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No alla strumentalizzazione delle violenze di genere, organizziamo le donne delle borgate!

Nelle ultime settimane stiamo assistendo a una costante strumentalizzazione dei casi di violenza di genere nei quartieri popolari di Roma. Un’operazione alimentata da articoli di giornale dai titoli sensazionalistici, programmi televisivi e mass media che contribuiscono a dare centralità a un’unica narrazione e alla richiesta di provvedimenti che hanno tutto fuorché la tutela e gli interessi delle donne che abitano questa città.

La questione è ampia e riguarda l’uso sistematico della violenza contro le donne come terreno di scontro.

Negli ultimi anni, e con un’accelerazione evidente in vista delle prossime elezioni comunali, la violenza di genere è (ri)diventata uno strumento di costruzione del consenso. Non per contrastarla realmente, ma per usarla come arma contro altri bersagli: le periferie, i migranti, le occupazioni abitative. In questo schema, la donna (italiana) viene presentata come soggetto da tutelare, ancora una volta subalterno e di proprietà di qualcuno (“Le nostre donne”). Ma non è solo questo a preoccuparci: ciò che ci sta dietro è l’uso di questa figura simbolica invocata per giustificare politiche unicamente repressive e punitive.

Questa operazione non è appannaggio esclusivo della destra più istituzionalizzata, quella che parla il linguaggio delle ordinanze, dei decreti e dei “piani sicurezza”. Al contrario, si sviluppa su più livelli. Da un lato c’è una destra di strada, che utilizza questa tematica per fare presa e avanzare nei quartieri popolari. Dall’altro c’è chi agisce nei palazzi e in campagna elettorale, traducendo lo stesso impianto ideologico per spingere determinati provvedimenti: più telecamere, più pattuglie e più sgomberi. In mezzo, un discorso populista sull’immigrazione che lega in modo automatico insicurezza, violenza e persone migranti.

Le periferie vengono così descritte come territori da “bonificare” più che da abitare. Le occupazioni abitative come focolai di degrado, mai come risposte, spesso l’unica possibile, a un’emergenza abitativa strutturale che vivono centinaia di famiglie e donne in questa città. Lo abbiamo visto con l’attacco fatto da giornali di un certo peso verso il movimento per il diritto all’abitare e occupazioni come quella di via Palenco, a rischio sgombero senza che sia data alcuna soluzione abitativa alternativa a chi vive là dentro, donne, bambine e bambini compresi.

Da questi stessi mezzi “d’informazione” la violenza viene raccontata in modo selettivo, enfatizzando i casi funzionali al discorso sull’insicurezza e sull’emergenza, attraverso semplificazioni che alimentano paura e richiesta di ordine. Si costruisce così un senso comune, oscurando cause strutturali e responsabilità sistemiche.

Eppure, se si guarda davvero alla violenza di genere, emerge chiaramente la distanza tra racconto e realtà. La maggior parte delle violenze avviene in ambito domestico, relazionale e affettivo. Non per mano dell’uomo immigrato evocato nei comizi. Questo dato viene però sistematicamente rimosso, se non falsificato perché non funzionale.

A tutto questo ha contribuito, con responsabilità non marginali, anche il campo che si definisce di opposizione alla destra e al governo Meloni. Il centro-sinistra ha sdoganato negli anni un linguaggio e un impianto securitario che ha preparato il terreno: ha accettato che battaglie sociali fossero trattate come un problema di ordine pubblico, che il disagio venisse gestito con la polizia, che le periferie fossero spazi da controllare e confinare nella miseria e nell’abbandono. Così facendo, ha lasciato malcontento e rabbia a disposizione di chi oggi tenta di organizzarli in senso reazionario.

Inoltre negli ultimi decenni sono state messe ai margini le questioni concrete, non solo culturali ma anche materiali e sociali, alla base per contrastare molestie, stupri, abusi e femminicidi: le tutele economiche per chi fugge da situazioni di violenza, il diritto alla casa, al lavoro, ai servizi territoriali, ai consultori, ai centri anti-violenza  e alle case rifugio finanziati in modo strutturale, educazione sessuo-affettiva. In questo vuoto si inserisce facilmente chi riduce tutto a una questione di ordine e punizione del singolo.

Il risultato è un paradosso pericoloso: la violenza contro le donne viene evocata ovunque, ma le donne reali restano messe da parte, a meno che non allineate alla narrazione di cui si è scritto prima. Usate come terreno di scontro, mai come soggetti capaci di agire, organizzarsi e autodifendersi attraverso la riconquista di diritti, tutele e servizi, senza delegare la propria sicurezza a figure maschili, alle forze dell’ordine o a istituzioni e partiti che hanno dimostrato per anni di non aver alcun interesse a garantirli.

Rimettere al centro la questione dell’organizzazione delle donne nelle periferie significa, non solo rompere il ruolo di vittime a cui cercano di confinarci, ma anche sottrarre la violenza di genere come arma dalle mani di chi oggi cerca di farsi largo sulla nostra pelle.

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