“Gli eroi son tutti giovani e belli” scrivono su un manifesto dedicato ai mai redenti “ragazzi” di Salò i nostalgici d’Italia. Lo stile non è affatto nuovo, quei campioni del plagio che sono gli ultimi squadristi mascherati della galassia panfascista ripetono meccanicamente ciò che i padri missini hanno fatto per decenni nel dopoguerra: impossessarsi di simboli e parole d’ordine popolari, uno per tutti il Fronte della Gioventù che era stata un’organizzazione giovanile partigiana.
La patetica appropriazione dei versi gucciniani non potrà mai ingentilire gli sciagurati che vestivano il basco con la testa da morto. Quelli erano assassini, fanatici, vili, infatuati, nel migliore dei casi raggirati. O semplicemente opportunisti che s’adattavano a ogni crimine pur di mangiare abbondantemente, come ricorda un passo dell’immortale “Uomini e no” di Vittorini trattato in questo sito proprio un anno fa. Cibarsi alla maniera antropofaga di altri italiani, quelli che trucidavano. Questo è stato “l’eroismo” di cui possono vantarsi. In occasione del 67° anniversario della Liberazione proponiamo la recensione critica, scritta nel dicembre 2003, d’un libro cult della narrativa revisionista del nostro Paese che è stato l’apripista per successive rivisitazioni della Storia. Forse seguendo queste pagine e la folta schiera di cantori del post fascismo presenti su quotidiani e tivù il manipolo di Lotta Studentesca che nei giorni scorsi contestava un combattente della libertà ha trovato il suo “Papà castoro” narratore d’una storia di comodo. Auguriamo anche a loro un buon 25 Aprile di libertà, quella che i partigiani hanno donato al popolo italiano, con la raccomandazione di non abusare della bontà di questo Stato di diritto. __________________
IL SANGUE DEI VINTI, di Giampaolo Pansa
RIFLESSIONI
Della fatica di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti” (Sperling & Kupfer, 2003) ne è felice esclusivamente la Destra politica. Quella nostalgica del mai morto fascismo filo e post, che però litanìe simili le aveva già scritte, tanto da offrire al giornalista di Casale Monferrato le fondamenta bibliografiche del suo libro. E quella “perbenista” che dà più fiato alla revisione della storia. Sul modello delle non nuove teorie di Nolte e Irving (per i quali il massacro di sei milioni di ebrei perpetrato dal nazismo non sarebbe mai avvenuto) si sostiene che il fascismo non è stato una dittatura; non ha seminato morte per conquistare il potere e conservarlo per un ventennio; non ha praticato assassini di massa con le guerre mercenarie e coloniali spingendo poi il popolo italiano nel baratro del conflitto mondiale.
Insomma le pericolose amenità diffuse sulle pagine del Corriere della sera da Galli della Loggia e dagli editorialisti Mieli e Romano, solo per citare i più ostinati manipolatori, che trovano il sostegno anche di riviste come “Nuova storia contemporanea” diretta da Francesco Perfetti.
Ignorare la condanna della storia
Il libro, sull’onda dell’attuale moda revisionista, stravende. Escludiamo che Pansa l’abbia pubblicato per bieco interesse economico: con tutto quel che ha guadagnato, fra attività editoriale e giornalistica, non ne aveva bisogno. Cerchiamo di capire il fine dell’iniziativa.
La motivazione che l’autore pone in apertura ha il sapore d’una giustificazione nient’affatto originale, una sorta di riesumazione dorotea degli opposti estremismi. Dichiara “Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità compiute da tedeschi e fascisti, mi è sembrato giusto far vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica Sociale Italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassini di cui furono vittime”.
Dunque il navigato curatore di altri racconti a sfondo storico guarda gli effetti senza risalire alle cause e finisce per porre sullo stesso piano dittatori e oppressi, squadristi, partigiani e vittime civili riesumando la teoria dei morti tutti uguali.
Se si usa come metro la categoria dello spirito la morte può omologare e unificare gli uomini e le loro sorti. Non può, invece, pacificarli né renderli simili perché ciò che essi hanno compiuto in vita segna la loro differenza anche dopo il trapasso. La fine del dittatore Mussolini non è stata e non sarà mai eguale a quella d’un combattente della libertà. Sono morti per intenti opposti, come opposta è stata la loro esistenza: l’una segnata da soprusi e oppressione, l’altra dall’affermazione di pace e democrazia .
E non si tratta di separare alla maniera manichea bene male, ma di non dimenticare i fatti e il giudizio della storia come effetto di “ciò che riguarda … tutti gli uomini del mondo che si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi”.
