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Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva. Lo scandalo Ilva è il doppio dell’Imu

Quando non si occupa di massimi sistemi (democrazia, valori, socialismo, ecc) Adriano Sofri si dimostra un buon giornalista. In questo caso, su Repubblica, rendiconta con dovizia di particolari lo “scandalo Ilva”. Dove tutti, ma proprio tutti – governo, sindacati, forze politiche nazionali e locali, Vendola compreso – si sono rivelati più o meno collusi con un “prenditore” assolutamente senza scrupoli.

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TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede “la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”, la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell’Imu… Qualunque decisione prenda il consiglio d’amministrazione convocato per stamattina, non c’era e non c’è un futuro per l’Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto “salva-Ilva”, in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all’amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato.

Un’amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati  –  circa 800 milioni  –  non basta. Se l’imminente piano europeo, cui lavora l’italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno del governo. Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e

della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.

Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli “incidenti rilevanti” (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l’ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D’Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l’omissione di un piano di emergenza nell’eventualità di un incidente rilevante: a un’obiezione su questo punto, responsabili dell’Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l’azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell’area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo “slopping” e al “sovradosaggio ossigeno” (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell’impianto di aspirazione); frequenti emergenze all’acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le “torce”, i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l’incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, “in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali” – cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l’agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione (“anche da stabilimenti esterni”!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l’attività produttiva si svolge secondo l’accusa in modi dolosamente illegittimi.

Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori – e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un “allarmismo” seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
“Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all’Ilva, ai danni della popolazione e dell’ambiente”. È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L’onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L’alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell’Ilva dall’Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l’esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi – tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli – e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell’azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L’affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l’Ilva ha consegnato all’operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

* da Repubblica

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