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Loving gun smoke

Proprio come delle mostruose alghe mutanti invadono la laguna di Venezia, i nostri schermi televisivi sono popolati, saturati da immagini e da opinioni degenerate. Sul piano dell’ecologia sociale ci sono uomini come Donald Trump cui viene permesso di proliferare liberamente, come una specie di alga, fino a impadronirsi di interi distretti di New York e di Atlantic city; questo individuo ristruttura aumentando gli affitti, cacciando fuori decine di migliaia di famiglie povere, molto delle quali sono costrette a divenire senza casa, simili ai pesci morti dell’ecologia ambientale” (Felix Guattari, Le tre ecologie).

In queste righe scritte quando Trump stava emergendo sulla scena (1989), Guattari prevede quel che oggi è chiaro come il sole: la deregulation neoliberista permette alle alghe mostruose di inquinare le acque.

È successo puntualmente, e il mare surriscaldato scatena tempeste spaventose che uccidono centinaia di persone sulla costa spagnola. Inoltre la deregulation permette la proliferazione di fonti di enunciazione che sono destinate a inquinare la Mediasfera e di conseguenza la Psicosfera. È successo puntualmente: folle psico-dipendenti votano per un manigoldo che promette la più grande deportazione della storia.

In quelle poche righe guattariane è descritta la genesi di un ambiente velenoso che genera violenza, sopraffazione, guerra di tutti contro tutti, e genera le condizioni di una tirannia cinica, barocca, distruttiva.

Ripensiamo alle lontane premesse di quella che chiamiamo deregulation. In principio c’è la creazione tecnologica del paradigma rizomatico. Grazie alla commercializzazione delle tecnologie elettroniche fra gli anni ’60 e ’70 fu possibile la diffusione democratica di fonti autonome di informazione. In Italia e in Francia  creammo centinaia di radio libere dopo aver condotto una battaglia culturale contro il monopolio di stato sull’informazione. Poi la creazione del world wide web rese possibile il proliferare di innumerevoli nuclei di net-cultura in tutto il mondo.

Ma nella breccia aperta dalla creatività diffusa si inserirono grandi gruppi economici e mafiosi (Berlusconi in Italia, Trump negli Usa, e gente simile in ogni paese del mondo) che avevano come scopo non certo la creazione, la cultura o l’informazione, ma l’accumulazione di capitale e l’acquisizione di potere politico illimitato sulle menti di una società psichicamente soggiogata.

Zed is dead, baby

Ho visto The Apprentice, il film di Ali Abbasi dedicato all’apprendistato del candidato repubblicano alle elezioni americane. Il titolo è tratto astutamente dalla trasmissione televisiva in cui, qualche decennio fa, Donald Trump sottoponeva a umiliazione candidati che si presentavano davanti a lui per essere insultati, ridicolizzati, interrogati, e alla fine licenziati (you’re fired).

C’era la fila per poter essere sbeffeggiati pubblicamente da quell’individuo dal ciuffo biondo. Perché? L’enigma Trump dimostra che gli strumenti dell’analisi politica non servono praticamente più a nulla. Per capire una simile mostruosità etica, psichica e politica occorre infatti parlare di umiliazione, tristezza epidemica, disprezzo di sé – occorre parlare di libertà illimitata per gli schiavisti, i tiranni psicotici e i fabbricanti di armi.

Il film di Abbasi riesce a farlo, in qualche misura; il suo forse non è un grande film, ma è utile a capire qualcosa del retroterra psichico, esistenziale, e mafioso in cui cresce Trump. È utile per capire quali sono gli strumenti del suo dominio sulla psiche di un popolo miserabile e immensamente ignorante.

Il film non parla della trasmissione The Apprentice, da cui opportunamente trae il titolo. Parla piuttosto dell’apprendistato di Trump stesso. Come ha fatto a diventare quello che é?

Per rispondere a questa domanda la psicoanalisi può esser più utile che la teoria politica.

La nipote dell’uomo arancione, Mary Trump, psicologa di formazione, ha scritto un libro dal titolo Too Much and Never Enough: How My Family Created the World’s Most Dangerous Man in cui si cerca di comprendere lo zio dal punto di vista psicoanalitico.

La prima impressione che ho provato leggendo il libro: la vita di quell’individuo è stata (ed è) immensamente triste. Il padre di quell’individuo era, secondo Mary, una persona sociopatica ma efficiente.

Anche il il film di Abbasi riesce a mostrare come il rapporto col padre sia stato decisivo. Donald ha vissuto infanzia e adolescenza nella paura dell’umiliazione cui il padre lo sottoponeva sistematicamente, ricavandone ferite psichiche profonde. “La convinzione fondamentale di Fred (il padre sociopatico) consiste in questo, nella vita c’è sempre un solo vincitore e tutti gli altri sono perdenti, e la gentilezza significa soltanto debolezza”. “O sei un perdente o sei un killer”, dice il papà al piccolo Donald.

