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I transiti senza meta: marginalità e identità sessuali

Il limone per il pesce, la patatina calda calda, la melenzana nera nera…” una sfilza di doppi sensi divertentissima che ascolto ogni volta che passa con il suo carretto il fruttivendolo del quartiere. Un uomo imprigionato in una diversità che non riesce a creare identità, ma solo la sottile ironia del suo vendere. L’omosessualità, pur essendo diventata argomento accettato nei salotti benestanti, lascia crudeli spazi di emarginazione e sofferenza nei ceti bassi, come nelle popolazioni migranti.

XY è un bambinone di mezza età che ha sempre lavorato con i pesci. Un destino il suo che sovrappone una vocazione sessuale, ad una mansione professionale di garzone di pescheria. Sempre a nero, con quella puzza addosso che era la cosa più lontana dalla sua voglia di essere femmina fatale. Bambino grassottello, rossiccio e goffo viveva la sua confusione sessuale con vergogna.

Una lama sottile che gli faceva percepire il suo corpo come indegno: essere usato e abusato continuamente creava in lui un doppio cappio, perché si sentiva al tempo stesso sporco, ma gratificato dalle brutali attenzioni che riceveva. Praticamente viveva anelando le angherie a cui andava volutamente incontro, ma provando uno strazio lacerante dopo averle subite.

L’ossigeno al cervello, quando un bambino si crea uno scafandro impenetrabile, non arriva circolare più e anche a scuola era svogliato, quasi che le parole non riuscivano a sedimentarsi nella memoria. Una bidimensionalità del percepire la realtà esterna che condizionava i suoi scarni ragionamenti. Una dissociazione permanente che gli procurava altre punizioni, sebbene di altro tipo, compresa una emarginazione circolare nel suo mondo dominato da pirati.

Lui, fragile femminuccia, si doveva limitare a essere il gioco dei suoi coetanei forti, o degli adulti bavosi. Cosi è finito a maneggiare i pesci in qualche parco di periferia o nella pescheria. Una trance livida, fatta di rabbia afona e auto distruttiva. Non un amore, una amicizia, un ricordo della sua giovinezza che segni un confine, un prima e un dopo, ma il susseguirsi di giornate tutte uguali, dove l’abuso era l’unico meccanismo attraverso il quale riusciva a relazionarsi agli altri.

La stessa percezione della identità sessuale, in alcuni ambiti sociali, passa non tanto dall’oggetto del desiderio (patatina o biscottino per intenderci), ma dal ruolo che si assume all’interno dell’atto erotico. Così capita che presunti etero in preda a qualche agitazione, trovino in quelli come XY un sollievo immediato, meccanico, nel quale però l’elemento umano non esiste. La dolcezza, la seduzione, la stessa comunicazione, è ridotta al lumicino. Un cottimo dell’amplesso che non stratifica, non crea legami e che, anche laddove ci sia consenso, crea un vuoto dove si diventa corpi e basta. Buchi, bocche, mani e poco altro.

L’ergastolo del pesce di XY, quindi, è un ripetersi ossessivo e senza grazia di mansioni fredde: pulire e svuotare pesci come servizio a clienti o amanti di cui non conosce nemmeno il nome. Una prostituta a gratis o a pagamento: in questi casi di bisogno e disfunzionalità ogni distinzione è inutile, perché lo stesso concetto di pagare assume valenze ambigue, quasi consolatorie, che possono andare oltre il dare/avere immediato.

L’elemento compulsivo può trasformare la sfera erotica di queste persone in qualcosa di molto simile ad una tossicodipendenza: con tanto di giuramenti tipo mai più, o gli smetto quando voglio. Anni vuoti, uno appiccicato all’altro, dove si è trovato quasi vecchio senza avere costruito nulla. Poi la svolta: il Reddito di Cittadinanza. Finalmente XY è diventato Y.

Lasciata la pescheria, iniziato ad indossare vestiti femminili e a farsi crescere i capelli. Non ha preso in considerazione l’operazione, perché è finalmente felice di essere esattamente quello che è. Fa niente che a vederla così sembra una maschera ridicola di carnevale: è donna, è Pasqualina, è libera. Anche le parole, le associazioni di idee un tempo latitanti dal suo sentire, sono spuntate all’improvviso: fluenti, imprevedibili, piene di sguaiata poesia.

Un dialetto ricco, rotondo, che dopo decenni di silenzio, diverte tutto il quartiere. Forse è una specie di feticismo, per cui attraverso l’abbigliamento femminile, scopre una sicurezza, una spassosissima ironia, che non aveva. Ha anche un amore: l’ennesimo sbandato che si approfitta di lei, vero, ma almeno è stanziale. È lì che le gira attorno tutto il giorno e, anche se finge indifferenza, tutti sappiamo che è il suo maritino.

