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Prevenire gli attacchi agli ecosistemi per combattere future pandemie

Durante i primi mesi della pandemia di Covid-19, la Rete dei Comunisti ha organizzato una serie di conferenze online per comprende il passaggio di fase legato non esclusivamente alla situazione contingente dello scoppio e della diffusione su scala mondiale del virus, ma all’incidenza di questo nelle trasformazioni politiche, economiche e sociali del periodo storico che stiamo vivendo.

All’interno di questo ciclo, è stato approfondito, da un punto di vista storico e sociale, il ruolo delle “epidemie detonatrici”, in cui un agente microbiologico – apparentemente esogeno e naturale, favorito nel suo sviluppo e nell’effetto che provoca sulle comunità umane proprio dall’organizzazione e dal livello di sviluppo delle stesse società – diviene elemento di precipitazione delle contraddizioni di un intero sistema (qui il video).

La distribuzione e l’avvio della vaccinazione contro il Covid-19, annunciato in pompa magna ignorando le migliaia di morti che continuano ad essere registrate quotidianamente negli ospedali, dovrebbero far intravedere la luce in fondo al tunnel. Tuttavia, per prevenire pandemie future dalle conseguenze catastrofiche è necessario sin da ora rimettere in discussione il sistema in cui si concretizzano e si sviluppano le relazioni tra gli esseri umani e tra questi e la Natura.

Pubblichiamo la traduzione dell’intervista per Mediapart* realizzata da Amélie Poinssot al biologo Benjamin Roche, il quale sottolinea l’importanza di prevenire gli attacchi agli ecosistemi per combattere future pandemie, evidenziando il collegamento tra l’impatto della specie umana sugli ecosistemi, la perdita di biodiversità e l’insorgenza di malattie infettive all’interno di un sistema di produzione e di sfruttamento intensivo delle risorse che trascura i rischi ambientali e per la salute per la ricerca del profitto “a tutti i costi”.

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12 miliardi di dollari sbloccati dalla Banca Mondiale per un rapido accesso al vaccino nei paesi in via di sviluppo, più di 8 miliardi di euro negoziati dall’Unione Europea per ottenere centinaia di milioni di dosi, più di 5 milioni di euro di finanziamenti pubblici concessi all’azienda biotecnologica francese OSE Immunotherapeutics per lo sviluppo del suo vaccino…

E se così tanti soldi fossero destinati alla ricerca sugli ecosistemi e alla prevenzione di future pandemie?

Nel bel mezzo della corsa al vaccino Covid-19, il biologo ed ecologo Benjamin Roche consiglia di andare anche oltre l’approccio strettamente medico al Coronavirus, la cui emergenza è legata al controllo umano sulle aree naturali.

Secondo questo specialista delle interazioni tra ambiente, salute e malattie infettive, esperto dell’IPBES, la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici, che riunisce scienziati di 130 paesi (l’equivalente dell’IPCC per il clima), si potrebbero adottare rapidamente misure per fermare o almeno rallentare la deforestazione che si sta verificando in tutto il pianeta.

Anche qui c’è urgenza: “Pandemie più frequenti, più letali e più costose sono previste per il futuro”, ha osservato l’IPBES nel suo rapporto pubblicato in autunno. L’organizzazione contava tra 631.000 e 827.000 virus attualmente presenti in natura che potrebbero infettare l’essere umano.

Nell’ultimo rapporto dell’IPBES, lei propone una serie di percorsi per combattere meglio le future pandemie. Quali sono?

Il primo è a livello istituzionale. Al momento non abbiamo nessun organismo in grado di combattere l’insorgenza delle zoonosi [malattie che attraversano la barriera delle specie]. Questo non è il ruolo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), della FAO, o dell’Unione Europea…

Quindi proponiamo la creazione di un organismo internazionale per le pandemie, per catalizzare la conoscenza, per inviare un messaggio chiaro ai responsabili politici, per colmare le lacune nella ricerca.

