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“Milano è diventata il paradiso del neoliberismo urbanistico”. Intervista a Sergio Brenna

A Milano i grattacieli spuntano come funghi mentre una febbre speculativa sta facendo schizzare i prezzi immobiliari. La “Capitale vicino all’Europa”si sta rivelando una sorta di laboratorio del neoliberismo urbanistico.

L’urbanista milanese Sergio Brenna, docente al Politecnico di Milano – ma anche attivista politico, è stato candidato al Senato per Potere al Popolo a Milano 1– denuncia e sferza quasi quotidianamente questo assalto alla città e i mostri urbanistici e sociali che produce. Abbiamo rivolto alcune domande a Sergio Brenna.

Da tempo seguiamo alcuni tuoi commenti sul boom immobiliare a Milano caratterizzato dalla costruzione di grattacieli. Secondo una definizione che ci è piaciuta, a tuo avviso possiamo affermare che le skyline o i grattacieli siano “degli istogrammi della rendita immobiliare”?

Lo skyline con edifici a torre molto alti riflette in modo inevitabile e incontrollato la sudditanza dell’Amministrazione Comunale a scelte guidate da interessi economici che hanno teso a massimizzare la rendita fondiaria, ancor più di quella immobiliare, ma senza prevederne le conseguenze tipologico-progettuali che ne sarebbero derivate. All’ex Fiera (poi Citylife) e all’ex CD (poi Porta Nuova) si sono fissate regole altrettanto arbitrarie quanto quelle “convenzioni ad personam ed in precario” degli anni ’50-’60. All’ex Fiera l’indice edificatorio è stato fissato per far conseguire a Fondazione Fiera la rendita fondiaria di 250 Milioni di € (ai prezzi correnti della rendita pagata dai realizzatori immobiliari alla proprietà fondiaria, che era di circa 800-900 € al metro quadro commerciale vendibile) necessari a coprire  i debiti fuori bilancio maturati da Fondazione Fiera nella costruzione della nuova sede a Rho-Pero, a causa delle bizzarrìe di Fuksas con i suoi “cappellacci” vetrati (un exploit simile a quanto da lui ripetuto con la Nuvola a Roma-EUR).

L’urbanistica, però, non si fa lasciando decidere alla proprietà fondiaria  quanto intende guadagnare (è appunto ciò che accadeva negli anni ’50-’60 con le “convenzioni” sottoposte dai proprietari fondiari ai Comuni senza piano urbanistico preventivo), ma il Comune di Milano e il suo assessore all’urbanistica, il ciellino Maurizio Lupi, non erano in grado di resistere alle aspettative di Fiera di Milano e del suo Presidente Roth, in quanto nominato dall’ancor più potente ciellino Formigoni, presidente di Regione Lombardia. La quantità edificatoria che ne è derivata (1 milione di metri cubi) doveva subito far intendere che non poteva essere realizzata se non con edifici altissimi e con spazi pubblici ridotti a 1/3 di quelli prescritti nell’accordo stipulato col Comune. Ma la cosa ancor più sorprendente è che quando, grazie a quell’accordo col Comune, Fiera ha messo a bando la vendita dell’area per 250 milioni di €, se ne è visti offrire mediamente il doppio: le due offerte migliori erano di 480 Milioni da parte di Pirelli RE (con un progetto di Renzo Piano che almeno compattava molto le volumetrie terziarie in una piastra molto densa e relativamente bassa e le residenze in una sola torre di 200 metri di altezza; ma – data la compattezza dell’area lasciata libera – sarebbe stato possibile anche proporre di realizzarne due da 100 metri o quattro da 50) e di 526 Milioni da parte della cordata Citylife (Banca Intesa, Allianz, Generali e altri minori) con un progetto “orfano” di impianto generale pensato e che però frazionava molto l’area verde e gli edifici residenziali sui bordi (con altezze doppie degli edifici circostanti) e tre torri terziarie alte 200 metri (dal design bizzarramente movimentato dalle tre archistar Hadid, Isozaki, Libeskind, che si sono suddivisi anche il compito di “carrozzare” le residenze).  Ci si può chiedere come sia possibile offrire il doppio della rendita fondiaria corrente (1.800 €/metro quadro vendibile contro 800-900) e l’unica spiegazione plausibile è che qui ad investire non sono stati operatori immobiliari “puri” che si debbono finanziare dalle banche e vendere a breve, ma direttamente operatori bancario-finanziari che possono permettersi una scommessa speculativa sul lungo periodo: pago il doppio la rendita, ma egemonizzo il mercato e nel giro di 15-20 anni i prezzi saranno più che raddoppiati [1]. Si sarebbe, quindi, potuto chiedere alla proprietà di dimezzare indice edificatorio e volume, rientrando in limiti di altezze e dotazioni di spazi pubblici urbanisticamente ragionevoli, pur ottenendo il necessario a saldare il debito, ma nessuno ha osato chiedere a Fiera né di rinunciare a quell’inatteso “surplus” né di scegliere almeno il progetto meno impattante: Fiera si è tenuta tutto l’inatteso bottino e la città il volume e il progetto più devastante.

