Martedì, contestualmente alla conferenza COP30 (30ª Conferenza delle Parti sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che sta avendo luogo in questi giorni a Belém in Brasile, è scoppiata una nutrita protesta da parte di comunità indigene e attivisti per il clima, che ha visto dozzine di manifestanti – appartenenti soprattutto a comunità amazzoniche – forzare l’ingresso della cosiddetta “Blue Zone”, riservata agli addetti ai lavori.
Già nei giorni precedenti una flottiglia di circa cento imbarcazioni, guidata da leader indigeni come Raoni Metuktire e Davi Kopenawa Yanomami, aveva navigato per migliaia di chilometri lungo il Rio delle Amazzoni per portare il proprio messaggio alla COP30.
Lo scontro con le forze di sicurezza è stato, come prevedibile, immediato e violento, e le guardie hanno usato tavoli e barriere improvvisate per fermare la marea umana che stava provando a entrare nel centro conferenze. Alcuni portavano cartelli con slogan come «Our land is not for sale» (“La nostra terra non è in vendita”) e «We can’t eat money» (“Non possiamo mangiare denaro”), denunciando in questo modo l’impatto devastante dell’agricoltura industriale su larga scala, l’estrattivismo minerario e petrolifero senza limiti che affligge in nome di un presunto “sviluppo” i territori che queste comunità abitano da secoli e il disboscamento massiccio delle loro terre.
L’episodio non solo rappresenta un indubbio salto di qualità nel processo di tensione crescente tra popolazioni indigene e istituzioni internazionali e governi in merito a come vengono gestite le conferenze climatiche e le politiche ambientali – accusando fondamentalmente i “potenti” di non includere nei processi decisionali proprio coloro che vivono sulla propria pelle gli effetti più catastrofici dei cambiamenti climatici (uno degli slogan urlati era “Non possono decidere per noi senza di noi“) – ma riafferma al contempo con forza che esistono precise responsabilità politiche, storiche ed economiche soggiacenti la crisi climatica a cui assistiamo.
In questo senso l’odierno linguaggio coloniale del potere si cela, quindi, dietro narrazioni sviluppiste – in cui lo sviluppo è sempre economico e mai umano – di cui le comunità indigene pagano il prezzo più alto.
Sinteticamente, la protesta mostra chiaramente che la COP non è solo “una conferenza tecnica”, come i media e i governi vorrebbero far credere, ma anche un’arena politica e di conflitto – dove questioni di giustizia climatica, diritti territoriali e lotta all’impoverimento relazionato al cambiamento climatico entrano in gioco.
Ma non è tutto. L’articolazione del problema da parte delle comunità amazzoniche chiama in causa un intero modo di produzione e di distribuzione della ricchezza, proponendo al tempo stesso che il punto di vista indigeno – basato su un’interazione “densa” e reciproca con l’ambiente circostante (non solo “uso della natura” ma “co-abitare con la natura”, “gestione” più che sfruttamento, “cicli” più che “linee continue”) – possa diventare un nuovo paradigma per ripensare la giustizia climatica e sociale e dare contributi molto importanti alla lotta contro la crisi ambientale in atto, tanto per quanto riguarda la mitigazione (cioè riduzione delle cause) che l’adattamento (cioè gestione degli effetti).
A tal proposito, l’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB), pur non avendo organizzato questa protesta specifica, ha rilasciato una dichiarazione in cui ne sostiene le motivazioni, affermando di sostenere “l’autonomia di tutti i popoli di esprimersi liberamente” e ribadendo che “la risposta siamo noi“.
Al contempo un coordinatore della Global Youth Coalition ha spiegato che i manifestanti non agiscono per cattiveria, ma per disperazione, nel tentativo di proteggere le loro terre e il fiume Amazonas da una distruzione imminente che minaccia la loro stessa sopravvivenza, riaffermando quel ruolo di “protettori della Terra” che da qualche decennio queste comunità hanno adottato nella narrazione di sé a livello globale.
Sulla stessa linea di pensiero un’altra istanza dei manifestanti riguarda il riconoscimento della protezione delle foreste e dei territori indigeni come parte fondamentale della lotta al cambiamento climatico.
Sebbene le possibilità concrete di essere ascoltati all’interno dei luoghi di potere – nonostante la facciata – siano remote, queste comunità ci mostrano oggi la necessità di ribaltare un modo di produzione basato sullo sfruttamento umano e ambientale e ci indicano la strada per ripensare il modello di sviluppo dominante, valorizzando ideali di giustizia sociale non basati unicamente sulla logica del profitto.
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Stefano
Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, ci si accorgerà che non si può mangiare il denaro
Da Bolsonaro Lula la posizione del governo brasiliano per quanto riguarda l’Amazzonia non è mutata.