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L’Europa che diventa “machista” e guerrafondaia

Illustre Kaja Kallas,

provo un senso di assoluto disgusto nei confronti della sua nomina a Commissario UE per la politica estera: perché mi pare evidente che si tratta di una decisione programmatica, dunque piena di significati e di esiti pensati e vissuti come esistenziali. Ora comprendo meglio il senso profondo della foto che la ritrae mentre imbraccia un lanciamissili Javelin; se gli incarichi si assegnano per affinità politica, in quella foto è racchiuso il futuro dell’Europa, e onestamente ne ho paura.

Perché questo è, ai miei occhi, lo sfoggio di tanta virilità militarista: una vera e propria débâcle dell’essenza aperta e pacifica dell’Europa. Lei, infatti, probabilmente senza neppure avvedersene, in quella foto lo ribadisce in una forma che è già il contenuto: il machismo come orizzonte culturale e la politica europea appiattita sulle armi.

Vorrei solo obiettarle che il militarismo è la secca sulla quale si arena la democrazia, ma temo che sia inutile; lei ha ormai adottato una sorta di “metafisica della guerra” e dubito possa modificare la sua attitudine bellica.

Io sono un ignorante, e non ho certo le sue competenze, però il senso stesso della democrazia esclude il godimento che viene dalle armi. Ci pensi un attimo, cosa rimanda quell’immagine? L’appagamento della potenza, l’autorevolezza della violenza; in sintesi, la delizia del “fallo”. Sì, il suo gesto è davvero “pornografico”, ossia distorce il desiderio di pace insito nella democrazia, poiché rappresenta in maniera esplicita quella cosa che ne è la negazione, la tendenza alla guerra.

Preciso fin da subito: non sono un “pacifista”; per inclinazione giovanile, resto fedele a qualche lampo di antimilitarismo, per il quale il connubio tra politica e industria militare è sostanzialmente dannoso per la democrazia e le classi popolari. Dunque, non mi appartiene l’idea di un pacifismo astratto che non si misura con i conflitti; ma è una sottigliezza, mi consideri pure un “pacifista”, non me ne dolgo.

Io appartengo a una di quelle generazioni per le quali il militarismo era il principale ostacolo alla pace e al pieno sviluppo, in senso egualitario, della democrazia. Erano generazioni che comprendevano il valore della partecipazione, manifestando apertamente contro la «cinica politica di egemonia» degli stati imperialisti – e, in particolare, di quella degli Stati Uniti – e contro la militarizzazione della società.

Magari ingenuamente, ma erano generazioni che non accettavano la deriva autoritaria e guerrafondaia dell’Occidente; e che, proprio per questo, si mobilitarono contro le diverse ingerenze o aggressioni, dal Cile all’Iraq.

Insomma, appartengo a una di quelle generazioni che sapevano che cos’era l’ideologia liberale e atlantista, bellicista e profondamente ingiusta, e che si sottraevano alle determinazioni identitarie – nazionalistiche o di sistema – per rivendicare la “comune umanità” di ogni popolo della terra.

Generazioni che aspiravano a una diversa forma delle relazioni sociali, anche a livello internazionale. Egualitarie, nel senso dell’eguaglianza di tutti i popoli; e internazionaliste, nel senso della solidarietà ai popoli che subivano una qualche forma di oppressione.

Detto altrimenti, io appartengo a quelle generazioni che volevano spingere la democrazia sino alla sua verità più profonda, che è quella di una forma «in cui si esprime e si riconosce un’autentica possibilità di essere tutti insieme, tutti e ognuno». Una democrazia dell’equità, non del privilegio.

Naturalmente sapevamo che queste due forme di democrazia non sono compatibili, e che il passaggio dall’una all’altra è il frutto di un conflitto e di mediazioni politiche in balia dei rapporti di forza. Ma quelle generazioni sapevano che la democrazia del privilegio è la democrazia della borsa, del colonialismo, dell’accentramento della ricchezza in poche mani, del connubio tra politica e industria militare; è la democrazia che vuole “esportare” se stessa per affermare la propria egemonia sul mondo, non esitando per ciò a bombardare altre nazioni, invadere terre, violare il diritto internazionale.

Forse serve che lo dica in modo semplice. Io appartengo a quelle generazioni che non credevano nel nucleo valoriale dell’ideologia liberale: il libero mercato, l’individuo competitivo, il business come unico “orizzonte di gloria”, tutte dimensioni che producono diseguaglianze e povertà; con l’impazienza degli utopisti, e magari anche con la vertigine degli ingenui, noi auspicavamo una democrazia “radicale”: non più del profitto, bensì dell’azione finalizzata alla costruzione di una convivenza tra eguali. Sul piano internazionale, una democrazia, per così dire, dei popoli, diversa e contrapposta a quella degli interessi particolaristici delle nazioni più forti.

