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Uomini e no, di Elio Vittorini

Cosa fu l’Italia dal 9 settembre 1943 al 25 aprile del ’45? Cosa diventarono le città e anche i borghi ridotti a lager fra coprifuoco, fame, vessazioni, delazioni e carcere, sevizie, mattanze di civili inermi? Quei venti mesi d’occupazione hanno un responsabile ideologico, politico, militare: il nazifascismo. E hanno nomi propri, a cominciare dai tanti criminali che non pagarono per le atrocità commesse. Commesse da molti. Da chi comandava e ordinava e dalla manovalanza della morte, le Schutz Staffeln. Ma anche da quei ‘ragazzi’ di Salò che il revisionismo storico in questi anni cerca di giustificare. E che ricevono ancora doni da istituti della Repubblica che il loro servile operato filo-tedesco non ha certo contribuito a costruire. Nelle scorse legislature c’è chi ha proposto di assegnare una pensione ai reduci di quel triste servaggio. Pensione per cosa? Per essere stati antropofagi, direbbe il giovane pur affamato che guardava “lo sbarbatello con la testa di morto sul berretto” consumare il pasto accanto ai corpi inermi degli assassinati di Largo Augusto (‘Uomini e no’ LXXI). Lo racconta Elio Vittorini in quel manifesto morale alla coscienza di essere uomini che è il suo celebre libro. Che non lascia scampo ai ragazzi di Salò, non offre attenuanti perché non ne avevano. Perché come i loro padroni nazisti rifiutavano d’essere uomini. Sceglievano di fare i cannibali per tremila lire al mese. Per mangiare carne e formaggio e frutta e burro e marmellata e pane bianco tre volte al giorno mentre si moriva di fame. Tutti avevano fame eppure c’era chi si rifiutava d’essere un cannibale, il coetaneo dello sbarbatello piuttosto non si nutriva ma mai avrebbe vestito la divisa del disonore per mangiare sui cadaveri dei fratelli. Basta rivederle le facce di quelli che lo stesso graduato chiamava idioti in tante foto che i filo nostalgici rimettono in circolazione per giustificare la verde età dei saloini. Costoro erano incapaci d’intendere e di volere? E’ probabile per qualche giovanissimo caduto nelle grinfie del reclutamento fanatico e forzato di un Mussolini in quei mesi più che mai fantoccio nelle mani del Führer.  

Chi non s’arruolava finiva nei campi nazisti e non tutti avevano la coscienza e il coraggio di ribellarsi e salire in montagna. Ma la minore età non assolve dallo scempio compiuto coi rastrellamenti, le torture, gli assassini di patrioti. E di donne e di bambini. La scorciatoia di calzare il basco della morte diventava scellerata. Perché l’esaltazione della morte è tutt’altro che ‘bella’ come ha voluto far credere Mazzantini in un libro di ricordi sul suo triste passato: solo chi non ama la vita può esaltare la morte. Non c’era nulla di epico nei trapassi degli esaltati o sprovveduti che si riducevano a fare gli scherani dei nazisti cacciando, catturando, uccidendo partigiani. Affiancando le SS anche nelle stragi di civili. Macchiandosi d’una vergogna incancellabile. Dice, in una memoria sulle ultime terribili ore del partigiano Dante Di Nanni, il comandante gappista Giovanni Pesce “In questa guerra ognuno ha fatto la sua scelta. Né a lui né all’altro hanno messo in mano un fucile senza spiegare perché. Ciascuno ha scelto in piena coscienza la parte dove stare e paga i debiti che ha contratto”. Quel porcile che fu la Repubblica Sociale di Salò istituì addirittura il corpo delle SS italiane, mutuando dall’alleato-padrone l’acronimo del crimine. E mentre faceva versare sangue  innocente la propaganda repubblichina parlava retoricamente di Patria e Onore. La Patria era venduta alle truppe della Wehrmacht che l’occupavano, e l’unico onore che conobbero i Pavolini, Graziani, Borghese fu quello d’obbedire asserviti ai tiranni germanici. Potranno smentire quello che accadeva in quei mesi a Milano i tanti infoiati del revisionismo di giorni nostri? Non possono farlo. Di quel passato di lutti parlano i morti e le testimonianze di migliaia di vittime, i loro figli e nipoti. Non è fantasia ciò che Vittorini narra. Esisteva Cane Nero, si chiamava Franco Colombo, ex sergente della Milizia, che aveva messo su la famigerata Legione Ettore Muti con caserma in via Rovello. Un’accozzaglia di assassini e avanzi di galera lasciata libera dal questore di Milano di spargere terrore per la città.

