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La crisi ecologica è causata (indotta) dal capitalismo

Proponiamo un articolo di Erin McCarley, giornalista e autrice indipendente statunitense, sul tema della crisi ecologica e della sua relazione con il sistema economico capitalista. L’articolo è originariamente apparso – il 16 Settembre 2022 – sul sito dell’organizzazione marxista rivoluzionaria britannica “Counterpunch“.

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La crisi ecologica è causata (indotta) dal capitalismo

Un terzo del Pakistan è sommerso dall’acqua. Le ondate di calore registrate ricoprono il globo facendo aumentare le temperature oltre quelle a cui gli esseri umani possono sopravvivere. I ghiacciai polari si stanno sciogliendo molto più velocemente di quanto previsto dagli scienziati. Siccità, incendi e inondazioni stanno devastando il pianeta, costringendo allo sfollamento decine di milioni di persone. E questo è solo l’inizio.

È tempo di dire la verità. Non possiamo permetterci di aspettare oltre. Non possiamo permetterci di fingere che lo stesso sistema politico-economico che ha causato i più alti livelli storici di distruzione ecologica nella storia umana sia lo stesso sistema che li risolverà. Qui, negli Stati Uniti, – il paese al mondo responsabile dei più alti livelli di emissioni di carbonio nell’atmosfera terrestre – abbiamo un compito politico e sociale molto difficile a cui far fronte.

Dobbiamo dire la verità sui limiti ecologici della Terra, sulle leggi della fisica e su ciò che sta causando il collasso dei nostri ecosistemi, se vogliamo avere qualche possibilità di un futuro abitabile per noi stessi, i nostri figli e nipoti. Dobbiamo dire la verità, se nutriamo qualche speranza nella civiltà umana.

Ma nell’affermare questa verità, ci troviamo di fronte a una terribile realtà politica che pochi sono disposti ad ammettere. Molti di noi comprendono la scienza. Sappiamo che la capacità del nostro pianeta di ospitare l’uomo dipende da un equilibrio molto delicato di condizioni fisiche ed ecologiche che sono state presenti solo per un breve periodo durante la vita della Terra.

La Terra esiste da miliardi di anni, ma gli esseri umani moderni, come li conosciamo, sono qui solo da circa 200.000 anni. L’umanità, dunque, è cosa di poco conto nella vita del nostro pianeta. Gli ecosistemi che supportano la vita umana sono ora in caduta libera in termini di tempo planetario.

Siamo nel mezzo della sesta estinzione di massa, ma questa volta si tratta di un evento causato dall’attività umana, dell’estrazione di combustibili fossili e dell’utilizzo insostenibile di terra, aria e acqua. Siamo in questa terribile situazione a causa di un’economia estrattiva che richiede una costante distruzione ambientale per alimentare la crescita economica.

E nonostante decenni di consapevolezza scientifica e terribili avvertimenti, i governi più inquinanti ed ecologicamente distruttivi del mondo hanno fatto poco o nulla, mentre continuano a costruire oleodotti e condurre guerre globali che arricchiscono l’un per cento della popolazione, distruggono la vita di milioni di persone e aumentano esponenzialmente le emissioni di carbonio.

Le stesse industrie che beneficiano della distruzione ecologica – Big Oil, Big Agriculture, Tech Giants, il Military Industrial Complex – hanno cercato per anni di venderci un “capitalismo più verde” come soluzione alla crisi. E ci hanno mentito. Suggerire che le abitudini di consumo individuali – lampadine, auto elettriche o l’acquisto di compensazioni di carbonio – ci salveranno in qualche modo dal disastro è una favola. Non funzionerà. Questi tentativi di aggirare i limiti del capitalismo ignorano la natura stessa del capitalismo.

