Ieri, nell’aula bunker di Torino, la stessa dove si celebra il processo contro i quattro NoTav accusati di terrorismo, si è svolta una lunga e tesa udienza del maxiprocesso, che vede imputati 53 attivisti per i fatti del 27 giugno e 3 luglio 2011. Due giornate di lotta culminate con lo sgombero cruento della Libera Repubblica della Maddalena, un’area archeologica che il movimento voleva sottrarre alla furia speculatrice del cantiere. Gli scontri del 3 luglio tra NoTav e forze dell’ordine durarono un’intera giornata, e culminarono con un’ondata di arresti senza precedenti.
Gli imputati del maxiprocesso a oggi devono rispondere tutti più o meno delle stesse accuse: resistenza, lesioni, devastazione. L’udienza di ieri si è però focalizzata sul ruolo avuto dalle forze dell’ordine, in particolare di due celerini che arrestarono con estrema violenza un attivista trascinandolo sul terreno per almeno cinquanta metri, come mostra questo video:
I circa venti secondi che mostrano il trascinamento e il conseguente pestaggio con spranghe e bastoni, sono stati al centro del dibattimento per quasi l’intera udienza, generando momenti di durissimo scontro tra l’accusa, rappresentata dal Pm anti notav Rinaudo, e la difesa, rappresentata dal legal team quasi al completo.
Si comincia con la testimonianza della vice-questore di Torino, che quel giorno aveva compiti di gestione dell’ordine pubblico. Una testimonianza puramente formale, che si dipana su una lunga serie di “non so” e “non ricordo”. “Non ricordo bene”, risponde quando gli avvocati le chiedono la sua posizione in determinati momenti della giornata, o quando le mostrano una foto che potrebbe immortalarla di spalle nel bel mezzo dell’azione, in abiti borghesi, in mezzo a un discreto numero di celerini: “non so se sono io, quel giorno eravamo diverse funzionarie donne”. Anche quando le viene mostrata la foto di un arrestato gravemente ferito alla testa, la vice-questore afferma di non ricordare di averlo visto e che i suoi compiti si limitavano alla gestione dell’ordine pubblico, e non alla gestione dei fermati.
Si continua con la precisa testimonianza di Giuseppe Caccia, un ricercatore universitario, esperto di grandi opere e consigliere comunale di Venezia, la città del Mose. Di quel 3 luglio ricorda perfettamente la prima carica a freddo lanciata contro il corteo, e delle centinaia di lacrimogeni sparati ad altezza uomo, anche a distanza ravvicinata. Uno di questi colpisce in pieno petto un ragazzo di 18 anni, Jacopo Povelato, che sviene immediatamente e comincia a respirare a fatica. Caccia e altri lo sollevano per portarlo via dalla mischia e ripararlo in un luogo più isolato in attesa dei soccorsi, ostacolati, a suo dire, dalla massiccia presenza di blindati che bloccavano le strade intorno all’area della manifestazione.
Giuseppe Caccia al contrario della testimonianza che l’ha preceduto, ricorda molto bene gli eventi di quel giorno. Se violenza c’è stata, afferma, è partita dalle forze dell’ordine, il corteo ha solo reagito alla gratuità degli attacchi. Ricorda anche che il ragazzo da lui soccorso ha avuto una prognosi abbastanza pesante, per aver riportato un trauma toracico addominale, una contusione epatica con versamento peritoneale e la frattura composta di una costola. Solo quel giorno, ricordiamolo, i reparti antisommossa spararono 4517 candelotti di gas CS.
Le testimonianze successive vengono rilasciate dai due poliziotti che nel video trascinano il manifestante fermato (v. anche foto allegate). Quel modo di trascinarlo, dicono, era dettato dall’esigenza di mettere velocemente “in sicurezza” sia il fermato che gli agenti stessi. Gli avvocati dei NoTav incalzano chiedendo con velata ironia se anche i calci e le sprangate dei colleghi intorno rientrassero nelle modalità dell’arresto e della “messa in sicurezza”. Possibile, chiedono i legali, che nessuno si stesse accorgendo della violenza usata contro il ragazzo trascinato a terra? Uno dei due afferma di non aver ravvisato nulla del genere, e che la situazione fosse talmente concitata, il caldo talmente elevato, che la polvere e il sudore si mescolavano impedendo la vista di ciò che accadeva intorno. In più c’era un continuo lancio di pietre, di cui però almeno in quel video non c’è traccia alcuna. I legali non cedono e mostrano altre foto più eloquenti, condite da domande tecniche sulla posizione degli agenti rispetto agli scontri, e sulle modalità di arresto. È questo il momento di massima tensione: il presidente del collegio interrompe bruscamente la valutazione delle immagini, ravvisando il rischio di dover interrompere l’esame del teste e che a carico del testimone si possa aprire estemporaneamente un procedimento penale. Gli fa eco il pm, generando un momento di aspre polemiche tra accusa e difesa, come sempre più spesso accade nel maxiprocesso.
Dopo una bagarre di alcuni minuti, la testimonianza va a concludersi senza altri sussulti.
A margine ricordiamo che per i due celerini erano stati in passato già aperti due procedimenti, entrambi archiviati con la motivazione che proprio la confusione e le esigenze di intervenire tempestivamente, abbiano dato adito a modalità operative “poco ortodosse”. Le testimonianze si chiudono con i “non so”, i “non ricordo” e con la giustificazione, per ogni fotogramma di violenza mostrato, di voler mettere in sicurezza il fermato velocemente e di identificarlo. Solo uno degli operatori di OP immortalati, estraneo all’udienza di ieri, sta subendo un procedimento per lesioni: si tratta di un carabiniere riconosciuto fortunosamente da un tatuaggio sul bicipite, intento a colpire il manifestante con una mazza.
Assistere a un’udienza come quella di ieri, restituisce la misura esatta del durissimo scontro in atto da anni tra stato e movimento NoTav. L’idea è di un processo chiaramente sbilanciato. Un processo lungo, nell’arco del quale più volte giudici e pm hanno rifiutato le argomentazioni sulla validità o meno dell’opera, limitandosi a rimarcare che il processo entra solo nel merito dei reati specifici commessi. Questo argomento si ripropone quasi ossessivamente in ogni udienza, così come ricorre nelle sentenze già emesse o nelle centinaia di ordinanze relative agli altri processi in corso. In sostanza, la procura di Torino non valuta l’utilità o meno dell’opera, ma giudica e processa gli individui che le si oppongono con ogni mezzo. E non si perde occasione di ricordarlo, in ogni sede.
Dopo i momenti di tensione il clima dell’udienza torna normale e va a concludersi con un colpo di coda del legal team, che prova a far mettere agli atti un articolo di stampa sulle infiltrazioni mafiose nei lavori dell’alta velocità. Inserirlo agli atti del processo, darebbe una luce diversa alla posizione degli imputati e alle motivazioni della protesta.
L’articolo viene rigettato dal giudice, che accoglie così l’opposizione del pm e dell’avvocatura di stato.
Quel documento non c’entra niente col processo in corso.
Quella delle mafie, è un’altra faccenda.
* Corrispondente in Val Susa
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