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Le riforme economiche a Cuba

 

Per dare concretezza e forza alla transizione socialista, è necessario attualizzare le concezioni teoriche sul sistema economico pianificato del socialismo.

(Traduzione di Rosa Maria Coppolino)

http://www.dilemas.cl

Nell’Università ARCIS (Artes y Ciencias Sociales) si è tenuta la conferenza di Charles Romeo, un ex consulente del Ministero dell’Industria di Cuba e vicino collaboratore di Ernesto Che Guevara. In visita al nostro paese (Cile), dal momento che vive nell’isola, si è riunito con un centinaio di assistenti. Oggi Cuba è immersa nella preparazione del VI Congresso del Partito Comunista, che si terrà nel prossimo aprile per trattare il piano delle riforme intrapreso dal governo del Comandante Raul Castro. “L’attualizzazione del modello socialista” ha un posto sempre più rilevante nel dibattito pubblico. Per queste considerazioni pubblichiamo integralmente l’intervento dell’eminente economista, che continua a collaborare con il processo cubano.

Un po’ di storia

Oltre cinquantuno anni fa, a dicembre del 1959, il Che si riunì con i suoi quattro consiglieri cileni nel nostro ufficio, contiguo al suo, nel Dipartimento dell’Industrializzazione dell’istituto Nazionale della Riforma Agraria e ci disse: “Signori, incamminiamoci al galoppo verso il socialismo.” Non era solo una frase, era una decisione già presa dalla Direzione della Rivoluzione Cubana. Un anno dopo, il Dipartimento dell’Industrializzazione amministrava praticamente tutta l’industria cubana.

Noi quattro consiglieri sapevamo che avevamo di fronte il compito di creare un nuovo sistema economico del quale però ignoravamo tutto salvo ciò che avevamo letto su testi sovietici di divulgazione economica: alcune idee generali su come si dirigeva un’economia in cui imperava la proprietà statale mediante un metodo denominato pianificazione socialista.

In verità fu proprio l’equipe del Che guidata dal Primo Tenente Orlando Borrego, mio amico e compagno in questa avventura, con la collaborazione di Julio Travieso e altri laureati della vecchia facoltà di Pubblica Amministrazione, che durante il brevissimo periodo di transizione tra il capitalismo e il socialismo, due anni, si fece carico di organizzare e controllare quell’enorme patrimonio statale che era stato consegnato all’INRA. Compito dal quale, oggi come oggi, il meno che si può dire è che sono usciti a testa alta.

Nel 1961 iniziammo a preparare il Piano Economico Nazionale per il 1962 e quello previsionale fino al 1965 con il tutoraggio degli allora compagni cecoslovacchi che ci introdussero al procedimento della pianificazione socialista. Le unità produttive furono integrate in imprese consolidate e queste assegnate dallo Stato ai diversi Ministeri per essere dirette e amministrate da quelle entità, creando così la burocrazia che cominciò a dominare la proprietà statale organizzata in monopoli nazionali.

Però nel 1961 eravamo incapaci di pensare per conto nostro come organizzare e dirigere la nuova economia socialista cubana. Conseguentemente accettammo senza battere ciglio i principi corrispondenti, che non erano altro che la pratica dell’antica Unione Sovietica durante i decenni in cui era esistito questo paese.

Non passarono molti anni, non più di due o tre, perché iniziassimo ad avere dei dubbi, il Che in testa, sull’efficienza dell’organizzazione e del método di direzione socialista che avevamo instaurato a Cuba.

Però, allora, eravamo in condizione di argomentare solo alcune critiche in virtù dell’ancora breve esperienza pratica vissuta, ma in nessun modo eravamo in condizione di esprimere altre soluzioni che rispettassero i grandi propositi della Rivoluzione Cubana. Il primo che poté produrre una critica profonda con la corrispondente proposta alternativa fu il Che che si concentrò sulle caratteristiche proprie del socialismo che dovevano avere la produzione e la circolazione delle merci. Alla discussione pubblica si integrarono il Comandante Alberto Mora, Ministro del Commercio Estero e l’economista francese Charles Betelheim

Però il Che lasciò il suo incarico di Ministro e quello di dirigente politico nel 1965, quando altre terre del mondo richiesero i suoi sforzi, e sebbene l’inquietudine critica continuò tra gli economisti e i quadri politici, mai arrivò a prosperare ufficialmente.