Il capitalismo come sistema economico richiede una crescita costante, un profitto costante e un’estrazione senza fine per ottenere profitto. Se il capitalismo smette di crescere, smette di trarre profitto, crolla. Non è un sistema che può mai raggiungere la stasi o l’equilibrio con altri sistemi interdipendenti che lo circondano. Il capitalismo non è un sistema stabile. Deve espandersi, consumare tutto, creare profitti sempre maggiori, fino a divorare il suo ospite.

Il capitalismo è come un cancro. O come scrisse Karl Marx nel Capitale (Volume I, capitolo 15): “La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti dalle quali sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio“.

Il capitalismo può crescere esternamente in termini di guerre, interventi stranieri e accumulazione militarizzata. In effetti, come descrive il sociologo William I. Robinson dell’University of California Santa Barbara, il capitalismo globale è diventato dipendente dalla guerra per sostenersi. Oppure può crescere internamente intensificando la privatizzazione, distruggendo i diritti del lavoro, i diritti umani e le protezioni ambientali all’interno dei mercati capitalisti esistenti al fine di aprire più strade per il profitto. In questa intervista, Robinson lo descrive:

Da 530 anni a questa parte, dal 1492, abbiamo avuto un’espansione verso l’esterno: ondate costanti di colonialismo e imperialismo, che hanno portato sempre più paesi, sempre più persone nel sistema. Ora ogni paese, ogni comunità del pianeta, è integrato direttamente o indirettamente nel capitalismo globale. Non c’è più spazio per alcun ampliamento o espansione verso l’esterno. L’altro meccanismo che il capitalismo deve espandere è quello che possiamo definire espansione intensiva, nel senso che trasforma sempre più settori e sfere della società in opportunità di accumulazione. Questa è stata la privatizzazione: privatizzi l’istruzione, l’assistenza sanitaria, le infrastrutture pubbliche e la natura. Non stai aprendo nuovi territori, ma stai aprendo nuove aree

In entrambi i casi, la crescita capitalista corrisponde alla crescita della povertà, della disuguaglianza sociale e politica, della sofferenza umana e della distruzione degli ecosistemi della Terra.

Possiamo vederlo su scala globale: ovunque sia andato il capitalismo, i beni comuni ecologici sono stati distrutti. Gli indigeni sono stati uccisi o sfollati. I lavoratori vengono ridotti in schiavitù o vengono alienati dal loro lavoro e sfruttati. E’ stata creata povertà dove prima non c’era, mentre i beni comuni e la ricchezza pubblica sono stati privatizzati e consolidati dal livello più alto dell’economia.

Basta guardare alla disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza globale. Il rapporto 2022 di Oxfam ci fornisce un’istantanea: “Dal 1995, l’uno per cento più ricco [dell’umanità] ha accumulato quasi 20 volte più ricchezza globale rispetto al 50 per cento più povero dell’umanità. Negli ultimi 30 anni, la crescita dei redditi del 50 per cento più povero è stata pari a zero, viceversa i redditi dell’un per cento più ricco sono cresciuti del 300 per cento.

Tra il 2020 e il 2021, la ricchezza dei dieci uomini più ricchi del mondo è raddoppiata dall’inizio della pandemia. E si stima che in media 20 dei miliardari più ricchi emettano fino a 8.000 volte più carbonio del miliardo di persone più povere”.

Questi livelli osceni di ricchezza, questo vasto mare di povertà e tutta la repressione politica, il genocidio e le guerre senza fine che servono a mantenere questo stato di cose. Tutto questo è nato dal capitalismo, un sistema che ha privatizzato i beni comuni, uccidendo e deportando popolazioni indigene dalle loro patrie e costringendo persone ridotte in schiavitù a lavorare in condizioni di tortura, morte e reclusione.

Queste sono le origini di questo sistema politico ed economico in questo continente, un sistema che si è diffuso come un cancro in tutto il mondo. È diventato sempre più chiaro che mantenere un pianeta abitabile per l’uomo, oltre a soddisfare i bisogni materiali delle masse, è un progetto globale incompatibile con un’economia estrattiva che richiede una crescita economica costante.

