Tentiamo un esercizio di immaginazione. A volte può essere utile. Proviamo a immaginare che domattina il governo Meloni – l’esecutivo dei cattivoni insensibili – emetta un decreto legge che recita così: “E’ vietato affittare immobili a cittadini dal cognome straniero”.
Bum. Brutta storia, vero? Governo infame, fascistacci. Un po’ eccessivo, troppo hard, poco credibile come scenario, foss’anche solo fantastico? Vogliamo provare ad edulcorare un po’ l’esercizio immaginativo? Allora diciamo che nel nostro fantomatico decreto il governo scriva che “per il proprietario di immobili locatore, è possibile discriminare su base etnica la scelta dei possibili affittuari” (o qualcosa del genere). Sempre terribile, no?
Certo, davanti alla presentazione di un simile decreto interverrebbe di sicuro Mattarella che lo rimanderebbe alle Camere. Poi c’è comunque la Corte Costituzionale; e due o tre corti europee. E poi si farebbero grosse manifestazioni antigovernative: Elly ballerebbe sul palco con Elodie, Repubblica pubblicherebbe un paio di editoriali al giorno citando Altiero Spinelli, Montesquieu e Kennedy. L’indignazione del popolo della sinistra si impennerebbe: fermate i nuovi fascisti!
Ecco, fine dell’esercizio distopico. Torniamo alla realtà. Che però alle volte risulta più distopica dell’immaginazione, a quanto pare.
Perché il succo di quel decreto immaginario (niente case agli stranieri) è già pienamente operativo nella realtà italiana, soprattutto nelle medie città opulente del nord Italia: anche senza la copertura di provvedimenti di legge xenofobi, affittare una casa per un cittadino straniero è diventata un’impresa proibitiva.
Chi ha un contratto in essere se lo tiene stretto ma quando andrà a scadenza, il rischio sfratto per mancato rinnovo è altissimo: le alternative per i proprietari sono diverse e più allettanti, rispetto ad una normale locazione per famiglie.
Chi invece un alloggio lo sta cercando attraverso i canali tradizionali, è condannato ad una via crucis infinita e disperante: basta un cognome straniero – o un non adeguato livello di melanina -, e la faccenda si fa durissima, anche a fronte di buste paga regolari e cittadinanza acquisita. Gli unici proprietari generosi e democratici sono quelli che ficcano dieci persone in un tugurio ricavandone una rendita folle – in quei casi limite si attenua il pregiudizio xenofobo.
Non è stata necessario alcun provvedimento legislativo, per arrivare a questo risultato. E non sono stati necessari neanche i famigerati cartelli – tipo “non si affitta ai meridionali” – che funestavano le città industriali del nord Italia fino agli anni ’70.
E’ bastato lasciar fare al mercato, che in questo caso (come più o meno sempre) non si basa sulla ingenua legge della domanda e dell’offerta, ma costruisce artificiosamente la scarsità di un bene per gestirne la fruizione secondo fini di massima profittabilità, usando spesso criteri extra economici che incidono pesantemente sulla realtà sociale.
I cambiamenti del mercato della casa in Italia sono stati enormi. E tutti concentrati nel breve volgere di un trentennio. Tra gli ’80 e i ’90, gli italiani diventano un popolo di piccoli proprietari, e su questo passaggio si costruiscono tante retoriche mercatiste, tra cui la campagna di lungo periodo per l’abolizione dell’equo canone e l’esaurimento progressivo delle risorse destinate all’edilizia pubblica.
Si pensa che il problema casa sia stato più o meno definitivamente risolto. La maggior parte delle famiglie italiane ha un tetto di sua proprietà sulla testa (o meglio: ha un mutuo che garantisce il suddetto tetto e che pagherà salato per tutta la vita). Quel 20% che resta fuori dai circuiti della proprietà troverà uno sbocco nel mercato dell’affitto finalmente efficiente, perché deregolato e detassato (cedolare secca).
