I movimenti islamisti Hamas e Jihad hanno guidato la resistenza armata nella Striscia di Gaza, basandosi sul cosiddetto asse della resistenza e sull’unità delle piazze, senza una strategia nazionale di resistenza.
Il risultato è stato la distruzione globale che ha colpito la Striscia di Gaza, il martirio di decine di migliaia di cittadini e lo spettro dello sfollamento e del reinsediamento che aleggia sulle loro teste.
I due movimenti ripeteranno l’esperienza in Cisgiordania dopo il crollo dell’asse della resistenza? Sono a conoscenza dei piani del nemico per la Cisgiordania? Quale obiettivo o vittoria stanno cercando di raggiungere i gruppi che detengono le armi? Il diritto alla resistenza, è un dovere patriotico per tutti i popoli sotto occupazione, penso che tutti i palestinesi sono d’accordo con questo principio sancito anche dal diritto internazionale, oltre al diritto naturale.
Ma i palestinesi divergono sui metodi: resistenza armata o non violenta, popolare o diplomatica, è e rimane un fattore importante, su cui si deve trovare, un accordo unitario, capire come e quando utilizzare uno o più metodi.
Questo dovrebbe avvenire sulla base di una analisi precisa dalla situazione interna e regionale, le alleanze con i paesi vicini e anche internazionale, senza dimenticare la forza del nemico e le sue alleanze mondiali.
Ma questo non basta, bisogna sapere chi assume la responsabilità di indicare il metodo di resistenza, e come preparare la popolazione e come proteggerla in quanto essa è l’oggetto e il soggetto della resistenza. La resistenza è legittima e ha molte forme, ma la resistenza all’occupazione non avrà successo, a meno che non sia nel quadro di una strategia nazionale concordata e non sia in conflitto con la determinazione della resilienza delle persone sulla loro terra.
La Cisgiordania può permettersi il lusso per affrontare una tragedia come la striscia di Gaza? L’autorità e le fazioni hanno abbastanza tempo per impegnarsi nelle loro controversie mentre Gaza lotta con la sua morte?
Se è così, questo è il peggio che potrebbe accadere, quando l’attenzione viene distolta dal genocidio in atto che Israele sta portando avanti da più di quattordici mesi. Forse dovremmo incolpare il nostro fallimento nella prova del consenso e l’inefficienza, nel creare l’unità di necessità nazionale che il momento attuale richiede, in mezzo al mare di sangue e alla più grande minaccia per l’entità palestinese, che si trova al bivio più pericoloso dalla sua istituzione.
Tre anni fa, nel quartiere di Al-Makhfiyah nella città di Nablus, è emerso gruppo armato, definito la Fossa dei Leoni, come espressione dell’atmosfera creata dall’aggressione israeliana e dai coloni in Cisgiordania.
Ma la tragedia è avvenuta dopo che Israele è riuscito ad assassinarli tutti, così che la Cisgiordania ha vissuto al suono di funerali e lutti che lasciavano tristezza e amarezza. Israele è riuscito ad ottenere un successo eliminando una situazione emergente. Era l’ultima cosa di cui avevamo bisogno.
La scena si sta ripetendo ora a Jenin, e tutti sono in punta di piedi per la paura. Anche se la situazione a Jenin ha portato mesi fa all’invasione del campo di Jenin da parte di Israele. A quel tempo, si temeva ancora di più, alla luce di ciò che Israele stava commettendo a Gaza, che Israele avrebbe demolito il campo e spostato i suoi residenti, e ha fornito una prova generale di questo tipo distruggendo le infrastrutture del campo.
L’impatto della situazione potrebbe avere eco a Gaza, poiché si suppone che la fretta eccessiva e non calcolata abbia lasciato sufficienti lezioni, in termini di brutalità israeliana e di sfruttamento di qualsiasi azione non calcolata per attuare progetti strategici, soprattutto perché tutti sanno che l’obbiettivo di questo governo è la Cisgiordania più che Gaza.
E se alcuni chiedono di attendere una valutazione dell’esperienza di Gaza, allora la questione dovrebbe riguardare, innanzitutto, i gruppi armati. Attendere la conclusione dell’esperienza, anche se quello che è successo è bastato per trarre lezioni, ma noi come popolo siamo abituati a essere riluttanti a leggere le lezioni quando i nostri interessi lo richiedono, si rivendica l’ignoranza.