Il rapporto dell’IPBES fa il collegamento tra l’impatto della specie umana sugli ecosistemi, la perdita di biodiversità e l’insorgenza di malattie infettive. Ogni anno, compaiono tra le quattro e le cinque nuove zoonosi che riguardano gli esseri umani.

A differenza della SARS-CoV-2, tuttavia, la maggior parte non viene rilevata su larga scala o rimane controllabile in modo abbastanza efficace perché non è un virus ben adattato all’uomo. È il caso, ad esempio, dei virus dell’influenza aviaria altamente patogeni H5N1 o H5N8 [dalla fine di novembre sono stati rilevati diversi focolai di influenza aviaria H5N8 in Europa, anche in cinque allevamenti di anatre in Francia].

Dobbiamo quindi agire sulle cause di questa perdita di biodiversità. La deforestazione e il commercio di animali selvatici fanno sì che sempre più spesso entriamo in contatto con la fauna selvatica.

Come possiamo farlo?

La biodiversità ha un effetto di diluizione sulla trasmissione dei microbi. Agisce come un freno, per così dire: quando ci sono molte specie, ci sono molti ospiti senza via d’uscita che fermano la diffusione di virus e batteri. La perdita di biodiversità significa che possono circolare a livelli molto più elevati.

Dovrebbero essere messi in atto due meccanismi principali. Il primo è il monitoraggio del commercio di animali selvatici. Il 24% dei mammiferi del mondo è oggetto di scambi. Questo è quintuplicato negli ultimi 15 anni. Un tale sistema di tracciamento ci permetterebbe, quando incontriamo un microbo, di rintracciare la fonte del problema e di recidere la catena della diffusione il più rapidamente possibile.

Il secondo è la tassazione di questi settori economici. La deforestazione e il commercio di animali selvatici devono essere resi meno attrattivi dal punto di vista dei rendimenti.

Come spiega il fatto che questo discorso che fa lei, come molti scienziati che studiano gli esseri viventi, non viene per niente ascoltato dai media e dalle autorità pubbliche al momento?

In una crisi, ci sono momenti diversi. Quando scoppia la crisi, è necessaria una gestione dell’emergenza. Ma dopo, quando la pressione si allenta un po’, bisogna prepararsi per il medio termine e poi per il lungo termine.

Il coronavirus ha mostrato vividamente l’impatto umano sugli ecosistemi: è stata la scintilla che ha innescato l’incendio; poi la connettività globale ha preso il sopravvento.

Per prevenire future pandemie, quindi, non possiamo contare esclusivamente su un approccio medico. Stiamo anche osservando che lo sviluppo di trattamenti, vaccini, ecc. richiede tempo. Non possiamo fare a meno di una gestione più ragionata degli ecosistemi.

È frustrante vederlo con il Covid-19. Molti di noi, all’interno della comunità scientifica e di ricerca, ci lavorano da anni… Sapevamo che sarebbe successo e cosa dovevamo fare per evitarlo.

Quando ho iniziato a lavorare sulle zoonosi nel 2004-05, non era affatto un argomento del dibattito pubblico. Poi le epidemie si sono moltiplicate: Sars, Mers, Ebola, influenza aviaria, Zika… La percezione di queste malattie è cominciata a cambiare.

Ci sono stati alcuni sviluppi positivi. L’approccio “One Health”, che considera come un tutt’uno la salute umana, la salute animale e l’ambiente, è già ben sviluppato nella scienza accademica. Al Forum di Parigi dello scorso anno, la creazione di un consiglio di esperti di alto livello “One Health” è stato un primo passo avanti. E in ottobre, al World Health Summit di Berlino, questo approccio “One Health” è stato al centro di molti lavori di ricerca.

Questo approccio ha risorse sufficienti?

No, è estremamente carente di risorse, soprattutto se confrontato con approcci medici più convenzionali. Il costo dello sviluppo di un vaccino è sproporzionato rispetto al nostro budget per la ricerca. Tuttavia, in termini di prevenzione, anche se può sembrare meno visibile, il ritorno dell’investimento è considerevole.