A Porta Nuova l’indice edificatorio è stato ridotto da 1,15 mq/mq a 1,00 mq/mq perché il successivo assessore all’urbanistica Masseroli (anche lui rigorosamente CL) diceva che a lui piacevano le cifre tonde (honni soit qui mal y pense !). Entrambi gli interventi non potendo realizzare i 45 mq/abitante di spazi pubblici previsti in PII (se non con torri da 600 m. non collocabili sul mercato come a Doha o Dubai, che infatti stanno nel deserto e non nel cuore di una città europea), ne realizzano 15 mq/ab (meno dei 18 minimi inderogabili del vetusto DM 1444/68), indennizzando al Comune il resto non realizzato a 300 €/mq per tenersi edificabili aree pagate 2.000 €/mq di suolo alla proprietà fondiaria.

Mettiamoli in fila questi grattacieli – e i loro acquirenti – che incombono sui due poli di Porta Nuova e City Life: Unicredit, Hadid (Generali), Isozaki (Allianz) e poi la vecchia Torre Velasca, la Torre Galfa. La Torre Solaria, la Torre Breda, senza dimenticare il veterano Grattacielo Pirelli e il più recente Palazzo Lombardia. Poi ci sono i due “boschi verticali” di Boeri mentre incombono il grattacielo di Libeskind (Pricewater), quasi terminato, e quello della Unipolsai. Che cosa sta succedendo a Milano, si sono create le condizioni ideali per sbizzarrirsi sul piano architettonico o c’è altro?

Sono stato assessore a Rho nel 1994-’98 e in quegli anni ho avuto l’occasione di vedere il lay-out della  nuova sede di Fiera di Milano a Rho-Pero, redatto dall’ing. Vettese, capo UT di Fiera – e simile a quello poi usato anche per la nuova sede di Fiera di Roma – cioè prima che Fuksas ci mettese mano con le sue bizzarrìe e con tutti i costi e i guai che ne sono derivati anche nella vendita della vecchia sede. Il responsabile dell’urbanistica del Comune – vedendomi  procedere pragmaticamente, ma fermo negli obiettivi – un giorno mi disse “Assessore è proprio vero che l’urbanistica non è un mestiere da farmacista”. Gli risposi: “Ha ragione, è piuttosto un mestiere da salumiere, però anche dal salumiere se chiedo un etto di prosciutto posso accettare se mi dice: “un etto e dieci, lascio ?”, ma non se cerca di rifilarmi un etto e mezzo, due etti o mezzo kilo”. Purtroppo è ciò che accade in tanti piani urbani di archistarlette glorificate oggi !

A Citylife e a Porta Nuova gli indici di edificabilità e le dotazioni di spazi pubblici[2] sono entrambi stabiliti “ad casum”, ma rimangono l’unico riferimento da far rispettare. Gli esiti tipologico-progettuali dell’edificio e delle aree pubbliche rimangono un “non cale” lasciato all’arbitrio della proprietà col benevolo assenso della Giunta, senza più chiamare in causa quella mummia del Consiglio comunale. Non so perché ma in questi giorni sento una certa consonanza con la discussione di ruoli tra Parlamento e Governo…

Questo modello di città “verticale” è solo una tendenza dell’architettura moderna o indica una visione di classe dell’urbanistica di una metropoli?