Ignorare gli insegnamenti della storia
Pansa tralascia un altro essenziale insegnamento della storia: la consequenzialità dei fatti. Chiunque la studi sa come molte vicende si susseguono con frequenti legami e ripercussioni. Spesso qualcosa accade perché in precedenza è accaduto altro e, per violenze e vendette, tale consequenzialità è ancora più stretta. Perciò sarebbe quantomeno singolare – se non fosse voluto e fazioso – parlare della resa dei conti col fascismo e coi suoi sostenitori più fanatici senza considerare quanti soprusi, oppressioni, violenze, assassini, lutti il regime mussoliniano produsse in venticinque anni: due di squadrismo pre-marcia su Roma, ventuno di dittatura e altri due di miserrimo servilismo al più feroce regime della storia moderna: lo stato nazista .
La stessa recente definizione di guerra civile che molti storici, anche non revisionisti, danno ai terribili mesi dal settembre ’43 all’aprile ‘45, pare impropria. Seppure si combatté fra italiani non ci fu uno scontro di un popolo diviso in due: la componente concentratasi a Salò non aveva più alcun legame con la popolazione se non quello imposto dal terrore e non avrebbe potuto sostenere alcun conflitto se non fosse stata protetta dall’esercito tedesco. L’Italia visse, dunque, una guerra di Liberazione fra i tedeschi occupanti affiancati dall’esercito fantoccio della Rsi e le truppe anglo-americane coadiuvate dai partigiani che miravano a liberare la penisola.
Non accettare le conseguenze di una tragedia
In verità durante la narrazione l’autore ricorda diverse stragi nazifasciste sui civili e sui patrioti del Comitato di Liberazione Nazionale offrendo egli stesso la spiegazione della finale violenza sui vinti causata da quell’odio verso il fascismo radicato in due generazioni d’italiani oppressi.
Ma prevale in lui, non sappiamo se per gusto della provocazione o per una tardiva fascinazione verso le tesi revisioniste, l’intento di fare il martirologio dei fascisti eliminati, dando fiato anche ai più screditati falsificatori di parte: l’attuale deputato di An Antonio Serena, recentemente distintosi per la divulgazione fra i suoi colleghi parlamentari di pubblicazioni osannanti a uno dei boia delle Fosse Ardeatine, il capitano delle SS Priebke. Oppure il saloino Giorgio Pisanò, sostenitore della tesi di 45.000 vittime della repressione antifascista. Quando è appurato che gli uccisi del periodo 1943-fine 1946 furono al massimo 12.000.
Non si tratta comunque di tenere una macabra contabilità: alcune decine di migliaia di vittime in meno non attenuano i termini della fermezza della vendetta. La questione è se si vogliono comprendere le cause di una dura risposta dei vincitori che trovava, per motivi menzionati dallo stesso Pansa, una vastissima eco popolare. Se in alcuni casi prese il sopravvento una vendetta personale e privata anziché una giustizia collettiva, è un discorso che nulla toglie al diffuso desiderio di punire nel modo più duro chi aveva sconvolto la vita italiana per un quarto di secolo.
Antifascismo e insurrezione?
Ai conti col fascismo Pansa aggiunge negli ultimi capitoli del libro un’ulteriore teoria: i partigiani comunisti nei mesi successivi alla fine del conflitto cercarono di colpire anche i capitalisti e gli altri nemici di classe. Così il giornalista getta in un unico contenitore vendette contro i criminali di guerra, vendette contro i semplici fascisti (cosa significasse nei terribili mesi di occupazione non è dato sapere, visto che si finiva al muro o in un lager anche per la spiata d’un semplice fascista), vendette di classe, vendette private, azioni banditesche a sé stanti. Certo parecchi fascisti e grassatori implicati col regime vennero ricercati ed eliminati con metodi diretti . Anche perché dal 1946 la giustizia italiana non ammetteva più per costoro alcuna punizione. Non fu possibile praticare quello che Simon Wiesenthal attuò nei confronti di alcuni criminali nazisti fatti rifugiare in America latina dall’organizzazione Odessa. Alcuni furono catturati condotti in Israele processati e condannati a morte.
In Italia dal ‘46 la situazione mutò profondamente a tal punto che i reduci della Rsi, in barba alla Costituzione già riorganizzati nel partito neo-fascista del Msi, ebbero la possibilità di riapparire in pubblico. E iniziarono a organizzare un’attività eversiva contro la neonata democrazia con tanto di neo-squadrismo armato . Da quel momento furono i partigiani comunisti a essere incriminati per le epurazioni compiute e vennero costretti a riparare in Cecoslovacchia e Jugoslavia.