Partendo da premesse di questo genere diviene impossibile godere del rapporto con gli altri, perché questo rapporto può soltanto essere di competizione, aggressione, o di sottomissione.

Ma purtroppo non è questo forse un tratto decisivo della personalità collettiva degli abitanti di quel paese che non sarebbe esistito senza genocidio degli indigeni e senza deportazione e schiavismo?

Le tre regole che Donald apprende da un avvocato mafioso e razzista (Roy Cohn) sono le seguenti: “Uno: attacca attacca attacca. Due: menti sempre. Tre: dichiara sempre vittoria e non ammettere mai la sconfitta”. Come osserva un personaggio del film, giornalista del Times, questi tre principi descrivono benissimo la politica estera statunitense degli ultimi trent’anni. Io direi che definiscono lo spirito pubblico degli Stati Uniti d’America, dall’inizio alla fine.

L’inconscio collettivo dei bianchi americani è una cantina fetida dalla quale sbucano mostri come quello che Tarantino ha raccontato in Pulp fiction. Ricordate quando Bruce Willis libera da quella cantina Marcellus, che Zed, il torturatore, tiene là sotto incatenato per fargli il culo? Non c’è modo migliore per spiegarci gli anni Trump, anche se purtroppo mi pare che Zed sia vivo e vegeto, e si prepari a fare il culo a un sacco di poveracci.

Nomen est omen

All’inizio del 2021, poco dopo il farsesco assalto al Campidoglio da parte delle truppe del generale Trump, pubblicai un saggio dal titolo The American Abyss. Quattro anni dopo, quell’abisso è sempre più profondo, e appare sempre più evidente un pericolo: la disintegrazione della mente americana può provocare una reazione a catena che finirà per cancellare la vita umana sulla terra.

Mi capita talvolta di pensare al nome di questo individuo: to trump significa superare, surclassare, travolgere – ma il sostantivo trump significa anche scoreggia, peto puzzolente. Se mai la frase “nomen est omen” ha avuto conferma, il caso è questo. L’uomo arancione è una scorreggia puzzolente che si propone (riuscendoci) di appestare l’atmosfera psichica, umiliando e minacciando.

Se avessi la disgrazia di essere un cittadino statunitense non voterei per nessuno dei due candidati: la signora Harris, che ha promesso che l’esercito americano sarà sempre dotato del massimo di letalità, è più pericolosa di Trump dal punto di vista europeo, perché con Harris presidente la guerra ucraina dilagherebbe fino alla soglia atomica.

Il signor Trump, che rappresenta consapevolmente ed esplicitamente gli interessi della razza bianca, sarebbe una catastrofe per i palestinesi e più in generale per i migranti, ai quali Trump e Vance hanno promesso “la più grande deportazione della storia”.

Ma è difficile immaginare come Trump possa essere più spietato di quel che sono stati Biden e Obama, che durante le loro presidenze hanno deportato più migranti di quel che ha fatto l’uomo scoreggia. Ed è difficile immaginare come possa essere più spietato con i palestinesi di come è stato Biden, il quale non ha mai interrotto l’appoggio finanziario e l’invio di armi agli sterminatori israeliani. Forse sarebbe solo meno ipocrita.

Psicosi memetica

Il 6 gennaio 2021, mentre il nuovo presidente democratico si preparava a prendere posto alla Casa Bianca e il Congresso si riuniva per compiere i suoi riti, una folla variopinta rispose all’appello di Trump a salvare l’America, e qualche migliaio di squilibrati marciarono verso il Campidoglio. Non incontrando seria resistenza da parte della polizia gli squilibrati entrarono nelle sale del Campidoglio, ruppero i vetri delle finestre, schiamazzarono sventolando bandiere confederate e bandiere con la svastica. Donald Trump incitava i rivoltosi a riprendere il potere con la forza.

Non vi riprenderete mai il vostro paese con la debolezza. Dovete esibire forza e dovete essere forti. […] Combattete. Combattiamo come dannati. E se non combatterete come dannati, per voi non vi sarà più un paese». Alla fine della giornata la folla se ne tornò a casa, come si fa dopo una bella scampagnata domenicale. Si contavano alcuni feriti, e una persona morta per un colpo sparato da un agente di polizia.

I commentatori democratici si scandalizzarono molto, come non capirli. Ma lo scandalo dei democratici per le falsità dette da Trump e credute dai suoi seguaci, fa ridere.

Dopo il 2008 i bianchi statunitensi, impantanati in due guerre dementi, umiliati dall’impoverimento seguito alla crisi finanziaria, terrorizzati dal crollo demografico, si sono aggrappati disperatamente alle loro armi, ai loro SUV, al diritto di mangiare carne di manzo, e di uccidere.