Non c’è una fine logica al capitalismo se non la distruzione della terra stessa. Questa è la natura della bestia. E non c’è alcun aggiustamento marginale del capitalismo che possa modificare questa verità fondamentale. Possiamo acquistare compensazioni di carbonio. Possiamo mettere i pannelli solari nelle nostre case. Possiamo piantare più alberi. Possiamo catturare le emissioni di carbonio e ‘sequestrarle’ nel terreno.

Ma nessuna di queste strategie può eguagliare la portata della distruzione che è già avvenuta all’interno di ogni strato dell’ecosistema. Una crescita economica costante richiede un’estrazione di risorse costante. Questo non è compatibile con un pianeta vivente i cui limiti ecologici sono fissi e i cui milioni di ecosistemi interdipendenti richiedono equilibrio. Comprendere questa incompatibilità di base significa capire che il capitalismo stesso è alla radice della nostra crisi ecologica.

Qui negli Stati Uniti, queste semplici verità sul capitalismo sono completamente offuscate e smentite dai media corporativi, dall’industria dei combustibili fossili e praticamente da tutti i membri del governo perché, se la verità fosse ampiamente conosciuta, sconvolgerebbe i nostri sistemi politici. Rappresenterebbe una minaccia esistenziale per i capitalisti di tutto il pianeta che traggono profitto dalla distruzione del nostro ecosistema.

Non è un caso che gli stessi governi del mondo che rifiutano di fare qualcosa di serio per fermare il collasso climatico siano pieni di politici le cui tasche sono riempite dalle stesse industrie responsabili della distruzione. Il sistema politico-economico che causa il collasso ecologico è lo stesso identico sistema che ci impedisce di risolvere questa crisi.

E perversamente complice con i fallimenti dei governi e del mondo industriale è una cultura popolare che è stata scoraggiata dal comprendere cosa sia il capitalismo e come funzioni effettivamente. In verità, è impegnativo e sconcertante cercare di descrivere un sistema politico, economico e culturale che pervade ogni aspetto della nostra vita. È l’aria che respiriamo. Non è facile uscire dal capitalismo per vederlo oggettivamente, per comprenderne la sua logica o le leggi che lo governano. Vedere chiaramente come funziona il capitalismo è come uscire dalla matrice.

A peggiorare le cose, il nostro è un paese che ha passato tutta la sua storia a demonizzare le alternative del capitalismo, in particolare il comunismo e il socialismo. Questa demonizzazione iniziò con i primi capitalisti e colonialisti statunitensi nel loro tentativo di distruggere il comunismo delle nazioni indigene. Il genocidio dei popoli indigeni nelle Americhe non è stato motivato solo dal desiderio di impadronirsi dei loro territori.

Non furono solo le bolle papali del XV secolo a dare alle nazioni cristiane il diritto di conquistare le nazioni non-cristiane. Tutto questo era anche profondamente radicato nel distruggere l’idea dei beni comuni, il modello delle proprietà terriere comuni, del governo e della cultura comunitari.

Quindi le nazioni indigene sono state viste dal governo degli Stati Uniti come una minaccia per il capitalismo fin dall’inizio. Agli occhi del nostro impero coloniale, queste nazioni dovevano essere sradicate, non solo per il sequestro delle loro terre, ma per eliminare l’alternativa ideologica, politica e culturale che esse rappresentavano. Queste società avanzate hanno vissuto per migliaia di anni connesse e in equilibrio ecologico con la terra.

Il governo degli Stati Uniti ha etichettato le nazioni indigene come “arretrate” e “selvagge” non solo per giustificare la violenza dello stato contro di loro, ma anche come un modo per rafforzare e legittimare l’ideologia coloniale dell’espansione occidentale, del destino manifesto e del capitalismo all’opinione pubblica statunitense.