Dobbiamo ricordare che, dopo il 7 ottobre 2023, la prima dichiarazione di Bezalel Smotrich, l’uomo ideologico forte del governo di Netanyahu, è stata “la risposta a quanto accaduto è quella di rovesciare l’autorità palestinese e annettere la Cisgiordania”.
Questo avrebbe dovuto accendere tutte le luci rosse a un’amministrazione politica molto cauta in Cisgiordania, soprattutto per coloro che osservano con attenzione che le politiche del governo israeliano hanno seguito le indicazioni e i desideri di Smotrich, compreso il costante rifiuto negli ultimi mesi dell’accordo di scambio di prigionieri con il movimento Hamas.
Sono trascorsi più di quattordici mesi al genocidio di Gaza. In Cisgiordania né attraverso la sua politica, né i suoi militanti, né le sue piccole manifestazioni, è stato possibile fare nulla per fermare l’aggressione. Tutto ciò che viene richiesto alla Cisgiordania è di non vivere le avventure di Gaza. Il sunto nazionale, è la capacità di sopravvivere, dopo l’amara esperienza.
Se l’Autorità è in grado di farlo, significa che è stata in grado di risparmiare alla Cisgiordania ciò che è successo a Gaza e la sua esperienza, perché la continuazione della presenza palestinese e la continuazione delle città palestinesi a esistere, sono al centro dei piani israeliane di transfer ed è ciò che è attualmente richiesto.
I gruppi armati possono farlo o potrebbe accadere il contrario? Si deve fare una lettura politica dell’esperienza di Gaza, o continuiamo a nascondere la testa sotto la sabbia, sotto il bagliore delle emozioni e delle sue costose esplosioni? Gli intellettuali devono fornire una risposta, perché non c’è più spazio per ulteriori avventure con il popolo palestinese e la politica non deve essere lasciata sotto il controllo delle armi. Questa è una delle conclusioni dell’esperienza.
È vero che ciò che Israele sta facendo a Gaza fa piangere le pietre e crea una rabbia, che non può essere tollerata nei cuori dei giovani, ma è anche vero che nelle circostanze più difficili la ragione non dovrebbe mancare. Perché un momento di disattenzione o di assenza, in questa delicata fase, può essere pagato, a meno che non vogliamo vedere la Cisgiordania come Gaza.
Ma quel che è peggio è che Israele faccia pressione sulla Cisgiordania e apra il valico di partenza, che è il cuore del progetto del governo israliano, e non dovremmo valutarlo con cieca emozione su un piatto di sangue e ignoranza dei calcoli.
E se l’autorità, come dicono i suoi uomini, sta facendo ogni sforzo per evitare l’esperienza di Gaza e preservare il popolo palestinese, e non causare distruzione e sfollamento, allora anche i gruppi armati hanno qualcosa da dire sul loro desiderio di difendere il popolo palestinese: “Naturalmente, per esperienza, nessuno può difendere il popolo”, nel senso dell’unità di intenti e della divergenza sui mezzi.
Ciò non richiede tale violenza e tensione, ma piuttosto un dialogo nazionale responsabile di cui le forze nazionali e l’Autorità devono assumersi la responsabilità, beneficiando dell’esperienza che abbiamo davanti a noi, e che non lascia spazio a nuove esperienze per le emozioni e la rabbia armata.
L’Autorità è responsabile della Cisgiordania, e deve superare questo momento buio con perdite minime. Nei momenti critici nessuno parla di risultati raggiunti, ma si sottomette a condizioni minime che si fermano alla capacità di sopravvivere.
Non è possibile rispondere senza concentrarsi sulla mancanza di chiarezza della strategia di resistenza e sulla sua oscillazione tra la liberazione completa e il programma di un Stato sui confini del 1967, tra autorità e resistenza, tra unità nazionale e rovesciamento e isolamento dell’altro e dei suoi simboli, senza decidere se l’obiettivo centrale che regola questa fase sia liberare i prigionieri o fermare gli attacchi ad Al-Aqsa o togliere l’assedio alla Striscia di Gaza, fermare l’espansione degli insediamenti coloniali o controllare l’Olp, l’autorità, la rappresentanza e la leadership dei palestinesi?