Quel che accadde a Washington il 6 gennaio del 2021 non fu un’insurrezione o un colpo di stato, ma un episodio insieme farsesco e criminale della guerra civile americana, che è l’intreccio di diversi conflitti: un conflitto tra nazionalismo bianco e globalismo liberale, uno tra popolazione bianca e popolazione nera latina e asiatica, un conflitto tra metropoli e aree rurali immiserite, un conflitto culturale tra laici e fanatici di qualche Geova sintetico, ma soprattutto una guerra civile psicotica di squilibrati armati che decidono di ammazzare il primo che capita a tiro.

Questo è l’abisso americano, non la diffusione di fake news.

Nel 2016 accadde l’impensabile: un nazista a colori vinse le elezioni. Da quel momento fu chiaro che la più grande potenza mondiale is running amok, è uscita di cervello, e possiede centoventi armi da fuoco per ogni cento abitanti. I democratici si lamentano perché i social media producono una valanga di falsità, ma solo un ingenuo può non aver capito che il falso non è estirpabile, perché l’America è il regno del falso.

Dal primo gennaio all’agosto del 2023 i morti per arma da fuoco erano ventotto mila duecento novantatré (saranno 42.385 a fine anno, ndr). Quelli uccisi in azioni di mass-shooting (come tradurre in italiano una parola così intimamente legata alla lingua dei pistoleri?) erano 474. Gli omicidi con arma da fuoco non intenzionali (insomma quelli ammazzati per sbaglio maneggiando una pistola) erano 1.070.

Un padre americano

Anche se consumano quattro volte più elettricità e molta più carne di ogni altro popolo della terra (o forse proprio per quello) i cittadini degli Stati Uniti conducono una vita miserabile.

La durata di vita media in Spagna è di 83,3 anni, in Svezia 83,1, in Italia 82,7, in Cina 77,1. Negli Stati Uniti, negli ultimi anni l’aspettativa di vita è di 76.1. Il 65 per cento degli abitanti non ha alcun risparmio, e se si ammalano hanno buone probabilità di finire su un marciapiede. Nel 2022 i morti per overdose da psicofarmaci oppiacei sono stati centomila. La più grande potenza militare del pianeta si sta disintegrando.

La parola “impensabile” ricorre nel discorso pubblico degli Stati Uniti negli ultimi anni.

We Need to Think the Unthinkable About Our Country è il titolo di un editoriale del New York Times del 13 gennaio 2022, firmato da Jonathan Stevenson e Steven Simon: “Le prossime elezioni saranno inevitabilmente contestate con cattiveria e forse in modo violento. È bene dire che la minaccia di destra agli Stati Uniti è politicamente esistenziale. Gli Stati Uniti come li abbiamo conosciuti potrebbero disgregarsi”.

The Unthinkable, inoltre, è il titolo di un libro di Jamie Raskin, uscito il 6 gennaio del 2022, nel primo anniversario dell’insurrezione psicotica. L’autore non è soltanto uno scrittore, ma un importante membro del Congresso, eletto nel Maryland nelle file del partito democratico. Inoltre Jamie Raskin è professore di Diritto Costituzionale, si auto definisce liberal, ed è padre di tre figli che hanno tra i venti e i trent’anni.

Uno di loro, Tommy, venticinquenne, attivista politico, sostenitore di cause progressiste, animalista, è morto la notte dell’ultimo giorno dell’anno 2020. Tommy ha scelto di morire, si è suicidato come si dice. Lo ha fatto dopo una lunga depressione, ma anche per effetto della lunga umiliazione morale che il trumpismo ha inflitto ai suoi sentimenti umanitari.

Per Jaimie Raskin la decisione finale di Tommy non è solo una catastrofe affettiva, ma l’avvio di una radicale riconsiderazione delle sue convinzioni. Leggendo questo libro ho condiviso il dolore di un padre e il tormento di un intellettuale, ma insieme mi si è rivelata la profondità della crisi che sta lacerando l’Occidente, e in particolare sta oscurando l’orizzonte culturale della democrazia liberale.

Il padre non ha più alcun mondo di valori da trasmettere al figlio.

Nel libro tre diverse storie si sviluppano contemporaneamente e si alimentano a vicenda: la prima è la storia del fascismo americano emergente. La seconda è la vita di Tommy, la sua formazione, i suoi ideali e la costante umiliazione della sua sensibilità etica. La terza è l’effetto del Covid19 sulla mente della generazione giovane che ha sofferto di più le regole del distanziamento.

