di significati ci permette di entrare in un altro livello, forse quello più profondo; che appartiene, cioè, a un senso profondamente radicato nella cultura di riferimento.

Per esso si utilizza – giustamente – il termine di “suprematismo”: la (presunta) superiorità del sistema – di valori, ma non solo – occidentale, che assume, nel caso di Gaza, i tratti di un razzismo tanto presente quanto occultato.

L’identità israeliana eccede, per così dire, l’universale uguaglianza: un civile israeliano non è uguale a un civile palestinese. Dopo l’attacco del 7 ottobre, questa eccedenza ha occupato tutto lo spazio mediatico.

Ciò richiama un altro livello, che potremmo definire della “giustificazione etica”; il giudizio sugli atti commessi da Israele è subordinato all’adesione a quel sistema di “valori” occidentali, che vanno difesi “a prescindere”.

Anche l’azione più esecrabile compiuta da Israele, persino il crimine di guerra più evidente, va giustificato come se si trattasse di una necessità etica; è come se i sostenitori di Israele si fossero impadroniti dell’idea di Bene e che su di essa stabiliscano i rapporti che intercorrono tra gli eventi e i comportamenti umani.

Sul piano del “messaggio”, si veicola un senso inequivocabile: noi siamo gli eroi, gli altri sono i barbari.

Viene meno, in questo caso, l’uguaglianza di fronte al diritto internazionale: la natura criminale di un comportamento viene tollerata, o addirittura negata, se chi lo agisce appartiene a quella sfera valoriale di cui essi stessi sono parte; il giudizio soggiace al processo di identificazione.

L’eroe è sempre innocente, qualsiasi sia la natura dei suoi atti. Siamo dentro quell’odioso “doppio standard” che caratterizza da sempre i fanatici del liberalismo militarizzato.

In tutti questi livelli vi sono anche, come direbbe Roland Barthes, dei “sensi supplementari”, come una sorta di segreto che emerge dalla disposizione dei segni o dalle strategie discorsive.

Uno di questi, forse il più importante, si presenta come il vero volto – il “volto significante” – dell’ideologia liberale e atlantista: il colonialismo. Si tratta di un senso indicibile, quasi scabroso: Israele fa bene a occupare le terre palestinesi.

Intendiamoci, questo senso si nasconde dietro una “retorica”; il travestimento – invero goffo, oltre che meschino – passa dalla parola magica della “sicurezza”: la sicurezza di Israele in cambio dell’occupazione delle terre palestinesi. A Gaza come in Cisgiordania (e a Gerusalemme), la sicurezza di Israele si sta affermando come negazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.

Questo senso supplementare è, probabilmente, la base che permette a tutti gli altri livelli di esistere e di presentarsi come una logica (apparentemente) razionale; è un senso che svela il tipo di mondo che si vuole difendere: quello del privilegio coloniale, dove un gruppo di nazioni – “alleate”, ça va sans dire – è legittimato ad appropriarsi delle risorse di altri popoli o nazioni – “nemiche”, se non proprio barbare e incivili.

Di fatto, il “messaggio” è quello di un’ingiustizia spacciata per giustizia.

Nel “messaggio” dei sostenitori di Israele, ogni segno conduce a un senso ormai interiorizzato, parte consustanziale di un immaginario – e di un ethos – che ha tutte le caratteristiche di una ideologia fortemente reazionaria e decisamente imperialista.

Perché, alla fine, tutti i livelli di significato che emergono hanno a che fare con l’affermazione del controllo di Israele sulle vite e sulle risorse dei palestinesi: il sistema coloniale reso razionale.

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L’immagine allegata al mio commento è del 2015, dunque scattata ben prima del 7 ottobre 2023. Il ragazzo arrestato aveva 13 anni e si stava opponendo alla costruzione di un insediamento di coloni in Cisgiordania. Anche in essa è possibile distinguere diversi livelli di senso, tutti comunque sintetizzabili nei rapporti di forza tra una potenza coloniale e un popolo colonizzato.

* da Facebook

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1 Commento


  • Pasquale

    Tra tutti gli attori in campo in questo genocidio, che siano protagonisti diretti,stampa asservita,servi del potere sionista,governi reazionari o anche semplici sostenitori, l’appartenenza è tra chi ha scelto di rimanere umano e chi ha ceduto alla disumanizzazione.

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