Consentire alle culture indigene di vivere in pace e sovranità era fondamentalmente incompatibile con il vasto progetto coloniale che era, ed è tuttora, rappresentato dagli Stati Uniti. Mentre le popolazioni indigene stanno ancora lottando coi propri corpi per fermare oleodotti come Keystone XL, DAPL, Line 3 e MVP (solo per citarne alcuni), possiamo vedere come la gestione indigena dei loro territori protetti da trattati, il rispetto per il bene comune di tutti gli esseri viventi e il desiderio di proteggere le generazioni future costituiscono un’ideologia coesa di equilibrio e sostenibilità, un’ideologia che rappresenta ancora oggi una minaccia per il capitalismo.

C’è da meravigliarsi se gli Stati Uniti – un paese fondato sul genocidio e costruito dal lavoro degli schiavi – stiano ancora uccidendo, imprigionando e opprimendo gli stessi popoli sulla cui terra e dal cui lavoro forzato è stata originariamente costruita tutta questa ricchezza? Oggi, sotto il nostro sistema di capitalismo razziale, gli Stati Uniti imprigionano più persone (soprattutto nere) di qualsiasi altro paese al mondo. E nel 1955, il territorio indigeno si era ridotto a solo il 2,3% della sua dimensione originale.

Gli “esploratori”, i padroni degli schiavi, i baroni briganti e i magnati del petrolio degli ultimi secoli sono ancora con noi. Il loro potere si è espanso in modo esponenziale e ora indossano abiti diversi.

Sono le forze armate statunitensi (insieme ai contractor privati che operano in tutto il mondo), la polizia e i produttori di armi, i CEO della tecnologia digitale, i dirigenti delle più grandi banche e compagnie petrolifere del mondo e una piccola manciata di multimiliardari le cui azioni tirano i fili dei burattini della maggior parte dei governi nazionali al fine di dettare la direzione della crescita nell’economia globale. Essi decidono anche le rivoluzioni sociali e politiche che devono essere stroncate per raggiungere gli obiettivi di crescita del capitalismo.

Nel 1994, dopo l’approvazione del NAFTA, il presidente del Messico Zedillo ha ordinato all’esercito di attaccare i villaggi controllati dall’EZLN (zapatista) e ha cercato di catturare i loro leader. Fino a quel momento, Zedillo aveva cercato di trovare una soluzione pacifica alla ribellione zapatista, ma questo improvviso cambiamento politico è arrivato dopo aver ricevuto una nota interna dalla Chase Manhattan Bank, che insisteva affinché il governo messicano eliminasse gli zapatisti.

Questo è solo uno dei centinaia di esempi in cui Wall Street ha dettato quali movimenti sociali e politici in tutto il mondo debbano essere schiacciati per gli interessi dei mercati capitalistici.

Inoltre, qualsiasi paese o gruppo che ha cercato di vivere liberamente e con qualsiasi grado di sovranità al di fuori della stretta soffocante in continua espansione del capitalismo ha dovuto affrontare colpi di stato sostenuti dalla CIA, massicce invasioni militari, interventi politici, blocchi economici e assassinii dei suoi leader.

Dall’URSS, Libia, Vietnam, Corea, Cuba, Cile, Nicaragua, Venezuela e Bolivia (solo per citarne alcuni) sino ai paesi più piccoli e poveri come Grenada e Laos, qualsiasi tentativo di governo anticapitalista o rivoluzione politica su scala più piccola è stato incessantemente attaccata e sovvertito dalle forze imperiali statunitensi che lavorano in tandem con i capitalisti globali. Queste rivoluzioni, questi esperimenti sociali e politici, costituiscono ciò che Noam Chomsky una volta chiamò “la minaccia di un buon esempio”.