La realtà per noi era semplice. Se questa seconda rende il mondo un posto meno libero, la prima ha un’unica ragione di esistere: liberarsi della sua parte negativa, facendo diventare la democrazia lo spazio dell’uguaglianza e della pace.

In definitiva, io appartengo a quelle generazioni che sono state sconfitte dalla storia.

Oggi la democrazia è sempre più vincolata ai capricci delle oligarchie occidentali, e assomiglia sempre di più a un fortilizio ben difeso, dove i “senza proprietà” – le classi popolari – raccolgono le briciole o fungono da mano d’opera (spesso sottopagata). La deriva bellicista non si è fermata, tutt’altro; oggi il militarismo si presenta come nuova forma, quasi naturalizzata, della società e acquista un’importanza sempre maggiore.

Tant’è che la propaganda è ormai impegnata nel tentativo di fare digerire la consonanza di democrazia e militarismo. Esattamente il contrario di quanto volevano le generazioni di cui faccio parte.

D’altronde, ci troviamo in un’epoca di aperta crisi della forma di egemonia “a guida” americana, tale da spingere le élite ad essa legate a giocare la carta del vitalismo bellico; se, da una parte, si fa esplicito il conflitto con altre forme di egemonia, dall’altra si sviluppa il “dispositivo comunicativo” del militarismo, cioè una strategia retorica volta ad asservire la democrazia al riarmo e all’intervento militare.

Adesso, la democrazia ha preso una strada che è proprio quella avversata dalle generazioni di cui faccio parte. La stessa idea di “comune umanità” viene costantemente messa sotto scacco da particolarismi e dalle intemperanze di diversi nazionalismi, ognuno propenso a difendere o conquistare nuovi confini o risorse; nuovi protagonismi, in sintesi, si scontrano con vecchie forme di egemonia, trasformando il mondo in un grande campo di battaglia.

Le regole del diritto internazionale, per esempio, divengono sempre di più regole astratte, da invocare soltanto quando permettono di ottenere un vantaggio geopolitico; in questo senso, il caso del genocidio di Gaza è la prova dell’ipocrisia occidentale sulla questione.

È in questo quadro che avviene il grande attacco – mediatico e politico – contro il “pacifismo”, da intendersi non tanto come movimento organizzato, bensì come quella posizione di chi vuole davvero evitare il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.

L’attacco al “pacifismo” è necessario, soprattutto perché resta viva, nella stragrande maggioranza della popolazione, l’avversione alla guerra. È un po’ come se qualcosa delle generazioni di cui faccio parte si fosse cristallizzato nelle generazioni successive; e infatti i fanatici della democrazia militarizzata, ben rappresentata dal liberalismo atlantista, si trovano di fronte una “opinione pubblica” in gran parte contraria a ogni tipo di impegno militare, persino a quello più blando come la vendita di armi.

L’aspetto interessante è che, benché sia ridicolizzata o liquidata come utopia, questa attitudine “pacifista” resiste agli attacchi dell’intellighenzia in servizio permanente per la guerra. Ed è per questo che le élite occidentali, dalle quali partono gli inviti al riarmo, sono particolarmente attive sul fronte della propaganda.

Mi pare evidente che il suo incarico avvenga all’interno di un contesto dove è viva la contraddizione tra il nuovo corso militarista delle istituzioni europee e le aspirazioni “pacifiste” dei popoli europei. Lei è la fedele rappresentante della febbre che spinge a vincolare la democrazia all’apparato militare, ossia di quella insana idea – anche idiota, se mi permette – che il riarmo e la disponibilità alla guerra siano la sole strade per difenderla.

Arrivato a questo punto, mi permetto di dirle che trovo davvero triste, per non dire stomachevole, l’immagine che Ella rimanda nella foto da cui sono partito; in quella sua posa c’è qualcosa che mi fa orrore, una visione del mondo che non solo non mi appartiene, ma che rifiuto con tutto me stesso. Se adesso arrivo a scriverle è per esprimere il mio disgusto.

Resti inteso che non lo faccio per farle cambiare idea, ma per allontanarmi ancora di più da tutto quello che Ella rappresenta.

Mi perdoni, se le parrà.

* da Facebook

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