Insomma: per lo meno i cosiddetti consiglieri del Che, non erano all’altezza delle circostanze perché, in quel momento, 1961-1964, si proponessero di teorizzare seriamente un’economia socialista alla cubana. Non avevano le capacità e nemmeno gli veniva in mente di porre in dubbio la validità di ciò che facevano da anni i nuovi “fratelli” socialisti come una alternativa pratica per Cuba. Ascoltavano varie campane, ma non si orientavano. Un’eccezione è stata la formulazione di una nuova tesi sulla determinazione dei prezzi nel commercio internazionale tra paesi socialisti sviluppati e sottosviluppati a causa della specializzazione nella produzione dello zucchero che portò a termine Cuba a partire dagli anni sessanta, però nella misura in cui si determinassero prezzi di vendita diversi da quelli che si generano nel mercato capitalista, prezzi determinati sulla base del riconoscimento del valore generato dai lavoratori dei paesi poveri senza valutarlo in modo discriminatorio per il loro basso livello di vita. La pratica e la difesa degli interessi di Cuba furono la motivazione di questa ricerca. Il risultato finale raggiunto dalla Dirigenza Cubana fu un prezzo di vendita dello zucchero tre volte superiore al prezzo “spot” nel mercato internazionale capitalista, cosa che dopo ha dato luogo ai prezzi correnti che mantenevano la relazione di scambio costante indipendentemente dal livello dei prezzi dei prodotti socialisti importati da Cuba.

Gli allora fratelli socialisti non riconobbero mai la validità di questa teoria economica, e, se lo fecero, fu per quelle che chiamarono “considerazioni politiche”.

La situazione attuale.

É già passato mezzo secolo. Da un lato, l’organizzazione economica socialista e il suo método di direzione ormai non esiste nei paesi dell’Europa che lo avevano praticato: il loro sistema era imploso. Dall’altro, i paesi socialisti che ancora esistono, Cina, Corea del Nord, Vietnam e Cuba, in un modo o nell’altro sono riusciti a risolvere quei problemi dal momento che, come dicono gli inglesi, la prova del “pudding” è riuscire a mangiarselo: e lì stanno con i loro risultati positivi e i loro errori. Tra quei paesi c’è Cuba, dove la Dirigenza del paese è giunta recentemente alla conclusione resa pubblica che il sistema economico e la sua organizzazione socialista devono essere modificati.

È logico chiedere perché la Dirigenza Cubana ha tardato 20 anni per fare la critica del sistema economico vigente. La spiegazione, a nostro giudizio, ha radici nelle conseguenze che la scomparsa dell’URS S nel 1991 e degli altri paesi socialisti dell’Europa ebbe per l’economia cubana. Il suo commercio estero era per più dell’80% legato a quei paesi e dalla sera alla mattina è diminuito dell’80% causando una riduzione del PIL del 40%. In quelle circostanze la parola d’ordine lanciata da Fidel fu RESISTERE e si comprende che in questa congiuntura l’apparato statale concentrasse ancora di più il controllo delle risorse e che l’amministrazione dell’economia fosse ancor più centralizzata.

Ciò nonostante a fine dello scorso anno la Dirigenza Politica Cubana ha avutoil coraggio d’informare, per mezzo del giornale ufficiale del Partito Comunista di Cuba, che l’economia era giunta a una situazione intollerabile. Cinquant’anni dopo una profonda riforma agraria (in due tappe) che in conclusione limitò la proprietà di terre da coltura a 27 ettari, consegnò gratuitamente terre a 130.000 contadini e organizzò il resto della superficie in forma di imprese agricole e di allevamento statali, lo Stato cubano ha dovuto riconoscere il suo fallimento comunicando che il 42% delle terre ora statali non erano coltivate (circa un milione di ettari) e che, pertanto, sarebbero state consegnate in usufrutto a persone disposte a lavorarle.

Quarantadue anni dopo aver statalizzato tutti i servizi alla popolazione in aggiunta a tutte le industrie, il trasporto, le banche e il commercio, ed aver proibito la contrattazione di forza lavoro da parte di imprese private non statali, lo Stato cubano ha dovuto riconoscere che un milione di lavoratori è di troppo nel settore statale dell’economia e dovrà essere ricollocato per andare ad infoltire l’area “non statale” che includerà fino a 178 differenti attività, nei cui settori si autorizza ora il posizionamento della forza lavoro per enti e persone dell’area non statale dell’economia.