Come ho cercato di spiegare sopra, il riaffacciarsi – sia pure con denominazioni più modernamente suggestive ed accattivanti (PII, PRU, Accordi di programma) – del metodo delle “convenzioni ad casum” tipico degli anni ’50-’60 (e cui si era posto fine dal 1967 agli anni ‘90 con la c.d. “Legge Ponte”, obbligando Comuni e privati a farle sottostare ai limiti preventivi di un PRG) consente di nuovo ai privati di proporre al Comune la realizzazione di una  quantità edificatoria da essi stessi stabilita, proporzionandola solo alle proprie esigenze o risorse economiche, ai propri mezzi tecnici, alle proprie aspettative di collocarne sul mercato gli esiti prodotti. Quando le esigenze o le risorse economiche sono molto grandi, anche la quantità edificatoria proposta è molto grande, anche se ciò non corrisponde ad una ragionevolezza urbanistica in termini sia di altezze e densità degli edifici sia di possibilità di realizzare effettivamente gli spazi pubblici prescritti o promessi. Ciò sovradetermina che la realizzazione di edifici molto alti e molto ravvicinati tra loro non è più una scelta progettuale voluta e pensata, ma un obbligo imposto da indici urbanistici incongruenti. Viceversa, se gli indici e le quantità edificatorie sono congruenti, si possono confrontare e valutare differenti ipotesi di edificazioni più basse e diffuse oppure più sviluppate in altezza con vasti spazi liberi all’intorno (la cui vivibilità e sicurezza  pongono però spesso gravi problemi di gestione). In genere, a questa riduzione delle opzioni tipologiche praticabili si contrappone un’effimera e bizzarra variabilità di forma degli edifici a torre alta (lo Storto, il Gobbo, il Tortiglione, la Siringa, il Diamantone, ecc.) oggi resa più facilmente praticabile dalla diffusione delle costruzioni in acciaio[3], oppure con stratagemmi come i balconi aggettanti del Bosco Verticale (soluzione di solito evitata nelle torri alte per via dei venti in quota, preferendosi se del caso balconi rientranti “a loggia”), che al richiamo del fatuo “ecologismo davanti alla finestra di casa” uniscono per l’immobiliarista l’utilità di un’imprevista superficie commerciale aggiuntiva, vendibile – come d’uso – al 30% di quella interna all’appartamento. Un bell’affare !

David Harvey afferma che in questa fase di difficoltà del capitalismo, le città diventano un luogo ideale per valorizzare, dunque mettere a profitto, gli enormi capitali accumulati ma che l’economia della produzione non è più in grado di valorizzare come vorrebbero gli esponenti del capitale finanziario. Investire nelle città sta producendo mostri sul piano sociale oltre che urbanistico?

