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Quelli che si credono furbi

Cornice

Siamo ormai da alcuni decenni immersi in una nuova fase dello stato borghese, caratterizzata da un rimescolio delle classi, da ristrutturazioni finanziarie e tecnologiche, da derive di senso e da sparuti tentativi di ricomposizione.

Dalla postmodernità fino ad oggi, c’è stato un graduale ridimensionamento delle ideologie e dei partiti come strumenti di rappresentanza e di trasformazione politica, economica e culturale, e si è spostata sempre di più l’attenzione sul singolo candidato o portavoce.

E così, in un processo al contrario, è intorno ai suoi valori, al suo potere e al suo carisma, rivelatisi vincenti nel far presa su una massa di cittadini, che si decide di costruire un movimento o un partito, che beninteso del partito del secolo scorso ha solo il nome.

I media, mass e social, restringendo i tempi di fruizione e dando maggior visibilità all’eccesso, influenzano in tal modo la retorica politica, spogliandola da una visione e da una progettualità a medio e lungo termine, su basi economiche e sociali ampie.

Tali dinamiche impediscono di considerare l’esistente, di qualsiasi natura, nella sua complessità, e concetti e categorie non agiti, né integrati, sono inflazionati dagli algoritmi.

La partecipazione attiva e quotidiana alla vita politica e comunitaria è scarsa, a parte saltuarie manifestazioni e resistenze di una piccola, spesso sparuta, parte della popolazione.

Nei luoghi di lavoro si applicano, quasi sempre senza fiatare, le direttive e i decreti legiferati dal governo di turno, e il potere contrattuale del sindacato è di molto ridotto, rispetto al passato.

Protagonisti

In questa nuova cornice storica, si acuisce il divario tra ricchi e poveri, in maniera trasversale. Da un lato ritroviamo i capitalisti, figli e nipoti di quelli del Novecento o nuovi di zecca. Tutti in modi diversi sfruttatori, che riescono ad accumulare un tale numero di capitali solo perché sfuggono alle leggi dello Stato, spesso modificandole a proprio piacimento, o quando non è possibile, avvalendosi del crimine organizzato, come è facile rintracciare nella più e meno recente storia d’Italia.

Dall’altro troviamo un proletariato e sottoproletariato che hanno fagocitato parte della vecchia classe media, i cui stipendi non sono all’altezza del costo della vita e in certi casi, permettono una vita dignitosa, solo grazie ai capitali accumulati nel secolo scorso dalle generazioni precedenti, che compensano per quel che possono l’assenza di servizi e di assistenze statali.

È ormai chiaro anche ai più stupidi e disinteressati all’esistente, che le nuove forme contrattuali, introdotte col beneplacito dei sindacati e vincendo la flebile opposizione di un movimento operaio e studentesco molto indebolito dagli ultimi rivolgimenti degli anni 80 e 90, le privatizzazioni e i tagli allo stato sociale abbiano diminuito i diritti, peggiorato le condizioni di vita e schiacciato i salari sotto il peso dell’inflazione.

Piccolo borghese

Nell’ottica marxista, in estrema sintesi, la piccola borghesia era la classe di piccoli proprietari e commercianti (a quel tempo non c’era ancora tutto l’apparato burocratico e impiegatizio che ritroveremo nel ‘900), che non avevano grossi mezzi di produzione, come i capitalisti e non erano a salario, come i proletari. Detto molto brevemente e facendo affidamento sulle conoscenze storiche pregresse di chi legge.

Attualmente, nel rimescolio ideologico e di classe, spesso ci troviamo di fronte ad una larga parte della popolazione, eterogenea, in cui si mischiano condizioni materiali proletarie ad istanze psicologiche, emotive, sociali, culturali e politiche proprie della piccola borghesia.

Le condizioni di sfruttamento e spesso di indigenza non si sposano più con un affinamento della coscienza politica, né con la ricerca di condivisione e strutturazione di un gruppo, che diano la possibilità di affrontare lo sfruttamento e l’alienazione di sistema e diano anche sostegno, quando la reazione dello stato e del capitale alla rivendicazione dei diritti si fa dura.

Questa massa, malamente medicata dagli abbagli social-mediati dell’ultimo capitalismo scientista, si illude di risorgere dalle proprie ceneri con abnegazione, volontà e furbizia, non accorgendosi di essere cieca e completamente sottomessa ad ideali, che manco comprende fino in fondo, in tutte le loro ripercussioni.

Azione – non azione

Molti lavoratori, troppi, hanno abdicato alla lotta, tanto che i rarissimi casi, GKN su tutti, diventano un simbolo romantico da sbandierare, come il volto del Che una volta.

Non rivendicando nuovi diritti, né proteggendo quelli conquistati con le lotte precedenti, con il sangue versato, con i linciaggi, con i licenziamenti e le vite sacrificate da altri, se li lasciano sfuggire piano piano, attratti e inebetiti dallo spettacolo, apparecchiato per loro in varie salse da chi li governa.

Questa regressione nella partecipazione ha limitato molto anche la denuncia.

Qui mi sembra chiaro che venendo meno l’ideologia e un gruppo, il singolo in tutta la sua finitezza e fragilità, abbia sempre più paura di esporsi.

Conclusione:

ci si adegua allo status quo, aumentandone le criticità e la sofferenza dei più.

Certo, la precarizzazione in ogni ambito della vita, la delocalizzazione e le nuove fasi del capitalismo sfiancano. Ma questo modo infantile di reagire è soltanto nuova linfa per i capetti di turno, politici e non, che si ergono a padri protettori, affabili e fintamente empatici, per dar spazio agli istinti più bassi di chi è sfruttato, ma solo per poco.