E all’interno degli Stati Uniti, qualsiasi movimento sociale che abbia tentato di organizzare soggetti e partiti politici che avanzano alternative al capitalismo/colonialismo è stato ferocemente attaccato, a partire dal 1492 con il genocidio delle popolazioni indigene fino alla repressione delle ribellioni degli schiavi dal 1600 in poi. E a partire dalla fine del 1800, i partiti politici socialisti/comunisti statunitensi e i movimenti sindacali sono stati violentemente repressi.

Alcuni esempi nella storia degli Stati Uniti: il massacro di Haymarket (1886), il Pullman Strike (1894), il massacro di Ludlow (1914), le incursioni di Palmer contro gli IWW (1917), i molteplici imprigionamenti di Eugene Debs e gli attacchi al Partito socialista, la battaglia di Blair Mountain (1921), le liste nere sotto il maccartismo (anni ’50), l’esecuzione di Julius ed Ethel Rosenberg (1951), gli attacchi implacabili contro le Black Panthers e il movimento degli indiani d’America da parte del COINTELPRO dell’FBI in collaborazione con le polizie dei singoli stati; l’incarcerazione di Angela Davis, Assata Shakur, Bobby Seale, Huey P. Newton, i Chicago 7, i Panther 21, gli assassinii di Malcolm X, Fred Hampton e MLK.

Quindi eccoci qui, amici e compagni, all’interno del “Ventre della Bestia”, come una volta Che Guevara descrisse gli Stati Uniti. E siamo circondati da strati e strati di indottrinamento capitalista, dai miti dell’eccezionalismo statunitense, da suprematisti bianchi e narrazioni coloniali, da una propaganda costante, che mira ad impedirci di riconoscere e mettere in discussione l’idea di base che questo sistema politico-economico potrebbe essere la causa di così tanta sofferenza globale, nonostante questa sia diventata così grande e potente da minacciare la sopravvivenza della nostra stessa specie.

Da giovane studente universitario molti anni fa, ho avuto il privilegio di studiare sociologia con John Bellamy Foster, uno dei sociologi marxisti più famosi negli Stati Uniti, che ha trascorso una vita a documentare il rapporto del capitalismo con la distruzione ecologica. Nei suoi corsi, ero spesso circondato da altri studenti di sociologia che, parlando della crisi ecologica, facevano eco al ritornello della cultura dominante: “Se gli esseri umani non fossero così avidi, non saremmo in questa situazione!

Sebbene comprenda la frustrazione che porta a questa affermazione, la storia umana non la supporta in alcun modo. Non riesco a contare le volte, nel corso degli anni, nelle quali ho ascoltato l’argomentazione secondo la quale “l’umanità è uguale all’avidità”. Ho molti amici indigeni che non accetterebbero di buon grado l’idea dei suprematisti bianchi che le loro culture resilienti e testate nel tempo, che hanno vissuto in relativa armonia con la Terra per migliaia di anni, non sono ancora riconosciute nella definizione popolare di “umanità”.

Per qualcuno descrivere l’intera umanità come avida, senza aver mai ricercato o sperimentato nessuna delle alternative al capitalismo, rappresenta una sorta di miopia auto-rafforzante che può solo condurci sempre più in profondità nella tana del coniglio, in un tunnel che si sta rapidamente restringendo e volge al termine.

Inoltre, questo mito dell’ “umanità uguale all’avidità” è una maschera progettata per nascondere il fatto che il capitalismo premia e riproduce solo le peggiori qualità della natura umana, mentre ci fa morire di fame e ci depriva delle nostre migliori qualità: i nostri istinti naturali verso la cura reciproca, verso la solidarietà, verso il mutuo soccorso e la costruzione di comunità.

Anche la maggior parte di noi, umani, possiede queste buone qualità, ma queste qualità umane collaborative non sono ricompensate finanziariamente o politicamente sotto il capitalismo. Il volontariato, gli atti di gentilezza verso gli estranei: queste attività possono esistere come hobby all’interno del capitalismo.