Adesso non so che fine ha fatto. Io ho cambiato casa, il suo Reddito di Cittadinanza è stato cancellato e, in casi come il suo, si aprono solo due strade: tornare nella fogna delle prostituzioni o in quella del neo schiavismo. Il Welfare, quando è elemento statistico, induce bellissime riflessioni pro e contro, ma quando è destino personale diventa sentenza: sentenza di ergastolo o sentenza di morte.

Il proto femminiello, l’uomo/donna, nel passato tribale aveva una centralità sociale. Era il sacerdote pagano, il guaritore, il saggio: colui che impersonando le due entità opposte, sommava sapienza e non scuorno. Chissà se i sacerdoti cattolici sono vestiti da donna proprio in memoria di questo? Oggi nei luoghi della moda e dello spettacolo le identità sessuali sono recepite, mostrate, come segno distintivo. Mentre nelle periferie dell’abbandono continuano ad essere volano di emarginazione e paura.

Per questo in certi ambiti sociali e nei fenomeni migratori la spinta a entrare nei meccanismi della prostituzione e più in generale di una specie di doppia clandestinità dell’esistere è necessità alla sopravvivenza e non scelta libera. Lucio, ad esempio, è un domestico peruviano. Si è convertito alla religione evangelica e fa la vita di un fanatico. In realtà è ossessionato dalla sua omosessualità e tenta l’impossibile per nasconderla anche a sé stesso.

Nel suo caso si invertono i fattori del problema: per cui auto giustifica il passato “peccaminoso” con la sua povertà e il suo sogno di venire in Italia. Mentre, nonostante il fanatismo e la moglie suorina, è evidente che la sua femminilità e il suo desiderio sono da tutt’altra parte. Marginalità e identità sessuali, in contesti di povertà, si intersecano in giochi complicati e, spesso, non si capisce dove iniziano gli stessi meccanismi identitari e dove, invece, quelli del bisogno. Così anche il suo di transito esistenziale, sessuale e persino teologico non ha meta.

Molti ragazzini del Terzo Mondo, arrivati da noi, sono costretti ad imbottirsi di farmaci per avere erezioni e soddisfare i clienti italiani che, però, rivendicano l’utilizzo di questi giovani corpi come un loro diritto. Così come, praticando questo tipo di sesso per necessità, si entra in un territorio del possibile in cui si smarrisce la propria identità, senza acquisirne una nuova. Transiti senza meta, appunto. Come dire: ne carne ne pesce, intendendo la carne nel suo più ampio concetto di desiderio e del pesce, come contraltare alla propria carne, ma anche come oggetto di scambio economico e volano di agevolazioni varie.

Eppure, in molti salotti snob, non si coglie questa lotta di classe tra i generi sessuali dei ricchi e quelli dei poveri, tra le libertà personali consentite e legittime e il sopruso al quale il ragazzino si sottopone per fame. Persino le transizioni di genere, in molti casi riguardanti migranti o poveri, vengono interrotte prima dell’operazione finale: senza l’uccello la trans non ha più clienti. Così si rimane sospesi e il mondo della prostituzione diventa carcere dal quale non si esce più.

Si batte fino a che si può e, per quanto può sembrare paradossale, nel mondo della putaria quasi ogni offerta trova la sua domanda: una piena occupazione difficilmente spiegabile in una società post produttiva. Un universo pieno di desideri oscuri, dove anche avere il cliente che desidera farsi defecare addosso sembra la cosa più normale che ci sia. Una manna dal cielo, perché basta prendere una purga e la giornata di lavoro si è svoltata.

Così tra vizi dei clienti e capricci logistici delle prostitute o prostituti più giovani, si ha sempre una potenzialità economica: si oscilla tra il fare la balia paziente a qualche giovane collega o fare da balia sporcacciona a qualche cliente strano. Però la vita stessa diventa come un cul de sac nel quale ogni bilancio, ogni idea di tornare a casa o fare altro, viene rimandata in un eterno presente, dove ogni progetto scompare.

Poi, stanchi e spesso malati non resta che deambulare nei nostri cimiteri delle farfalle. No luoghi, discariche delle nostre città, dove si presenta il conto dell’ergastolo della prostituzione. Liquidi amniotici lividi di madre terra, dove si resta a mollo nel mondo tremando come foglie al vento, nell’attesa di diventare cibo per i vermi. Cimiteri dove si è apparentemente vivi, ancora aggrappati a qualcosa, ma senza sapere a cosa. Che sia la Stazione di Napoli, o la zona adiacente Viale Padova a Milano, ogni città ha il suo cimitero delle farfalle. Luoghi che in piena luce mostrano l’irrimediabilità di questi abbandoni. Volti sfatti da transiti senza fine.