Non escludo che alcuni punti eccezionali della città – come nei Down Town District anglosassoni – richiedano uno sviluppo di eccezionale altezza che li renda riconoscibili rispetto al corpo urbano diffuso; ma – ciò detto – a Milano questo noi l’abbiamo già consentito di fare a Citylife e Porta Nuova, magari sbagliandone la localizzazione (considerazione valida soprattutto per Citylife). Non ha nessun senso che quel modello urbano con edifici di 150-200 metri e oltre lo si ripeta diffuso per tutto il corpo della città, come rischia di fare l’Accordo di programma tra il Comune ed FS per il riuso edificatorio degli ex scali ferroviari milanesi, approvato nel luglio 2017. E’ vero che qui l’indice edificatorio medio è più basso che a Citylife e Porta Nuova (It=0,65 mq/mq), ma esso si concentra  in particolare sulle due aree maggiori di Farini e Porta Romana, dove si avvicina molto a quello di quei due casi precedenti (It=0,80 mq/mq) e inoltre la proposta di Stefano Boeri, fatta propria da Comune ed FS, di realizzarvi un grande parco territoriale suggestivamente denominato Fiume Verde, fa sì che i 30 mq/abitante di spazi pubblici previsti (e qui sì interamente realizzati, non come a Citylife e Porta Nuova dove se ne sono realizzati solo 15 mq/abitante contri 45 previsti) dovrebbero essere totalmente impiegati a questo scopo, non lasciando nulla per il verde e i servizi di prossimità (aree giochi, scuole, centri civici, ecc.), la cui utenza si riverserebbe tutta su quelle già sovraccariche dei quartieri circostanti. Si avranno, quindi, anche qui – come dimostrano le “visioni” commissionate da FS a 5 studi internazionali selezionati da Boeri[4] – edifici molto alti e raddensati sui bordi, a ridosso dei preesistenti edifici più bassi dei quartieri attigui, e all’interno una sorta di “giardino dell’Eden”: sui bordi l’Inferno, al centro il Paradiso ! Se si mantiene l’It=0,65 mq/mq si possono ragionevolmente realizzare solo il verde e i servizi di prossimità di una moderna città europea e il Fiume Verde bisognerà continuare a pensarlo dove storicamente l’avevano previsti i vari PRG (Ippodromi, Parco Nord e Sud, Parco Martesana, Parco Forlanini, ecc.); se, invece, si vuol pensare alla nuova idea di Fiume Verde sugli ex scali, l’edificabilità deve scendere a 0,45 mq/mq: si tratterebbe di ridurre i 2 milioni di metri cubi di edificazioni oggi approvati di circa 600.00 metri cubi, cosa che FS – che vuole risanare il proprio bilancio per quotarsi in Borsa – non vuole assolutamente neanche sentir nominare. In entrambi questi modi, però, sarebbe possibile confrontare differenti soluzioni tipologico-progettuali a differenti concentrazioni ed altezze, anziché l’unica messa sinora in campo di edifici di 150-200 metri d’altezza e oltre.

Ma Milano che cosa è diventata in questi anni di crisi? Cosa sta diventando e cosa vuole diventare?

Milano ha perseguito questo modello di neoliberismo urbanistico soggetto alle aspettative sia della rendita fondiaria delle grandi proprietà di aree dismesse (ex Fiera/Citylife, ex raffineria di Rho-Pero/Nuova Fiera, ex Centro Direzionale/Porta Nuova, ex scali ferroviari, ex caserme, ecc.) sia alle prospettive di investimento dei grandi gruppi finanziario-immobiliari soprattutto con le Giunte di centrodestra Albertini/Lupi e Moratti/Masseroli, scelte allora criticate dall’opposizione di centrosinistra. Con l’avvento del centrosinistra di Pisapia/De Cesaris prima e Sala/Maran ora quegli interventi che erano stati approvati dal centrodestra, ma non ancora avviati ad attuazione, sono improvvisamente divenuti i capisaldi della modernizzazione urbana e sociale della città e da portare ad esempio anche per altre realtà italiane. Basti pensare che l’attuazione Citylife che doveva concludersi nel 2015 è stata prorogata dalla Giunta Pisapia/De Cesaris sino al 2023 senza la minima ridiscussione o variazione. Citylife e Porta Nuova vengono oggi fotografati ,pubblicati su riviste di moda e di tendenza, usati come sfondo del TG3 e di spot pubblicitari. Costituiscono così modelli per un immaginario “metrolife style” degli spazi aperti (pubblici solo in quanto “open out space” dello shopping e della movida), che però assomigliano sempre più a studi televisivi per rutilanza di luci e comportamento dell’utenza, soprattutto giovanilisticamente consumista: in fondo per questa utenza va anche bene che non siano spazi troppo estesi, ciò che ne disperderebbe l’effetto “gregge”. A patto, però, non alzare lo sguardo sull’altezza degli edifici che vi incombono sopra e che vivono di vita ed utenza completamente diversa e separata, all’insegna delle multinazionali finanziarie, bancarie, assicurative o di quel po’ di residenza ultralusso sino al cafonal di calciatori, manager rampanti, veline, rapper (Fedez e Chiara Ferragni col loro attico da 400 mq con palestra e sala incisione sono il top). Il resto della città, quando non va in pellegrinaggio devozionale, si gratta le rogne…

Sul nostro giornale seguiamo con attenzione la competizione ormai esplicita tra Milano e Roma come Capitale del paese. Le spinte che emergono per una “Capitale vicina all’Europa” stanno diventando più esplicite o è solo una nostra sensazione da Roma, una Capitale decisamente in affanno e più vicina al Mediterraneo?