Squadre della morte, ecco cos’erano le strutture al servizio delle Waffen SS, compresa la Guardia Nazionale Repubblicana, le Brigate Nere, la X Mas tutte sotto la tutela di Kesserling. Torturatori e assassini come Colombo erano Melli e Finizio del CIP, e Fiorentini che agiva nell’Oltrepò pavese con una struttura denominata Sicherheitsabteilung. E c’era il capitano Clemm si chiamava Theo Saevecke, occupava l’hotel Regina di via S. Margherita, quartier generale milanese della Gestapo. Si serviva del cosiddetto macellaio Gradsack, e lì ‘lavoravano’ i sanguinari Otto Kock, sottufficiale Gestapo, e Franz Staltmayer, detto la belva, armato di nerbo e cane lupo. Altrettanto vera è la morte impartita senza ragione e lasciata in mostra, com’era costume nazista. Il 16 agosto 1944: tre ferrovieri fucilati allo scalo di Greco, il 21 sei gappisti all’aeroporto Forlanini. Il 10 agosto quindici partigiani in Piazzale Loreto. E i ragazzi di Salò erano lì con le loro facce criminali o ebeti, coi fucili spianati a obbedire, a fare la guardia ai morti. A consumare il loro pasto di carne, mentre le carni degli italiani putrefacevano al sole. Cannibali. Chi si vanta d’essere stato un ragazzo di Salò potrebbe spiegare la propria antropofagìa? Potrebbe ricordare a quale cadavere d’italiano assassinato faceva la guardia?  Accadeva a Milano nel terribile 1944. E nei mesi seguenti non andò meglio. Fra le polizie dette private, ma ispirate e foraggiate dalla Repubblica Sociale tramite Buffarini Guidi, si ricorda per spietatezza e zelo la banda di Pietro Koch già operante in Roma nella pensione Oltremare e in quella Jaccarino. Alberghi trasformati in centri di sequestro, interrogatorio e tortura per antifascisti e anche semplici cittadini non appartenenti a nessuna organizzazione resistenziale. A Milano Koch agiva nella zona di San Siro a villa Fossati, dove coi suoi sgherri  fraternizzavano gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. La banda Koch operava sequestri e sevizie, quindi metteva i prigionieri in mano ai Kappler e Priebke, ai Sevecke e Colombo che li fucilavano alle Ardeatine, all’Arena, al Giuriati. In quel manipolo di criminali c’era un monaco benedettino don Ildefonso Troya Epaminonda che copriva con le note di Schubert le urla dei torturati, mentre Armando Tela, Francesco Argentino, Francesco Belluomini picchiavano con bastoni chiodati e catene.

A guerra finita non tutti pagarono. Sadici torturatori come Giuseppe Bernasconi, Renzo De Santis vissero impuniti. Altri aguzzini i dalmati Duca Masè, Giorgio Mattesich, Niccolò Novack fecero perdere le proprie tracce e potrebbero essere ancora vivi. Come i fiorentini Romeo Nucci, Carlo De Santis, Nestore Santini, e Vasco Nebbiai di San Giovanni Valdarno che hanno trascorso i loro giorni nei luoghi natii.  Di queste terribili vicende ne sono pieni gli attuali libri di storia. Ma la memoria in un futuro prossimo potrebbe sparire perché avanza quel revisionismo che cela, muta, stravolge i fatti accaduti. Tanto da presentare alle nuove generazioni la scelta partigiana e quella fascista di Salò come casuali, immotivate, indifferenti come l’adesione del tifoso a una squadra calcistica. Il Ministro dell’Istruzione Moratti propone di ritoccare i programmi di storia contemporanea così da far dimenticare la resistenza e la liberazione dal nazifascismo. Ma nel testo di Vittorini c’è di più. C’è la spiegazione del senso etico che animava chi stava dalla parte della libertà e della democrazia, Il partigiano che metteva a repentaglio la sua esistenza lo faceva per l’altrui e la propria felicità. Perché nessuna cospirazione o rivoluzione può avere senso se gli uomini non possono essere felici (VII). Poi negli ultimi tragici passi si delinea la sorte del comandante gappista Enne 2, preso dallo sconforto e dal cupio dissolvi perché svuotato da una lotta feroce che tanti compagni gli ha fatto perdere, perciò scoperto decide di attendere nel suo appartamento l’arrivo dei fascisti. Pur nel dubbio, nella tristezza coniuga il destino segnato con l’unica strada praticabile: combattere (CXXVIII). Venderà cara la pelle come il patriota Di Nanni. In quelle condizioni si poteva solo combattere, e pur nelle giusta rivendicazione d’una vita privata, d’una felicità propria non si poteva prescindere dalla riconquista collettiva della libertà, dello stato di diritto, della dignità umana.

Brani e ricostruzioni storiche tratte da:

Elio Vittorini, Uomini e no, Mondadori, Milano, 1972

Massimiliano Griner, La banda Koch, Bollati Boringhieri, Torino, 2000

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