La teoria ci diceva che, arrivato il momento della rivoluzione politica degli operai e contadini, generata dalla concentrazione e centralizzazione del capitale in mano di sempre meno proprietari mentre contemporaneamente si generalizzava la povertà tra i lavoratori, l’espropriazione dei mezzi di produzione in mano ai capitalisti permetteva l’organizzazione di un nuovo sistema e di una nuova struttura dell’economia dove i vecchi capitalisti non erano più necessari in quanto tali. Questo significa tre cose:

a-Che i vecchi capitalisti non erano più necessari come detentori e concentratori della proprietà dei mezzi di produzione e di ricollocamento della forza lavoro (funzione di proprietari)

b-Che i vecchi capitalisti non erano più necessari per amministrare e controllare i mezzi di produzione dell’economia (funzione di amministratori)

c-Che era finita la contrattazione di forza lavoro da parte dei capitalisti con la scomparsa di questa classe e con la possibilità di trovare lavoro da parte dei vecchi proletari (nullatenenti) presso il settore statale e cooperativo.

Il possesso dei mezzi di produzione e di riallocazione della forza lavoro passa a nuove forme giuridiche di proprietà e, di conseguenza, devono cambiare anche coloro che prendono le decisioni su cosa, come e per chi produrre in ciascuna impresa e nell’insieme dell’economia. A maggior ragione, le “regole del gioco economico”, ossia la sua logica, cambiano: dall’obiettivo di massimizzare il tasso di profitto possibile sull’ammontare del capitale investito, si è passati ad altra logica consistente nell’ottimizzare il soddisfacimento possibile delle necessità di tutta la popolazione con i mezzi a disposizione.

La storia di Cuba conferma che si sono verificate le conclusioni teoriche della teoria del capitalismo e, conseguentemente, il necessario passaggio a una forma economica diversa e presumibilmente superiore a seguito di una rivoluzione sociale.

Però il momento presente conferma anche che le soluzioni giuridiche e la questione della proprietà delle terre e dei mezzi di produzione così come la nuova logica economica fornita di strumenti, che a sua volta porta in se’ la soluzione della problematica dell’amministrazione dei mezzi, non sono state né al livello delle aspettative né al livello di quanto era sufficiente per garantire un pieno impiego efficiente della forza lavoro e delle terre agricole disponibili. A maggior ragione si è dovuto legalizzare la compravendita della forza lavoro, nientemeno che la relazione sociale di produzione capitalista, riconoscendo con ciò l’esistenza di proletari a Cuba che dovranno prestare loro capacità lavorativa a chi ha la possibilità. Saggiamente, si è guardata la realtà e” no se ha tirado el sofá por la ventana”(non si è buttato via niente, o non si è fatto finta di niente)

Constatato quanto anteriormente esposto ( sia l’obiettivo da raggiungere secondo la teoria rivoluzionaria sia quello effettivamente conseguito in mezzo secolo): questo significa che il processo rivoluzionario cubano ha fallito? La risposta a questa domanda non è un semplice sì o no.

La prima cosa da notare circa la struttura e il sistema corrispondente che furono instaurati a Cuba, con varianti durante il mezzo secolo trascorso, ma sempre basati sulla preponderanza della proprietà statale di tutti i mezzi di produzione, escluso che nel settore contadino privato e minoritario nel contesto dell’agricoltura del paese, è la capacità di centralizzare in modo coordinato tutte le risorse del paese per intraprendere vasti compiti di portata sociale, impossibili da raggiungere in altro modo nel breve e medio periodo in un paese del terzo mondo.

Alimentazione assicurata per tutta la popolazione, superamento dell’analfabetismo in un solo anno, piena copertura medica ed assistenziale e scolastica di tutta la popolazione raggiunte in pochi anni, piena occupazione, capacità organizzativa sviluppata in tutto il paese per affrontare disastri naturali come gli uragani. Tutto ciò mentre si costruisce anche un efficiente e ampio sistema difensivo militare.

Questi sono successi materiali storici del processo. A questo si deve aggiungere la trasformazione culturale che ne è risultata e che ha portato la popolazione cubana a raggiungere una maturità intellettuale e politica, che era del tutto minoritaria prima del trionfo della Rivoluzione, perché era stata esorcizzata dalle idee e dai valori risultato di sessant’anni di neocolonialismo nordamericano. Tutto questo, certamente, con una gestione difettosa dell’economia statale e una piena occupazione a bassa produttività.

Il secondo aspetto da evidenziare è la capacità raggiunta da Cuba nel mantenere la propria indipendenza politica di fronte all’aggressivo imperialismo nordamericano, malgrado l’embargo politico e il blocco economico e le aggressioni sovversive palesi e nascoste, che le ha permesso di giuocare un ruolo importante nella politica internazionale che non ha rapporto con la sua dimensione economica ed il numero degli abitanti.