Se Pansa vorrà indagare (non è un segreto Spriano, Fiori avevano iniziato a farlo) sulle posizioni classiste nel Pci post-resistenziale che si trovò a confliggere col realismo togliattiano, può farlo. Emancipandosi però da teorie scarsamente attendibili come quella di Zaslavsky e Aga-Rossi su un presunto disegno del gruppo dirigente del Pci d’indebolire con eliminazioni fisiche la borghesia per poi sostituirla. Tesi surreale visto che la linea togliattiana, pur con la sua tradizionale doppiezza, non lasciò mai spazio nel periodo post-bellico a posizioni insurrezionaliste, attuando una linea riformistico-partecipativa.
Anche Secchia e Longo, in quella fase critici col segretario, presero sempre le distanze dalla cosiddetta “malattia del mitra”, una scorciatoia militarista che incarnava più lo spontaneismo ribellistico che programmi realisticamente rivoluzionari . Se quest’ultimi fossero praticabili e a che prezzo lo si dovrà commentare storiograficamente con ricerche e studi, impegnandosi a realizzarli con rigore. Le congetture e le interpretazioni scandalistiche come quelle degli ultimi capitoli del “Sangue dei vinti” non aiutano la ricerca storica.
Da don Calcagno a Farinacci, da Colombo a Koch
Seguiamo alcuni passi della romanzata storia di Pansa non per esaltare sangue e vendette bensì per capire gli eventi, ricordando i casi di fascisti la cui fine risultò tragica com’era stata la loro vita.
Il seminatore d’odio don Tullio Calcagno, direttore della razzista Crociata Italica e il suo mentore e protettore Farinacci, violento squadrista della prim’ora e poi ras di Cremona, sono due delle prime vittime ricordate da Pansa. Basta rileggere i truculenti proclami che apparivano su quel foglio e si comprende perché per loro giunse inesorabile il momento del giudizio.
Quindi due torturatori che agivano per conto dei nazisti sotto la Repubblica Sociale: Franco Colombo, organizzatore a Milano di una polizia privata intitolata a Muti. Pietro Koch, creatore di luoghi di reclusione e sevizie nelle pensioni Oltremare e Jaccarino di Roma e nella villa Fossati di Milano. Con lui decine di accoliti fra cui spiccavano Tela, Trinca e gli attori Valenti e Ferida, uccisi dai partigiani dopo il 25 aprile. Scrive Massimiliano Griner nel suo documentato lavoro La banda Koch
“… Delle percosse, bastonature staffilate, sul corpo ignudo con cinghie e catene: quelli erano metodi ordinari, che qualsiasi aguzzino fascista poteva usare. Roba da dilettanti … Koch era per i metodi straordinari, per le torture “scientifiche”. Era un esteta del supplizio. Gli piaceva veder soffrire. Le grida di dolore dei torturati, gli davano brividi di godimento, la vista del sangue lo inebriava”.
Sulle dicerie di Pisanò, secondo cui durante i giorni della Liberazione un certo numero di fascisti vennero gettati negli altiforni delle fabbriche di Sesto San Giovanni, non c’è traccia non solo di documentazione ma neppure di testimonianze.
Brigate nere: quei teschi sui berretti
Della morte assegnata a tali Dainotti, Baldi, Bianchi e poi Adami, Fiorentini e altri uomini delle Brigate nere spiegano ampiamente i motivi due passi tratti dal romanzo Uomini e no.
LXIII I morti di largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro marciapiede, i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di sapere altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa.
CII Quello dal grande cappello e dallo scudiscio scosse allora il capo. Egli aveva capito. Fece indietreggiare i militi fino a metà del cortile, e raccolse uno straccio dal mucchio, lo getto su Giulaj. “Zu! Zu! Piglialo!” disse al cane. E al capitano chiese “Non devono pigliarlo?” Il cane Blut si era lanciato dietro lo straccio, e ai piedi di Giulaj lo prese da terra dov’era caduto, lo riportò nel mucchio. “Mica vorranno farglielo mangiare” Manera disse. I militi ora non ridevano, da qualche minuto. “Ti pare?” disse il Primo. “Se volevano toglierlo di mezzo” il Quarto disse “lo mandavano con gli altri all’Arena”. “Perché dovrebbero farlo mangiare dai cani?” disse il Quinto. “Vogliono solo fargli paura” disse il Primo. Il capitano aveva strappato a Gudrun la pantofola, e la mise sulla testa dell’uomo. “Zu! Zu!” disse a Gudrun. Gudrun si gettò sull’uomo, ma la pantofola cadde, l’uomo gridò, e Gudrun riprese in bocca ringhiando, la pantofola. “Oh!” risero i militi. Risero tutti, e quello dal grande cappello disse “Non sentono il sangue”. Parlò al capitano più da vicino “No?” gli disse. Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per un ordine del capitano, e quello dal grande cappello agitò nel buio il suo scudiscio, lo fece due e tre volte fischiare. “Fscì”, fischiò lo scudiscio. Fischiò sull’uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui. L’uomo nudo si tolse le braccia dal capo. Era caduto e guardava. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna Gudrun sentì il sangue.”Fange ihn! Beasse ihn!” disse il capitano. Gudrun addentò l’uomo, strappò dalla spalla.”An die Gurgel” disse il capitano.
