Fino a ieri, pronunciare la parola “genocidio” era un tabù, quasi una bestemmia. Oggi, quella parola riemerge con forza, come se uno squarcio si fosse aperto nella nebbia della nostra coscienza collettiva. E riemerge perché ciò che vediamo accadere a Gaza assomiglia in modo agghiacciante all’eliminazione programmata di un popolo.
Eppure, appena la parola viene pronunciata, ecco che si ergono i custodi del linguaggio, ben posizionati nei media e nei centri decisionali. La loro missione è vegliare affinché questo termine non turbi le nostre coscienze occidentali. Ci dicono, con fare quasi sacerdotale, che quella parola appartiene a un solo evento, a un solo popolo. Ne rivendicano l’esclusività per le vittime dell’Olocausto, anche quando l’ombra di quello stesso orrore si proietta, oggi, sulle azioni di chi dice di rappresentarle.
È una difesa che non cerca giustizia per il significato della parola, ma impunità per chi compie l’azione. Negando che il termine si possa applicare a Israele, si aggiunge un sottotesto crudele: i palestinesi non sono degni di essere vittime di uno sterminio. Il loro dolore non merita un nome così pesante.
Perché rifiutare la parola significa rifiutare la realtà. Finché i palestinesi morivano sotto le bombe, potevamo dormire sonni relativamente tranquilli. Ma non appena si osa chiamare il crimine con il suo nome, le anime belle sussultano. Non per le vittime, ma per l’oltraggio semantico. È il nome dello sterminio, non lo sterminio stesso, a offenderle.
Questa reazione scomposta nasce dalla sacralizzazione dell’Olocausto. Ogni altra tragedia può essere un crimine, certo, ma non deve mai osare raggiungere le vette di sofferenza riservate a quella memoria. Si può nominare l’orrore, purché non intacchi il sacrario. Chiamare “genocidio” ciò che subiscono i palestinesi, infatti, costringerebbe ad ammettere un’insostenibile verità: che la memoria delle vittime di ieri viene oggi usata per giustificare il ruolo di carnefice.
È un cortocircuito logico e morale. La responsabilità di ciò che accade a Gaza è del governo israeliano, non del popolo ebraico. Ma la propaganda, sentendo il terreno franare sotto una critica internazionale crescente, mescola volutamente le due dimensioni. Usa la liturgia dell’Olocausto come scudo emotivo per difendere le operazioni militari israeliane.
Così, ci appropriamo della parola “genocidio” e la neghiamo proprio a chi ne avrebbe più bisogno. I palestinesi vengono annientati, ma guai a nominarle il loro annientamento. Non è solo un furto linguistico; è un atto di disumanizzazione. D’altronde, l’egemonia si esercita anche attraverso la grammatica: chi possiede le parole, comanda la realtà.
La distruzione non si compie solo con bombe e assedi, ma anche con glosse, distinguo e silenzi. L’Occidente, che si sente padrone dei dizionari, decide come quella morte debba essere raccontata. L’annientamento di un popolo non è un genocidio, se siamo noi a deciderlo.
Ecco perché il rifiuto di usare quella parola è una forma di complicità. Più elegante, forse più colta, ma non meno criminale. Armiamo Israele, lo finanziamo, lo proteggiamo diplomaticamente. E alla fine, per lavarci la coscienza, lo proteggiamo anche dalle parole.
Forse il vero problema è che il carnefice, questa volta, ci assomiglia troppo. È uno Stato che definiamo ‘democratico’, un modello liberale che ci rassicura perché ci assomiglia. Condannarlo fino in fondo significherebbe accusare noi stessi.
Perché è dannatamente vero: l’ideologia etno-nazionalista che guida Israele è figlia della nostra storia coloniale; per questo le abbiamo sempre garantito una sorta di innocenza perpetua. Requisire la parola “genocidio”, rendendola un’offesa in bocca agli oppressi, è solo l’ultimo atto di questa garanzia di impunità.
Ma quella parola è l’ultima trincea della verità. Se cade, crolla ogni residuo di coscienza. È nostro dovere, dunque, nominare quanto accade a Gaza per quello che è: non una guerra, ma un genocidio.
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Immagine: Sliman Mansour, “Rituals Under Occupation” (1989).
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