In un articolo pubblicato quest’estate sulla rivista Science, un team di ricercatori ha dimostrato che prevenire le pandemie costerebbe solo l’1% di quanto costano attualmente questa pandemia. Investire tra i 18 e i 25 miliardi di euro sarebbe sufficiente per ridurre significativamente l’insorgenza di malattie infettive. Questo è in contrasto con i diversi trilioni di euro che sta costando ora la gestione della pandemia…

Nel quarto Piano Nazionale Salute-Ambiente annunciato dal governo francese in autunno, i finanziamenti per la ricerca sono ancora molto timidi. E finché non si farà uno sforzo a livello internazionale, i Paesi esiteranno a investire per paura di perdere la loro competitività.

Speriamo, tuttavia, che ciò che stiamo vivendo in questo momento aumenti la consapevolezza della necessità di trovare il giusto equilibrio tra la crescita economica, la conservazione della natura e le devastanti conseguenze per la salute umana. Il Covid-19 è stato molto brutale e violento: fa la differenza in relazione al riscaldamento globale, che è qualcosa di molto graduale, e non si imprime nella mente della gente e dei politici. Molte persone nella nostra società non credono che il clima cambierà la nostra vita nei prossimi anni. Con il Covid è molto diverso.

Non ci sono misure più drastiche da adottare per rallentare la nostra crescita economica, che è direttamente correlata alla nostra impronta sugli ecosistemi?

In ogni caso, la tutela dell’ambiente deve essere presa in considerazione nel calcolo dei costi di produzione.

Dobbiamo anche introdurre moratorie sulla deforestazione. La creazione di aree protette non è una garanzia per prevenire la perdita di biodiversità. D’altro canto, è certo che la distruzione delle aree naturali provoca il declino della biodiversità.

Le attività che hanno il maggiore impatto sugli ecosistemi devono quindi essere fermate. Eppure ci sono economie locali che vivono di deforestazione. È quindi necessario trovare sistemi resilienti in cui gli attori locali possano continuare a vivere con dignità. Il business as usual non è sostenibile a lungo termine.

Non c’è uno spostamento verso l’agricoltura industriale? A novembre, in Danimarca sono stati abbattuti tra i 15 e i 17 milioni di visoni contaminati da Covid (da allora, si è dovuto riesumarne una parte di questi perché le autorità hanno temuto l’inquinamento del suolo). In Francia è stato abbattuto anche un allevamento di 1.000 animali nella regione di Eure-et-Loir. Ha riguardato anche i Paesi Bassi, la Svezia e la Grecia. Produzioni destinate all’industria dei beni di lusso e che si stanno rivelando luoghi importanti per la diffusione del virus…

In effetti, il virus è passato dall’uomo al visone, poi ha saltato di nuovo la barriera delle specie e ha trovato la sua strada nelle popolazioni che lavorano in questi allevamenti, con il rischio di introdurre una nuova variante genetica della SARS-CoV-2 contro la quale non si sa se il vaccino sarà efficace.

È noto da tempo che gli allevamenti industriali sono reattori microbici. Quando un virus arriva in un allevamento gigantesco, la trasmissione è estremamente virulenta. Perché, per il virus, non c’è alcun costo evolutivo nell’uccidere il suo ospite, che viene automaticamente sostituito.

A questo proposito, lo sviluppo dell’industrializzazione e l’intensificazione della zootecnia è un problema cruciale. Se non si farà nulla per rallentare questo processo, nei prossimi anni, è nell’allevamento intensivo di bestiame che emergeranno nuove zoonosi.

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1 Commento


  • E Sem

    Forse si dovrebbe combattere le due cause che stanno minando in modo drammatico la sopravvivenza del nostro pianeta: la crescita folle neoliberista e un’ impronta demografica suicida fuori controllo degli umani.

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