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Scienza, politica, economia di guerra

Sono queste le notizie che indicano come si stia verificando un vero e proprio “spostamento d’asse” con una domanda: Sarà possibile impostare su questi temi e su quelli della prospettiva istituzionale dell’Europa la prossima campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, uscendo dal provincialismo interno al voto in più o in meno tra i partiti italiani?

(dalla news letter di “Stroncature” del 18 aprile 2024):

Di recente, Handelsblatt, il più importante quotidiano economico tedesco, si è schierato duramente contro le restrizioni imposte da alcune università nei rapporti di cooperazione con l’industria della difesa, invocando la necessità per le democrazie liberali di utilizzare la forza delle propria ricerca scientifica e la forza dell’innovazione tecnologica nella lotta contro le autocrazie.

Le “Friedensklauseln” o “clausole di pace” sono disposizioni presenti negli statuti delle università tedesche che impongono alla ricerca di essere orientata verso “scopi pacifici”. Queste clausole, in alcuni casi, sono incluse anche nelle leggi sull’istruzione superiore di alcuni Länder, come Brema e Turingia, mentre sono state abrogate in Bassa Sassonia e Renania Settentrionale-Vestfalia.

Oltre a sollevare dubbi sulla loro compatibilità con la libertà di ricerca sancita dalla Legge fondamentale tedesca, scrive il quotidiano economico, le clausole di pace si sono dimostrate di difficile applicazione in relazione ai beni a duplice uso, ovvero merci, software e tecnologie che possono avere sia un’applicazione civile che militare, e dalla dubbia efficacia vincolante.”

Tutto questo si verifica mentre nelle Università italiane studenti e docenti (brutalizzati dalla polizia) mettono in discussione accordi di tipo scientifico con Università israeliane accusandone le finalità belliche e altrettanto avviene in diversi paesi d’Europa.

Si tratta di segnali importanti di cosa si intende quando, nella situazione attuale, si parla in parallelo di economia di guerra e di difesa comune europea, invocando un “cambio di passo” proprio nella dimensione europea (e riproponendo anche l’Europa a 2 velocità)?

Il tema di oggi è quello dell’internazionalizzazione della crisi e delle prospettive di inasprimento bellico sul piano globale.

E’ necessario rendersi conto che stanno sorgendo questioni gigantesche da affrontare primi fra tutti quelli riguardanti i trasferimenti di tecnologia e quelli energetici.

Trasferimenti che avevano già segnato la fase culminante di quella che abbiamo definito “globalizzazione”, poi arretrata a partire dalla crisi del 2008.

Così sarà necessario riflettere su tre punti (definito però preventivamente il campo della dimensione sovranazionale):

1) Il mutato rapporto tra autonomia della scienza e della tecnica e i diversi livelli di decisionalità politica. Il contenimento dell’egemonia della scienza e della tecnica appare fattore determinante nel definire gli equilibri a livello geopolitico (in questo echeggiano richiami che tornano d’assoluta attualità come quello riguardante come possa essere possibile intrecciare l’autonomia della scienza, la finalità del produrre e la decisionalità politica);

2) L’intreccio tra politica e vita biologica, come stiamo osservando nell’attualità, favorisce il provocare uno spostamento delle procedure democratiche ordinarie verso disposizioni di carattere emergenziale che, dopo la questione sanitaria, adesso si trova di fronte il tema della guerra. Ciò avviene in una fase di forte crisi della democrazia liberale tra l’altro dovuta al processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato – Nazione”;

3) Emerge il tema della capacità cognitiva in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura e quindi di educazione globale.

Non possiamo stare fermi a contemplare ciò che accade senza disporre di idee e di organizzazione per poter attaccare, come sarebbe necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali.

Dal dibattito in corso sono fin qui risultati assenti due punti fondamentali:

1) quello della indispensabile dimensione sovranazionale della capacità di programmazione dell’economia almeno a livello di spazio politico europeo ponendo subito il tema del processo istituzionale a quel livello;

2) L’ idea di un ritorno all’indietro sul piano della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione”. con il ritorno di spirali nazionalistiche.

Il tema della guerra è rimasto all’ordine del giorno dell’agenda internazionale nel corso di questi anni e adesso si presente come punto dirimente di una situazione quanto mai delicata a livello planetario. 

Infine qualche annotazione statistica: nel 2022 la crescita della spesa per armamenti a livello mondiale è cresciuta del 4%. In termini reali di più di 2 miliardi di dollari.

Il numero di paesi NATO che hanno già raggiunto l’obiettivo del 2% di spesa militare sul PIL e passato da 3 nel 2014 a 7 nel 2022 e ormai si può considerare questo obiettivo un “a floor, not a celling”: un punto di partenza e non di arrivo. La Polonia punta a raggiungere il 4% e a raddoppiare le dimensioni del suo esercito. La Francia aumenta gli investimenti nei sistemi di difesa cibernetici, spaziali e sottomarini mentre Macron parla di “economia di guerra”.

La Germania punta a superare il tetto del 2%. Il Giappone prevede di aumentare a 51,4 miliardi di dollari le spese militari facendo registrare una crescita del 26,3% .Nel frattempo le spese militari dell’India sono cresciute del 50%: eguale percentuale per l’eterno nemico indiano, il Pakistan (che dispone dell’armamento atomico). Il budget della difesa cinese è aumentato del 75% nell’ultimo decennio.

L’Algeria fin dal 2022 aveva siglato un accordo con la Russia per una fornitura di armi per 12 miliardi di dollari, aumentando le spese del 130 per cento. Si rileva infine smentendo i luoghi comuni e come spiega “The job opportunità Cost War di Heidi Garret Peltier” un milione di dollari di spesa militare crea meno posti di lavoro rispetto alla stessa spesa in altri nove settori.

In compenso la spesa militare è quella che crea maggiori profitti per alcuni settori industriali e relativi “pezzi” di politica che li sostengono.

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