Ricordatevi che 300.000 soldati cubani hanno combattuto in Angola e che il loro apporto è stato decisivo perché la Namibia raggiungesse l’indipendenza e perché scomparisse il regime dell’apartheid in Sudafrica sconfitto militarmente dai cubani e dagli angolani. Chi abbia dubbi su questa affermazione è libero di chiedere a Nelson Mandela.

È vero che durante i primi trent’anni della Rivoluzione Cubana, questa potè contare sull’appoggio economico, politico e militare dell’URSS, però c’è da notare che questa realtà si è mantenuta per altri venti anni dopo la scomparsa di quel paese. Ciò significa che risponde alle sue caratteristiche interne e non ad una congiuntura politica internazionale.

Da quanto si è detto, si deduce che il fallimento, relativo, della Rivoluzione Cubana sarebbe stato fondamentalmente nell’economia. Questo si è apertamente rivelato dopo che si è dissolto il cosiddetto mondo socialista al quale Cuba aveva integrato la sua economia. Detto scherzosamente alla maniera cubana, i problemi di Cuba sono solo tre: la colazione, il pranzo e la cena! Quando una tonnellata di zucchero permetteva di acquistarne quattro di petrolio e non viceversa come ora, e il commercio estero di Cuba con detti paesi era dell’80%, questi tre problemi erano risolti. Però quel mondo è scomparso in quanto ultima istanza irrazionale nel senso hegeliano e Cuba ha dovuto affrontare la realtà di nuove condizioni alle quali non era preparata.

Si deve impostare di nuovo la consistenza e l’organizzazione del socialismo concreto e reale di oggi, detto del XXI secolo, nel senso che “tutto ciò che è reale è razionale” e anche necessario, come ha notato Engels.

 

Le basi di una nuova teoria.

Modificare l’organizzazione dell’economia. Ma su che basi? Di questo si tratta: avere il coraggio di porre, cinquant’anni dopo, il problema dell’organizzazione e del sistema di direzione dell’economia cubana facendo appello a quanto si è riusciti ad apprendere in materia di economia politica marxista e dall’esperienza di aver vissuto questo mezzo secolo facendo esperienza a Cuba e in altre parti.

In questo impegno due questioni sono veramente importanti. Da un lato il problema della forma della proprietà delle imprese che appartengono a tutto il popolo. E questo non è altro che l’espressione concreta dei nuovi rapporti sociali di produzione nel socialismo del XXI secolo. Dall’altro la questione di come indirizzare l’economia socialista per risolvere i tre grandi problemi che porta con se’: cosa produrre, come produrlo e per chi produrlo. Il “cosa” produrre, bene o male, deve essere determinato da “colui” per il quale produrre e il “come” produrlo è determinato dal “cosa” produrre.

Prima accettavamo senza battere ciglio che la questione della proprietà del popolo sui mezzi di produzione si risolvesse con la proprietà statale e che la direzione di questa economia statale a sua volta si risolvesse con la pianificazione socialista, denominata dal mio amico Regino Boti primo Segretario Esecutivo della Giunta Centrale di Pianificazione “pianificazione a incudine e martello”, organizzata e portata avanti dalla burocrazia statale, i funzionari dell’allora padrone dei mezzi di produzione del paese, alla stessa maniera dei capitalisti del denaro, i proprietari delle azioni che accreditano proprietà sulle imprese nel capitalismo, le amministrano per mezzo di funzionari da questo assunti.

Dati i risultati, è necessario rimettere in discussione quelle soluzioni.

Immaginiamo di essere davanti a una pagina bianca e che, in virtù delle nostre conoscenze e della nostra esperienza, ci proponiamo di cominciare a disegnare la struttura e il sistema di un’economia nazionale in cui tutti i mezzi di produzione fondamentali sono di proprietà di tutto il popolo e che solo per convenienza giuridico-pratica assumono la forma di proprietà dello Stato.

Con che metodologia affrontare il problema ed analizzarlo? A nostro parere non esiste uno specifico modo per questo compito. I testi sull’economia del socialismo che ci sono pervenuti da quei paesi quando si definivano socialisti, non erano altro che la loro esperienza pratica mascherata da teoria e truccata con pseudo soluzioni in cui tutte le contraddizioni si risolvevano “armoniosamente”.