Tommy ha sofferto di depressione, e nel suo ultimo messaggio ne parla: “Perdonatemi, la mia malattia ha vinto”. Jamie Raskin scrive: “Come molti giovani della sua generazione Tommy è stato trascinato dal Covid in una spirale maligna. Con la scuola chiusa la vita sociale ridotta a un fragile minimo con maschera, i viaggi un incubo. Le relazioni difficili, costretti in una intimità prematura e goffa, o piuttosto in un oblio virtuale.

Un sacco di giovani hanno sofferto la disoccupazione, la contrazione economica e incertezza profonda. Molti, come Tommy, sono stati costretti a tornare a casa dei loro genitori in una camera piena dei libri delle scuole superiori… Tommy si era dichiarato anti-natalista perché non poteva accettare la prospettiva di impegnare un altro essere umano a vivere una vita destinata a essere dominata dal dolore dalla tristezza e dalla sofferenza”.

E ancora: “Per quanto io e Sarah cercassimo di descrivergli la gioia dell’avere figli, Tommy non accettava di rinunciare alla sua determinazione perché nessuno ha il diritto di imporre l’inevitabile esperienza del dolore su un altro. Non mi consola molto sapere che un’enorme e crescente parte della generazione di Tommy pensa lo stesso sulla questione di non avere figli”.

L’anti-natalismo è probabilmente un effetto della depressione, come no, ma questo dimostra che la depressione può essere una condizione di saggezza, non solo una malattia. Diviene una malattia quando non riusciamo a comprenderne il messaggio, e cerchiamo disperatamente di conformarci alle norme dominanti di produttività, efficacia e dinamismo. Respingere il messaggio della depressione, riaffermare la forza della volontà contro il messaggio della depressione è un modo per cadere in una deriva suicida. Se siamo capaci di comprendere il significato e la saggezza della depressione ecco possibile un’evoluzione cosciente e condivisa della depressione.

Nel caso di Tommy questo è evidente: il suo de-natalismo è forse più saggio della decisione irresponsabile di mettere al mondo innocenti destinati a una vita quasi certamente infelice.

Dopo la morte di suo figlio la percezione di Raskin cambia: il suo ottimismo di costituzionalista è scosso dall’esplosione di forza brutale che tende a prevalere sulla forza della ragione, e le sue certezze democratiche vacillano di fronte al dilagare della depressione. “Improvvisamente il mio ottimismo costituzionale mi imbarazza come fosse una vergogna. Temo che il mio luminoso ottimismo politico, quello che molti miei amici hanno più apprezzato in me, sia divenuto una trappola di auto-inganno di massa, una debolezza che può essere sfruttata dai nostri nemici”.

L’ottimismo politico di questo generoso professore di legge è scosso dalla improvvisa comprensione che la democrazia liberale poggia su un fondamento fragile. Infatti scrive: “Sette dei nostri primi dieci presidenti erano proprietari di schiavi. Questi fatti non sono casuali ma nascono dall’architettura stessa delle nostre istituzioni politiche”.

Lo schiavismo fa parte del bagaglio psichico della nazione statunitense. Come può questa nazione pretendere di essere considerata come un esempio per qualcun altro? Come possiamo evitare di pensare che questa nazione è un pericolo per la sopravvivenza dell’umanità?

La legge del padre non ha più alcun potere sul caos

Oggi, primo giorno del novembre 2024, Trump rischia di diventare nuovamente presidente, mentre il mondo, per volontà americana, è entrato in un ciclo di guerra civile psicotica i cui esiti sono imprevedibili, anzi propriamente impensabili. Il padre non ha più un mondo di senso da consegnare al figlio. La legge del padre non ha più alcun potere sul caos.

Chiunque vinca queste elezioni drogate da miliardi di dollari, il caos è garantito.

* da Comune.info

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3 Commenti


  • ANNA

    Condivido in toto. Peccato che quando sostengo queste tesi e cerco di spiegare le cosiddette rivoluzioni colorate, vengo accusata di “antiamericanismo” a prescindere. Con la solita confusione tra America e USA, che mi fa imbestialire


  • ugo

    Io non sarei così negativo su Trump. È vero che ideologicamente è un po’ distante, ma se vince la Harris, tanto carina e inclusiva, l’Europa continuerà a seguire l’America come se se fossimo ancora negli anni ’50: linea dura sull’Ucraina, passività assoluta in Medio Oriente, etc…. Ma il tempo della superpotenza unica è finito, cercare di imporlo a forza come farebbe la Harris porterebbe alla guerra. Ai nostri leader Trump non piace: potrebbe essere l’occasione per distaccarsi dall’America e seguire una politica più orientata all’equilibrio.


    • Redazione Contropiano

      Come disse Fidel nel 1960, “impossibile distinguere tra due scarpe dell’imperialismo”… E dire che allora c’era in ballo un tale Kennedy…

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