Oltre a considerare la resistenza come se fosse un fine e non un mezzo per raggiungere un obiettivo, o come se fosse l’unica capace, indipendentemente dall’equilibrio delle forze locale, regionale e internazionale, di liberare la Palestina e i territori occupati nel 1967, o che si tratta di resistenza fine a se stessa, come se il suo ruolo fosse solo quello di tenere accesa la fiamma del conflitto invece di continuare a perseguire in ogni fase un grande obiettivo nazionale, con tutte le energie, le politiche e la resistenza in tutte le sue forme sono dirette a raggiungerlo.
Mettere ordine nella casa palestinese, è la risposta realistica e responsabile, a tutte le sfide e ai rischi, che potrebbe migliorare radicalmente i termini del presunto accordo saudita o impedirne il completamento, sulla base del fatto che Riyadh è ora più forte di quanto lo fosse durante il primo mandato di Trump, e le sue relazioni con la Cina, la Russia e il resto del mondo, sono molto migliori di prima.
Ciò gli dà spazio per giocare sugli equilibri internazionali, e ci sono indicazioni che aspira a svolgere un ruolo che non sia solo un’appendice di Israele nel nuovo Medio Oriente, e quindi non ha più bisogno nella stessa misura di armi, di un reattore nucleare e di un trattato di mutua difesa, soprattutto alla luce del miglioramento del suo rapporto con l’Iran.
È significativo e gli artigli di Teheran sono stati tagliati dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad e la sua uscita dalla Siria. Almeno a Riyadh ci sono opinioni diverse ed è responsabilità dei palestinesi sostenere la tendenza a favore della creazione di uno Stato palestinese come condizione per la normalizzazione e non accontentarsi di un percorso che porta a uno Stato al quale non porterà mai.
Quindi, la priorità è mettere ordine nella casa palestinese, unificare e attivare il sistema politico, una leadership e una risoluzione unica e aderire al programma minimo, che è armato del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite e include nella sua essenza la fine dell’occupazione e il raggiungimento dell’indipendenza nazionale.
Questo può essere ottenuto con l’adozione della strategia di resilienza che garantisca la sopravvivenza e la fermezza delle persone sulla loro terra, la loro causa viva e la loro adesione al programma minimo nazionale.
Questa di per sé è una strategia nazionale molto appropriata in questa fase, poiché mira a impedire all’occupazione di raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto perché questa fase è una fase di difesa strategica e non è una fase di attacco strategico, e i palestinesi devono cercare di cambiare l’equilibrio delle forze in modo graduale e cumulativo.
In questa fase, è opportuno preservare le forze e le conquiste finché le circostanze non cambieranno, e cambieranno inevitabilmente.
È questo richiede l’adesione al diritto alla resistenza e, adottando le regole della guerriglia “colpire e fuggire”, evitando la spettacolarizzazione e non lasciandosi coinvolgere nei combattimenti, indipendentemente dalle circostanze, e smettendo di trattare i campi e la città vecchia di Nablus e altri luoghi, come aree liberate, soprattutto dopo l’utilizzo diffuso della tecnologia, dell’intelligenza artificiale e i droni.
Inoltre, questo lavoro di resistenza pubblica, senza una strategia chiara o un consenso nazionale, potrebbe portare a scontri con l’Autorità, e questo non è coerente con lo squilibrio delle forze a favore dell’occupazione.
Basta confrontare il bilancio di perdite degli attacchi lanciati dalle forze di occupazione israeliane e le perdite palestinesi. La differenza è enorme e non si limita al numero di martiri, feriti e detenuti.
Piuttosto, in aggiunta a ciò, ci sono operazioni di sistematica distruzione organizzata e di sfollamento, come sta accadendo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, dove si concentrano principalmente sui campi profughi, per ciò che rappresentano e simboleggiano, e perché sono basi solide per la resistenza e la generazione di resistenze.
Qualsiasi atto di resistenza organizzata in varie forme contro l’occupazione è un diritto, un dovere ma deve tenere conto della sua natura, dei suoi bisogni e dell’equilibrio delle forze, e che la resistenza è un atto umano consapevole, è un atto politico e non è un idolo sacro, e coloro che la praticano sono esseri umani e possono fare cose giuste e possono commettono errori e come ogni azione umanitaria, necessita di valutazione e valutazione continue.
Soprattutto per calcoli e obiettivi e che può essere appropriata in un momento e inappropriata in un altro, dove l’attenzione alla resistenza armata è appropriata in un momento e inappropriata in un altro, ed è la principale forma di lotta o solo una delle sue forme.