Vengono avanti però due tendenze inarrestabili: i giovani, pur cresciuti in famiglie con casa di proprietà, non riescono ad accedere a loro volta né all’affitto né all’acquisto, a causa del continuo incremento dei prezzi e alla miseria delle retribuzioni sempre più precarie; e soprattutto milioni di “nuovi italiani”, spesso lavorativamente solidi, restano impigliati dentro la jungla della locazione, che diventa via via più selettiva su base etnica.
E’ la dimostrazione scientifica che il mercato non alloca in maniera “ottimale” le risorse. Migliaia di nuclei familiari sono alla disperazione, mentre migliaia di vani restano vuoti, in attesa del giusto locatario, cioè del segmento di platea richiedente affitto, che nelle condizioni specifiche del territorio, risponda perfettamente alle esigenze della proprietà.
Il mercato non esiste, è una determinazione politica, è un rapporto di forze, è la camera di compensazione dove convergono o si scontrano gli interessi proprietari. Le forze sociali sono anonime e collettive, ma non si muovono mai sui binari delle attese razionali. Altrimenti il problema dell’abitare non sarebbe diventato un dramma.
Il tema casa non riguarda propriamente “gli stranieri”, ma alcuni milioni di italiani di qualsiasi etnia o condizione burocratica. E questo è vero – intorno al nodo dell’abitare si intersecano e si sovrappongono le linee del colore, quelle di classe e anche quelle generazionali. Si tratta di un groviglio politico-sociale di drammatica complessità.
Ma chi ha un cognome straniero – segnatamente arabo – già in partenza, nel suo rapporto col mercato dell’affitto, accusa un vistoso handicap che “precede” il dato oggettivo del reddito. E questo è ancora più gravoso e scandaloso. Alla faccia del mercato, non bastano più neanche i soldi, i contratti, le garanzie.
Il regime di apartheid è pienamente e pubblicamente in atto. Lo sanno i governi, lo sanno le amministrazioni, lo sanno le forze politiche e sindacali: è un dramma quotidiano che si svolge sotto gli occhi di tutti. Le vittime di questo dramma non sono “profughi e clandestini” (che hanno zero reddito e lo stigma della pubblica diffidenza): le vittime sono un pezzo di forza lavoro attiva pienamente inserita dentro i meccanismi produttivi.
Gente che ogni mattina all’alba si sveglia per andare a riprodurre ricchezza per il paese in cui vive; il quale paese, però, pretenderebbe che dopo le canoniche 8-10 ore di lavoro, i medesimi soggetti scomparissero in qualche modo dalla vita sociale – entrassero in una dimensione astrale, ineffabile, invisibile, non avessero bisogno di dormire o di aggregarsi e men che meno di ricongiungersi ali loro nuclei familiari.
I sindaci del nord queste cose le sanno bene. Allargano le braccia. Non hanno il profilo o l’autorevolezza per contrastare i meccanismi legati alla pura rendita che ingrassano il patrimonio di parte dell’elettorato autoctono. In taluni territori, gli stessi sindaci passivi testimoni del dramma sociale in corso, sono abituati a cercare voti nelle moschee e nelle comunità straniere, promettendo in fase di campagna elettorale, rapidi e risolutivi interventi.
E purtroppo li trovano pure, i voti, in quegli ambiti, perché i cittadini stranieri finiscono col credere che, stringi stringi, è meglio affidarsi a un pagliaccio democratico piuttosto che a uno reazionario – fingendo di ignorare che alla fine lavorano nel medesimo circo.
Il regime di apartheid definisce sul piano legislativo l’appartenenza a gerarchie costituite su base etnica. In Sudafrica neri, mulatti e asiatici godevano di diritti, agibilità e redditi differenti, fino alla caduta del regime boero. In Israele vige il medesimo sistema di differenziazione per la corposa minoranza araba.
Da noi, nella “decorosa” vecchia Europa, simili barbarie legislativamente conclamate non sarebbero possibili. Siamo nella patria del diritto e nella culla del liberalismo. Qui le forme della segregazione si costituiscono nei fatti, nella forza delle cose, nei movimenti contemporanei di migliaia di microattori sociali (la piccola proprietà) che vengono orientati nella “giusta direzione” da alcuni macroattori (la grande proprietà). E tutti spingono dalla stessa parte: aumentare i profitti e minimizzare il rischio di impresa, tagliando fuori dal mercato pezzi del corpo sociale ritenuti indegni o inaffidabili.