Roma, forse a causa della maggior persistenza di Giunte di centrosinistra ancora un po’ “vecchia maniera” (almeno sino all’irruzione di Alemanno, che ha fatto molto clientelismo negli incarichi pubblici, ma poco dinamismo nel marketing urbanistico) e forse anche a causa di una minor presenza di sedi del capitale finanziario, è apparsa in ritardo rispetto ad accodarsi a Milano, ma già con Marino/Caudo la tendenza è cambiata con la predisposizione degli interventi su Piazza dei Navigatori, sull’ex Fiera in viale Cristoforo Colombo (situazione analoga a Milano: si vuole edificare sino a coprire 180 Mln di € di buco di gestione della Nuova Fiera vicino a Fiumicino-Aeroporto), il riuso degli ex Magazzini militari al Flaminio, il riuso degli ex Mercati Generali a Ostiense e soprattutto con il progetto di Nuovo Stadio della Roma a Tor di Valle: qui lo Stadio è solo un pretesto per  il finanziere italo-americano Pallotta – che tiene la Roma A.S. e i suoi tifosi come ostaggi e utili idioti –  per consentirgli di farsi autorizzare 1 milione di metri cubi di edificazioni a torri di più di 100 metri di altezza (e per lo più terziario-direzionali o residenziali di lusso) per rendere accessibile e in sicurezza un’area isolata ed alluvionabile, da lui rilevata a prezzi fallimentari dall’immobiliarista Parnasi; la versione escogitata da Raggi/M5S – che dall’opposizione aveva sparato ad alzo zero sull’operazione – cioè la “riduzione” a 500.000 metri cubi e senza torri visibili da lontano, ma con metà delle opere di viabilità e drenaggio necessarie, la dice lunga sul trionfale ritorno dell’urbanistica “contrattata” nel DNA di ogni forza politica oggi in campo.

 

[1] Non sta andando loro molto bene:   Allianz a Citylife ha dovuto “ricomprarsi” l’investimento trasferendovi nella torre di Isozaki tutti i propri uffici; al dopo Expo, Banca Intesa  – che è il principale finanziatore dei soci di Arexpo (Regione, Comune di Milano, Fiera di Milano, Comune di Rho) i quali che non riescono a restituire il prestito al di là di quanto venduto ai privati Lendlease e Galeazzi – pensa di fare altrettanto con una propria torre;  ma è un rischio che possono permettersi di correre senza dover fallire.

[2] Il “mitico” 50% di aree pubbliche non ha nessuna logica urbanistica, ma vuole solo accreditare una falsa immagine di equipartizione mezzadrile tra pubblico e privato. Falsa perché l’equità dipende dagli indici edificatori del 50% residuo e privato: se sono “equi” col 50% pubblico si dovrebbe sottoutilizzare l’area, se sono più alti è una vera truffa ingannatoria, poiché invece occorrerebbe circa il 65-70% ad aree pubbliche con It=0,45-0,50 mq/mq; con l’It= 1,15-1,00 mq/mq come a Citylife e Porta Nuova anche solo il 50% dell’area a uso pubblico occorrono edifici da 200 metri e oltre di altezza.

  1. [3] Gli strutturisti – ancorchè di gran fama come Nervi – del Pirelli e della Torre Velasca dovettero affrontare complicati problemi di rastremazione dei pilastri di sostegno e degli aggetti delle strutture in cemento armato, che cozzavano con la libera inventività dei progettisti architetti Ponti e BBPR, che si ispiravano però a tendenze diffuse del design o dei riferimenti storici alle torri medioevali e non a stilemi più simili alle griffes e ai brand della moda.

[4] Oltre a Boeri stesso, Tagliabue/EMTB, Cino Zucchi, Mecanoo e Mad Architects

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