In una società dove la centralità del sesso, visto perlopiù come espressione principe del consumismo, è ostentata, stilizzata da una moda atta a trasformare il corpo in un oggetto di desiderio, non si parla mai però della sessualità dei poveri, dei fragili, dei migranti, dei detenuti. Argomento tabù, proprio perché smaschera la componente alienante del turbo capitalismo, la stessa forza che spinge ai margini le esistenze dei diversi, quando questa diversità non è supportata da un bel conto in banca.

Lo schiavismo sessuale che trasformava le mogli dei soldati sconfitti in schiave da dividersi tra i vincitori, bottino di guerra, vede oggi i medesimi meccanismi, ma basati sulla guerriglia urbana delle massonerie finanziarie, che individuano chi può esercitare un diritto e chi, invece, deve subirlo. Come al solito è la classe sociale, la ricchezza, unita negli ultimi decenni ai migranti che divide l’Umanità in chi ha diritto di gestire le proprie pulsioni e compulsioni e chi deve semplicemente subirle. Un classismo odioso che infetta anche pezzi di sinistra illuminata.

Alessia è una travestita brasiliana, il primo rapporto orale lo ha avuto a 14 anni al suo paese. Gli è stato detto di andare in quel bar e aspettare che un turista si facesse avanti. Una coca cola, una breve trattativa e si è ritrovato in ginocchio davanti ad un vecchio. Da allora non ha fatto niente altro che quello. Eppure, sorprendentemente, ancora a distanza di decenni non si percepisce come prostituto, né come omosessuale, tantomeno come trav. Nasconde e si nasconde dietro tante emergenze della sua vita.

Procurare sopravvivenza alla famiglia, poi i soldi per la migrazione, poi quelli per pagare i debiti, poi comprare una casa e un emporio ai suoi al paese, poi ancora e ancora soldi per immaginare un ipotetico rientro a casa. Ma come? Da Uomo? Da donna? Da cosa? Così invecchia nella nostra periferia ed evita ogni ragionamento. Un transito dove non ha nemmeno capito se è gay o no. Anche per lei o lui il destino sembra già aver deciso: il cimitero delle farfalle e il lento scivolare nelle allucinazioni della alienazione e della malattia.

Ma gli ergastoli delle identità sessuali possono essere molteplici e non tutti legati alla marginalità economica. Il sentirsi imprigionato in un corpo che non si sente il proprio. Il sentirsi imprigionato in una identità rigida, quando non la si sente appieno. Fino al sentirsi imprigionato nel mestiere più antico del mondo, anche una volta superata la necessità a svolgerlo.

Quello che è evidente è che il ricatto della povertà, così come le angherie della migrazione, trasformano il corpo di questi adolescenti in qualcosa da vendere e comprare a piacimento. E, una volta intrapreso questo destino, non è facile interromperlo, scissi tra sensi di colpa e incapacità produttive di altro tipo.

Il guaio della nostra società è la delega in bianco data a San Paolo. La carne che deve morire per agevolare uno spirito che salva l’individuo dal peccato è la più grossa mistificazione dietro la quale ogni sopruso si è nascosto nei secoli. La carne dei deboli è la sola che deve morire: soccombere in silenzio alle ingiustizie. Così l’anelito astratto della auto castrazione trasforma molte diversità sessuali in morbosità, in stigma, in ergastoli di sensi di colpa.

La carne non può morire per il solo fatto che, chiunque o qualunque cosa ci abbia fatto Uomini, ci ha fatto di carne, della nostra specifica carne. Maledettamente bisognosi di amare. Così è la sola carne dei diversi e dei poveri che deve morire, che deve inginocchiarsi davanti ad un padrone troppo umano per essere un Dio di luce. Il senso del peccato, che incute nei fragili la sospensione da sé stessi, che spinge alla resa rispetto alle proprie identità, anche sessuali.

Si predica, spesso con la pancia piena, pazienza e sopportazione agli Ultimi, a quelli che la pancia la hanno vuota. Si trasforma la loro paura in pantano di un peccato insuperabile, paralizzante, proprio perché intrinseco allo stesso disperato esistere. Io, confesso, sono devoto di Sant’Anna, la madre di Maria che è, invece, secondo me uomo e trav. È una fantasia: nell’iconografia religiosa viene sempre rappresentata da vecchia, ma ad osservare attentamente sembra un maschio. Un uomo che ha amato talmente Maria da crescerla, da farle da madre e padre, appunto.

Maria come una trovatella, dove il susseguirsi ereditario del peccato si supera attraverso la sapienza della trav, nel miracolo della Divina Concezione, dove si trasla nel mistero delle paternità celeste l’altezza di Cristo: un Cristo che è figlio di Dio, proprio perché Ultimo, povero, migrante e senza padre. Non è importante se piace il biscottino o la patatina, del resto i fornicatori scacciati dal paradiso nell’Apocalisse sono gli “utilizzatori finali”, ossia coloro che trasformano l’altro in oggetto.

Quello che conta è che ogni transito sulla terra abbia una meta possibile e amore a sufficienza per raggiungerla.

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