Lo Stato di Israele pratica il genocidio, il terrorismo e tutti i tipi di crimini, e opera per creare il “Grande Israele”, e non accetta accordi e compromessi, e quindi non c’è alternativa alla resistenza in tutte le sue forme.
Tuttavia, affinché la resistenza raggiunga i suoi obiettivi, deve basarsi su una strategia nazionale sostenuta dal consenso nazionale, che ne comprenda i tempi, la forme e gli obiettivi, e sia basata sul diritto all’autodeterminazione, sulla giustizia della causa palestinese e sulla sua superiorità morale.
Cioè, si astiene dal prendere di mira bambini, donne e civili, si distingue dal caos, dall’insicurezza e dai fuorilegge e non prende di mira alcun obiettivo palestinese, come il quartier generale dell’Autorità e, indipendentemente dalle ragioni che potrebbero aprire la strada alla guerra civile che se scoppia, non lascerà niente al suo posto, la resistenza deve tenersi lontana da qualsiasi azione improvvisata condotta come forma di vendetta o a vantaggio di un’organizzazione, gruppo o centro di potere, o a beneficio di piani regionali esterni, che consentono al nemico di opprimere la resistenza e i resistenti, e gli permettono di attuare i suoi piani ostili.
I palestinesi devono rendersi conto che la vittoria decisiva della resistenza richiede il verificarsi di cambiamenti qualitativi palestinesi, regionali e internazionali che forniscano la profondità necessaria per la loro vittoria. Pertanto, l’apertura regionale e internazionale è molto importante affinché possa sopravvivere, resistere e vincere.
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Flavia Lepre
Colpisce la totale mancanza di analisi di che cosa sia l’”Autorità Nazionale Palestinese”, nata con gli Accordi di Oslo nel 1994 e ad essi strutturalmente legata, come agli “accordi per la sicurezza” con israele, alla cui sicurezza la subordinano. Ed è proprio ciò che sta accadendo in modo sempre più tragico e sconfortante. Non solo già ora l’ANP sta uccidendo palestinesi resistenti e ne sta ostacolando armi in pugno la resistenza, e non è un rischio che potrebbe avverarsi, ma non è affatto la prima volta che si impegni in questa direzione fratricida. https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/22/raid-israeliani-scontri-tra-palestinesi-e-polizia-per-ricerca-dei-ragazzi-rapiti/3152108/
Inoltre, quanto proposto sembra riavvolgere a ritroso il nastro del tempo, quando la chiusura tombale degli “Accordi di Abramo” erano all’orizzonte, causando il 7 ottobre 2023 come squarcio da cui mobilizzare un quadro che da anni sembrava non dare prospettive ai palestinesi come popolo, nonostante la generosa lotta di poco più di due anni dei giovani di diverse città della Cisgiordania. I giovani, forse insofferenti della privazione di prospettive politiche e personali di libertà e di dignità, avevano focalizzato su di sé le forze israeliane, dopo che il fallimento internazionale della “Grande Marcia del Ritorno” realizzata a Gaza lungo il 2018-19 faceva ritenere generalmente la Striscia ormai priva di forze e di intenzioni di lotta. Prima e per molti anni la “resilienza” era sembrata l’unica via percorribile e quasi la sola percorsa, sotto la cappa di un orizzonte chiuso sul piano internazionale. Oggi, quella cristallizzazione si è rotta e la realtà è in movimento, né i pesantissimi colpi inflitti all’Asse della resistenza garantiscono nell’immediato una nuova stasi internazionale duratura, impedita anche da altre dinamiche nei diversi continenti, come la frana del colonialismo francese in Africa. Anzi, nella moltiplicazione e mobilità di alleanze e conflitti, è proprio vincente l’ipotesi di mettersi al carro dell’Arabia Saudita? In un momento storico in cui il capitalismo nella sua estrema fase di finanziarizzazione mostra la corda proprio suscitando l’intensificarsi di queste crisi belliche e cercando di garantirne prolungamenti e moltiplicazioni per anni, rimodellando società e sistemi di vita, accentrando capitali ed esautorando istituzioni politiche, polverizzando istanze democratiche? In attesa di quali condizioni? Se manchevoli sono considerate analisi e strategia della resistenza, molto lo sono quelle che vengono proposte.