Per nostra fortuna c’è stato un uomo capace di spiegare come è nato, come si è strutturato, come funziona e come di è sviluppato il sistema precedente che abbiamo sostituito, in quanto sistema storicamente determinato preceduto da un altro e che sarà sostituito da uno migliore, che è proprio quello che vogliamo disegnare. In questo tentativo Carlo Marx ci ha lasciato un metodo di analisi che ha impiegato per sviscerare la struttura e il sistema di funzionamento del capitalismo, che è l’unico fin’ora disponibile e che si può utilizzare.

Ipotesi sulle quali si disegnerà il nuovo sistema economico.

Così come è successo nell’avvento del capitalismo, anche noi dobbiamo utilizzare ciò che possa servire ereditandolo dal sistema precedente. Perciò utilizzeremo una cosa antica come la divisione sociale del lavoro e le sue conseguenze. Vale a dire la entità sociale forma valore e la sua espressione concreta com’è il denaro, grazie al quale i prodotti possono avere un prezzo e essere scambiati.

Nel nuovo sistema esisteranno numerose entità, le più grandi e importanti di proprietà dello Stato, capaci di realizzare diversi prodotti, che denomineremo imprese e nelle quali lavoreranno produttori diretti nei corrispondenti processi di trasformazione di investimenti in prodotti mediante una tecnologia determinata. Possono essere anche di gestione privata e, però mai dominanti al punto di imporre la loro logica al sistema.

Accetteremo anche che il valore di qualsiasi prodotto o servizio esprima il lavoro umano, il presente ed il passato incorporato nei mezzi di produzione, contenuto in ciascun prodotto e su quelle basi saranno calcolati e determinati i loro prezzi.

La produzione e la circolazione sarà di merci, merci socialiste come prima erano capitaliste, perchè la forma merce inevitabilmente assume il suo contenuto (la sua formulazione) in funzione delle relazioni sociali di produzione imperanti che a loro volta impongono la loro logica al sistema economico vigente. E dire merce implica dire mercato, in cui la merce fa “il salto mortale” a dire di Marx e rimanda all’impresa che l’ha originata, il “feedbak” su come è stata accettata dai consumatori. Questo in nessun caso nega la convenienza di pianificare la propria azione futura sulla base di quelle informazioni, senza il pregiudizio che il Governo impartisca obiettivi obbligatori a causa di necessità che riguardano tutta la popolazione. Produzione e circolazione delle merci e pianificazione nazionale allo stesso tempo: c’è qui una caratteristica contraddizione da risolvere con la dialettica materialista.

Ed è ovvio che i principali mezzi di produzione dell’economia saranno proprietà di tutto il popolo per una relazione giuridica di proprietà statale, però all’inizio solo giuridica, rimanendo aperta la problematica della sua amministrazione-gestione soggetta alla relazione tra produttori diretti di ciascuna impresa e i loro mezzi di produzione, vincolo che non può essere alienante per i suoi lavoratori come lo è stato nel capitalismo quando vendendo la propria forza lavoro per un salario ciò serviva solo per lavorare eseguendo ordini emarginati da ogni legame con la problematica dell’amministrazione dell’impresa.

Marx, nell’affrontare il fenomeno dell’alienazione nel capitalismo, ha tenuto in conto una caratteristica essenziale dell’homo sapiens propria della sua esistenza come essere biologico: la sua esistenza è possibile unicamente come facente parte di un insieme di suoi simili. Pertanto il senso dell’appartenenza a un gruppo umano che ha una finalità esistenziale, è innata nell’uomo. É nel nostro DNA. Questo fenomeno si manifesta in ogni insieme di lavoratori ma nel capitalismo è negato dalla stessa relazione sociale di produzione a causa della quale il lavoratore è solo il complemento individuale della macchina e non partecipa coscientemente per nulla alla finalità dell’azione della collettività. La proprietà statale nel socialismo ha ripetuto di fatto questa alienazione perché l’amministrazione di imprese e fabbriche è fatta dalla burocrazia statale.

E su queste basi del precedente completoragionamento che disegnamo l’organizzazione e il sistema di funzionamento dell’economia nel socialismo del XXI secolo!

Attenzione però, il disegno di questa nuova economia socialista del XXI secolo si porterà a buon fine sulla carta e, solo se sarà accettata, sarà implementata passo passo con molta attenzione seguendo il vecchio adagio ebraico che dice: “non buttare l’acqua sporca finchè non hai quella pulita”. Non deve succedere che nel processo buttiamo l’acqua sporca senza avere realmente acqua pulita per rimpiazzarla come è successo nella vecchia URSS, dove alla fine sono rimasti senza acqua.

Santiago, Marzo 2011

 

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