Sono socialmente approvati, purché si svolgano al di fuori degli orari del nostro lavoro salariato e purché non minaccino le strutture di potere che mantengono il sistema. O nelle parole dell’arcivescovo brasiliano Dom Helder Camara: “Quando alimento i poveri, mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri hanno fame, mi chiamano comunista“.

Dobbiamo ampliare le nostre menti e i nostri movimenti se vogliamo sopravvivere. Contro ogni previsione, contro ogni indottrinamento, dobbiamo immaginare un futuro diverso, al fine di crearlo. Anche all’interno di questa società che rifiuta di vedere oltre i propri muri economici, i propri paradigmi capitalisti autocostruiti, dobbiamo essere abbastanza coraggiosi e onesti da cercare la verità, da capire che il capitalismo non è inevitabile.

Non è che un tipo di economia con determinate caratteristiche, che può essere sostituito, proprio come è stato istituito. Non sarà facile. Richiederà niente di meno che una rivoluzione politica, sociale ed economica globale. Ma se non riusciamo a trovare il coraggio e la solidarietà internazionale per intraprendere questo viaggio insieme, il capitalismo ci divorerà, tutti noi. Se non possiamo immaginare e progettare collettivamente un futuro al di là del capitalismo, allora non ci sarà un futuro che ci includa.

Parte dalla comprensione del sistema in cui viviamo e quali sono le leggi che lo governano. Inizia con lo studio delle alternative del capitalismo (socialismo, comunismo e anarchismo) per avere la teoria e la comprensione delle economie politiche alternative.

Sappiamo perché quelle parole che iniziano per “S” e “C” sono state demonizzate in modo così uniforme nel corso della storia degli Stati Uniti: perché le tattiche di terrore rosso sono sempre uno strumento della classe dirigente e perché questi strumenti stanno tornando di nuovo in voga in questo momento, poiché sempre più giovani si rivolgono, con interesse, alle alternative al capitalismo. Le classi dirigenti non vogliono che vediamo oltre i muri delle nostre stesse gabbie.

Il capitalismo non è solo un sistema economico, ma un sistema politico che ci ha rinchiusi in partiti politici guidati dal profitto e cicli politici che non ci consentono mai di evolvere strutturalmente al fuori dalle nostre crisi più profonde ed esistenziali. Siamo chiari: non si tratta di votare.

Si tratta di costruire una rivoluzione, un movimento di solidarietà internazionale abbastanza grande da affrontare e sostituire il capitalismo globale. Dobbiamo imparare come i precedenti movimenti anticapitalisti sono stati distrutti, neutralizzati e sovvertiti e iniziare a imparare da quella storia prima che sia troppo tardi.

Dobbiamo lavorare insieme. Non possiamo restare nei nostri steccati, che si basano sull’identità individuale. Dobbiamo costruire una solidarietà collettiva, di classe e internazionale se vogliamo sopravvivere al caos che sta arrivando. Non importa chi siamo; le nostre lotte e la nostra liberazione sono collegate.

Le società basate sull’individualismo non possono sopravvivere a eventi di estinzione a livello di specie. Ciò richiederà il contributo di tutti (“all hands on the deck”) – che tutti noi lavoriamo insieme.

Dobbiamo renderci utili ai movimenti intorno a noi che stanno già assumendo i maggiori rischi e facendo il lavoro più duro: dai movimenti indigeni come la Red Nation, che hanno già creato programmi rivoluzionari per affrontare queste crisi sovrapposte, ai movimenti di difesa della terra e dell’acqua, a sindacati, ai movimenti per la giustizia razziale ed economica, ai movimenti contro la guerra e per la pace. Abbiamo gli insegnanti e i leader di cui abbiamo bisogno.

Dobbiamo costruire enormi reti di sostegno e assistenza a livello locale e comunitario, e, allo stesso tempo, costruire movimenti politici internazionali che possano sostituire gli stati capitalisti più corrotti.