Ed è facilissimo farlo: nessuno impedisce al mercato di strutturarsi su base etnica, come sta di fatto accadendo. I freni alla speculazione (vedi le limitazioni agli affitti brevi) sono pannicelli caldi appoggiati su lacerazioni profonde. Servirebbe il chirurgo e si usano i rimedi della nonna – gli appelli, i contributi per l’affitto e il reperimento improvvisato di ogni ambiente possibile, parrocchie, associazioni, alloggi temporanei, per affrontare l’eterna emergenza invernale, che ormai riguarda migliaia di famiglie che i comuni devono collocare in qualche modo al riparo dal gelo.
Fioriscono in ogni città, ormai anche nei piccoli centri, gli accampamenti formati da tende, lenzuola, giacigli improvvisati. I piloni dei cavalcavia cittadini delimitano il palcoscenico su cui la città dei “normali” osserva lo spettacolo della povertà moderna.
Quei bivacchi sono destinati agli ultimi arrivati, coloro che alla totale mancanza di prospettive di integrazione, uniscono malattia mentale e alcolismo, conseguenze inevitabili del degrado estremo in cui sono condannati a vivere da quando hanno messo piede nel paese. Sono depositi urbani di scarti sociali, questi luoghi.
Difficilmente chi approda in quei gironi poi riesce “a riveder le stelle”: sono eccedenze umane, che periodicamente finiscono scacciate da un’area all’altra della città, in attesa che la natura faccia il suo corso.
Meno visibili sono invece le tante storie di singoli lavoratori dignitosi (in qualche caso famiglie) che hanno perso l’alloggio e scelgono di appartarsi, dormendo dentro vecchie auto, parcheggiate magari nei pressi delle case da cui sono stati sfrattati. La mattina si svegliano anchilosati e raffreddati.
Si lavano in qualche bar compiacente, in attesa che un’altra giornata di ricerche convulse li illuda del fatto di non essere ancora scivolati nel buco nero degli accampati. Le immobiliari speculano persino su queste persone che non diventeranno mai veri e propri clienti: ormai chiedono soldi anche solo per accedere ai numeri telefonici dei proprietari, dai quali arriverà sempre la medesima risposta – ci dispiace, affittiamo solo a studenti.
C’è poco tempo per piangersi addosso, però; ripiegate le coperte umide nelle auto bisogna correre al cantiere o in fabbrica, ci mancherebbe che perdessero anche la preziosissima busta paga, che ormai è un documento salva-vita. Si sentono ancora cittadini produttivi, onesti, certificati, con un contratto di lavoro. Non accettano di finire nel girone degli esclusi, dei dannati, dei clandestini, solo perché nessuno affitta loro un immobile o una stanza.
Vanno avanti testardamente e sperano che un amico, un conoscente, un assistente sociale, un imam o un prete, gli passi il numero di telefono giusto a cui attaccare le proprie speranze. I bambini che finiscono in questo tritacarne, strappano l’anima: non sanno come dire ai loro amichetti che vivono provvisoriamente dentro un residence insieme alla mamma, mentre il papà dorme in macchina (i servizi sociali sono spesso molto scrupolosi nel dividere le famiglie). Hanno con sé solo la roba della scuola e qualche vestito; i giocattoli e tutto il resto della loro vita è stipato dentro il garage di qualche amico di famiglia.
Il disastro casa riguarda una fetta crescente di cittadini; ma per i “non italiani” il dramma è più stringente, più soffocante, con sempre meno vie d’uscita. Un segmento crescente di classe lavoratrice è destinato a finire in strada o nei ricoveri di fortuna della pubblica assistenza, continuando – beninteso – a produrre valore. Quanto può durare? E per quanto tempo potremo sopportare una segregazione razziale silenziosa che disciplina la nostra vita sociale e definisce così arbitrariamente i confini tra chi è “dentro” e chi è “fuori”?
E se domattina i cittadini stranieri iniziassero a scioperare in massa contro l’apartheid italiana?
* da Carmilla
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