Leonardo
Il cosiddetto Asse della Resistenza è caduto. A conti fatti negli ultimi anni si è rivelato molto più debole, non tanto dal punto di vista militare (aveva pure delle buone carte, ma le ha giocate male) quanto dal punto di vista della coesione politica e della capacità di realizzare una strategia consistente.
Al suo centro infatti c’è un paese, come l’Iran, molto diviso non solo per malcontento popolare (sanzioni, crisi economica, corruzione, guerra ibrida e reale) ma soprattutto a livello di classe dominanti e dirigenti, in parte favorevoli (è bastata la scomparsa del Presidente Raisi in un sospettissimo incidente a metterne a nudo la fragilità politica). Soprattutto a differenza di Israele, sopra l’Iran non c’è nessuno (l’adesione ai Brics non può minimamente sostituire l’asse USA-Israele …) e la fragilità diviene inaffidabilità strategica agli occhi di un potenziale alleato di rango come la Federazione Russa (il continuo rinvio del Trattato di alleanza strategica con Tehran questo significa).
E’ evidente che occorre un profondo ripensamento perché la giustezza della lotta (armata, qui) fine a sé stessa non può essere in criterio valido in circostanze così mutate. La prospettiva, spaventosa, è che, con il sigillo della nuova Amministrazione USA, l’anno prossimo (o il successivo) sia quello della “Soluzione Finale del problema palestinese”. Uso volutamente questa espressione …
Le difficoltà sono enormi come si evince dal testo (soprattutto circa il ruolo dell’ANP e la difficoltà Hamas e Jihad I. di fare il punto in una situazione così tragica), ma il solo cambiamento dei rapporti di forza tra il Mondo multipolare e il nostro ‘Giardino delle Delizie, per quanto rapido, rischia di arrivare troppo tardi per il popolo palestinese.
La lucidità di questo intervento è quasi commovente: anche nella tragedia (anzi tanto più, a causa di essa) Bassam Saleh crede, giustamente, nella funzione dell’intellettuale.
Leonardo
… in parte favorevoli a un rapporto ‘normalizzato’ con l’Occidente (nonostante i continui calci sui denti presi nei decenni).
sorry, è tardi …
Gianni Sartori
KHALIDA JARRAR ANCORA IN DETENZIONE AMMINISTRATIVA
Gianni Sartori
Risaliva giusto a un anno fa (26 dicembre 2023) l’ennesimo arresto di Khalida Jarrar, militante del FPLP, ricercatrice all’Istituto Muwatin dell’Università di Birzeit, impegnata nella difesa dei diritti umani, femminista, ex membro del Consiglio legislativo palestinese.
Posta in detenzione amministrativa (senza accuse né processo, un’eredità del mandato britannico), tale condizione veniva rinnovata per altri sei mesi il 24 giugno 2024. Una sorte comune a quella di altri 3432 prigionieri palestinesi. Su un totale di circa 10mila, tra cui donne e bambini palestinesi detenuti (senza tener conto delle migliaia di abitanti di Gaza rinchiusi nei campi).
All’epoca i suoi avvocati denunciavano che Khalida Jarrar era stata tenuta in isolamento per sette giorni consecutivi. Sottoposta a severe restrizioni, presumibilmente anche a veri e propri abusi, nonostante il suo precario stato di salute.
Il 12 agosto 2024 gli agenti assaltavano, letteralmente, la sua cella nella prigione di Damon (dove sono state rinchiuse in pessime condizioni oltre un’ottantina di detenute palestinesi, molte in detenzione amministrativa come Layan kayed, Dania Hanatsheh, Shata Jaraba…o condannate a lunghe pene detentive come Shatela Abu Ayad e Nawal Fatiha) prelevandola con la forza e costringendola in un’altra, sporca e infestata di parassiti. Inoltre veniva privata degli indispensabili occhiali.
Tenuta per molte ore nel Bosta (il veicolo per i trasferimenti dei detenuti), senza essere interrogata, prima di essere trasferita nel carcere di Neve Tirza, solitamente destinato ai detenuti in isolamento. Senza poter incontrare il suo avvocato, in una cellula di due metri per 1,5 con l’unico spazio disponibile occupato da un materasso. Senza finestre e senza prodotti per l’igiene personale, vestiti e cibo adeguati.
In questi giorni (24 dicembre 2024) la detenzione amministrativa di Khalida Jarrar è stata ulteriormente prolungata almeno fino al 22 gennaio (ma non si esclude un ulteriore supplemento di pena).
Gianni Sartori