Giusto uno sfiato, per aumentarne e affinare lo sfruttamento e manipolarne le percezioni.

Quelli che si credono furbi

Cosa succede dunque alimentando lo status quo?

Ci si adegua al sistema clientelare, si evadono le tasse, si resta indifferenti agli abusi e alle irregolarità, pensando da buon piccolo borghese “fammi fare i fatti miei, così sto più tranquillo”, si cerca la scalata sociale attraverso il sopruso e lo sfruttamento a danno degli altri. Si diventa amici degli amici.

E il tutto supera il grottesco, quando si dice di agire in nome della cura, del benessere, della salute fisica e mentale, dell’arte, dell’educazione, della cultura…

Eccoci di fronte ai peggiori della specie sapiens sapiens del nuovo millennio.

Quelli che, sulle spalle di chi ha dato la vita, si danno lo slancio per raggiungere la condizione di chi li affama e li illude: che uno vale uno, che tutti sono uguali, che volere è potere, che l’uomo si fa da sé.

Quelli che non conoscono, né riconoscono nessuno.

Quelli che non conoscono, né riconoscono niente.

Quelli che, nonostante decenni di educazione di massa e di accesso libero al sapere, non hanno sviluppato un senso critico, né una visione integrata della propria storia, né di quella della comunità e dello stato in cui vivono.

Quelli che non fanno il proprio dovere, che si assentano, che lucrano, e poi piagnucolano e si lamentano di una realtà, che loro per primi hanno contribuito a costruire e che continuano a mantenere in vita.

Quelli che attaccano offendendo, per nascondere male le loro miserie. Nutrendole.

Quelli che si affidano all’ironia, come copertura da codardi, perché non hanno il coraggio di vedersi e farsi vedere nudi.

Quelli che si credono furbi, cercando scorciatoie, non prendendo posizione, tramando nell’ombra, come un cancro che uccide silente dall’interno.

Ma io vi vedo ed è per questo che scrivo.

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4 Commenti


  • Oigroig

    Francamente a me questo narcisismo pasoliniano del «io vi vedo e per questo scrivo» non mi convince. Quanti «sapiens sapiens» di Rifondazione comunista sono andati in parlamento a fare, da furbi, gli affari loro o a convincere i loro elettori che leggi infami erano rivoluzionarie (tipo la Turco-Napolitano con cui sono iniziate le stragi in mare di migranti…). Quanti «sapiens sapiens» di sindacati di base hanno perseguito piccoli privilegi e mediocri settarismi dietro il paravento della bandiera rossa… Magari sono stati pochi, ma sono quelli che si sono posizionati in ruoli di potere… Questi «sapiens sapiens» forse li vedo solo io perché sono pazzo, ma mi pare che certi discorsi come questo non partono da una sana autocritica, cioè non sono capaci di dire «Non ho saputo vedere…». Anche noi siamo responsabili del degrado politico che ci circonda. Non prenderne atto coraggiosamente è un errore.


  • Nunzio Di sarno

    Caro Giorgio al contrario,
    mi sa che le è sfuggita parecchia roba dell’articolo.
    Comincerei dal fatto che seppur le possa riportare qualcosa alla memoria, qui, la frase finale, va a rimarcare un punto importante: c’è chi vede e chi no e tra quelli che vedono c’è chi denuncia ciò che vede e chi no, e tra questi ultimi c’è chi si schiera ed agisce e rischia e chi no.
    Questa dinamica è trasversale, così come esposto chiaramente nell’articolo.
    La sua reazione va inoltre a confermare quanto sia difficile comprendere la complessità dell’esistente ed integrarla.
    Anche questo aspetto è dibattuto. Sperando non siano stati fraintesi altri punti.
    La ringrazio comunque per lo scambio e le auguro una buona serata.


  • Oigroig

    L’ho riletto, ma trovo che questi generici discorsi morali senza un’analisi critica della storia effettiva che abbiamo vissuto, rischiano di essere autoconsolatori (ad es. “non serve a niente, ma lotto e mi sforzo di essere contro, perché sono dalla parte giusta”). Volevo solo dire che l’attuale passività di chi in Italia vive lo sfruttamento dipende dal fatto che sono esistite, negli ultimi decenni, organizzazioni che promettevano di “rifondare” il comunismo, la lotta, la socialità liberata, la liberazione dal lavoro, la solidarietà di classe ecc. ecc., e poi, appena hanno avuto un minimo spazio di potere, tutti abbiamo visto a cosa realmente miravano i Bertinotti, i Vendola, i Boghetta, le leadership dei Social Forum e dei Disobbidienti (con rarissime eccezioni personali). Essersi impegnati nei movimenti sociali e vedere chi ci ha guadagnato e chi invece resta con il cerino acceso in mano è un efficace deterrente: queste organizzazioni hanno usurato il nostro linguaggio, hanno svenduto le nostre idee, hanno avvelenato i pozzi, non solo il PD o la CGIL. A volte mi meraviglio che ci sia ancora un 50% che si sforza di andare a votare: nessuno ci crede più davvero e le persone sono galvanizzate solo dal tifo o dal risentimento, per contrastare il crescente senso di anomia e di catastrofe… Non se ne esce senza un chiaro, credibile programma rivoluzionario. Ma nessuno ne ha davvero il coraggio se non in modo solipsistico e velleitario (nostalgico, mitologico, rivolto all’indietro, con la testa sotto la sabbia). E così scopriamo che esistono i “furbi” (gli altri, non noi) come se noi non fossimo dentro questo quadro di rinuncia e di mediocrità. Non è una polemica con l’autore, che ringrazio sinceramente della risposta, ma con le categorie che usa.


    • Redazione Contropiano

      La risposta era redazionale…

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