È una strada lunga e difficile da percorrere e un progetto multigenerazionale, e non è per i deboli di cuore. Ci vorrà tutto il nostro coraggio, tutta la nostra resilienza e tutto il nostro amore per i nostri figli e nipoti. E questa strada inizia col dire la verità sul capitalismo.

*https://anticapitalistresistance.org/its-a-capitalism-induced-ecological-crisis/?fbclid=IwAR3pwfdgWXMm1riie8KQXjWiMAB4yS_m8xVAVAFXnBxxMevLDKWuge-uROQ

Traduzione a cura di: Francesca Cirillo

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    “LE NOSTRE LOTTE NON SONO SCOLLEGATE”

    Greta Thunberg ha partecipato alle mobilitazioni dei Curdi a Stoccolma e a Drotninggatan

    Gianni Sartori

    Hanno cercato in tutti i modi di delegittimarla. Anche, va detto, da parte di certa sinistra (da destra era scontato).

    Con l’ironia di bassa lega, le offese gratuite (vedi Rita Pavone), le insinuazioni stupide…

    Definendo i suoi sostenitori dei “gretini”.

    Perfino con le minacce (ricordate la volgarità violenta di quell’adesivo?).

    Invece di ringraziarla per aver scoperchiato – e quando aveva solo quattordici anni – un’evidenza che molti governanti preferivano sottovalutare: “la nostra casa, la Terra, brucia!”.

    E purtroppo non era solo una metafora.

    Forte nelle sue convinzioni Greta Thunberg di questi detrattori interessati – talvolta asserviti a qualche multinazionale o compagnia aerea -sembra non essersene curata più di tanto. Proseguendo nel suo percorso, studiando, maturando e allargando il campo della sua consapevole militanza. Se in Italia aveva cantato “Bella ciao” insieme agli altri manifestanti, in Svezia si è unita al grido delle donne curde diventato slogan internazionale: « jin jiyan azadi ». Ha infatti partecipato alla manifestazione di Stoccolma indetta per protestare contro l’assassinio di Nagihan Akarsel,la giornalista e femminista curda uccisa il 4 ottobre nel Kurdistan del Sud da una squadra della morte, presumibilmente collegata al MIT (servizi turchi).

    Ha poi partecipato anche a un’altra manifestazione che si è svolta nella strada più frequentata della città di Drotninggatan, rispondendo all’appello del Consiglio delle donne curde di Amara. Nello striscione di apertura del corteo una precisa richiesta per le istituzioni, sia della Svezia che dell’Europa: “Smettetela di vendere armi alla Turchia”. Lo stesso messaggio riportato nel cartello inalberato dalla militante ecologista che ha così commentato la sua partecipazione e quella dei suoi amici: “Oggi siamo venuti qui per sostenere la giusta lotta del popolo curdo. L’uccisione delle donne non è un fatto nuovo, ma è importante che questi delitti (in riferimento all’uccisione di Nagihan Akarsel e di Jina Mahsa Amin nda) vengano condannati e abbiano una grande risonanza. Quanto è accaduto in Iran è sotto gli occhi del mondo ed è una cosa positiva. Tali massacri non devono costituire l’unica ragione per risvegliarsi e reagire, ma io credo che queste ribellioni alimentano la speranza. Le nostre lotte, se pur in contesti diversi, non sono scollegate le une dalle altre”. Dopo aver definito “molto coraggiosi i Curdi che lottano”, ha proseguito sostenendo che “saremo sempre al loro fianco. Oggi, dovunque nel mondo, lo slogan « Jin Jiyan Azadi » esprime la lotta del popolo curdo e la resistenza delle donne”. Aggiungendo che anche “la lotta per la difesa dell’ambiente è una forma di resistenza” e che le donne “sono un tutt’uno con la natura”. Per concludere tuttavia con un filo di amarezza: “molta gente non vorrebbe che le donne siano un tutt’uno con la natura. Perfino tra gli ecologisti talvolta…”.

    Gianni Sartori

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