L’albero di Solaro e gli alberi-forca di Bassano
Come ricorda Claudio Pavone nel suo saggio storico Una guerra civile sulla moralità nella Resistenza: la Rsi introdusse la pratica delle pubbliche esecuzioni e dei cadaveri, degli impiccati e dei fucilati lasciati a lungo sul posto.
A Giuseppe Solaro , fanatico capo del Pnf Torino (organizzatore, mentre la città veniva liberata, della “battaglia dei cecchini” che offrì l’ennesimo spargimento di sangue innocente di trecentoventi fra cittadini e partigiani) viene restituita quella “festa della forca” – la definizione è di Pansa – tanto cara al fascismo repubblichino. Altra testimonianza viene da Mario Isnenghi nella raccolta di saggi curata da Ranzato Guerre fratricide.
L’elemento preminente e ricorrente appare comunque quello della pubblica esposizione del cadavere. Anche l’esposizione ha le sue regole, di tempo e di spazio. Bisogna che il macabro memento mori penzoli a lungo, per ore e anche per giorni, dall’albero, asta o lampione da cui ostenta la sua impotenza “Ero un ribelle. Questa è la mia fine!” dicono i cartelli attaccati ai cadaveri dei giustiziati di Arten, Quero, Cornuta, Alano, Oné di Fonte, Levada, Onigo, Pederobba, Cavaso, Crespano, Bassano e di tutti i paesi che fanno corona al Grappa nei giorni del disastroso rastrellamento del massiccio, alla fine del quale si conteranno centinaia di fucilati, impiccati e appesi vivi a un gancio di macellaio, oltre ai caduti in combattimento e ai deportati in Germania. Da tutti i paesi dei dintorni, le madri dei giovani alla macchia accorrono trepidanti a Bassano, quando si sparge la voce che, appesi ai minuscoli alberi di viale Venezia, coi piedi che quasi toccano terra, ce ne sono altri 31 senza nome.
Egualmente dopo la Liberazione a coloro che Pansa definisce “belve in gabbia”, e belve lo erano state, e in gabbia c’erano finiti dopo la cattura partigiana, veniva riservato il trattamento che i partigiani avevano subìto a opera dei nazifascisti. Ancora un passo di Isnenghi.
“Il morituro può essere legato alla cabina o alla fiancata dell’autocarro, con la faccia rivolta verso l’esterno, e così esibito lungo le strade che portano al luogo dell’esecuzione. Si può – come a Genova – fucilare nei forti della cintura e poi mandar giù il camion con le casse da morto ad attraversare la città. Oppure è il camion stesso con i boia e i condannati che si sposta di paese in paese – vero e proprio Carro di Tespi della morte – sin quando ciascun condannato è stato appeso al suo albero e buttato fuori dal camion, che prosegue la corsa sino al prossimo arresto. Un episodio di Paisà ha fissato l’immagine di un’altra pratica della scenografia della morte, che affida alla corrente dei fiumi la mobilità e la visibilità delle spoglie del ribelle, legato alle tavole … ”.
Così leggendo della morte di Vezzalini torna alla mente la strage del 15 novembre 1943 (gli otto antifascisti fatti prelevare dalle carceri e uccisi vicini al fossato del Castello Estense di Ferrara) rievocata nel film di Florestano Vancini La lunga notte del ‘43.
I simboli di morte e pacificazione
I simboli della morte sono da sempre l’emblema dei regimi che disprezzano l’uomo e la sua vita, il fascismo italiano si distinse e fece scuola in Europa. Se ne ricordano i lugubri labari e gagliardetti, le funeree canzoni , ma soprattutto la prolungata pratica dell’assassinio .
Nessuna organizzazione partigiana italiana teorizzò la violenza fine a se stessa. Quando ci furono episodi di violenza privata su prigionieri si trattò di casi isolati, mai diretti politicamente, e vennero repressi e duramente biasimati. Come altre devianze individualistiche: i furti, ad esempio. Ancora Pavone: “La severità contro gli atti di banditismo compiuti dai partigiani è grande, e le fonti ce ne attestano la più dura applicazione”.
Certo, nel concitato periodo successivo alla Liberazione, si verificarono anche episodi discutibili, come l’uccisione a sangue freddo di 54 fascisti operata nelle carceri di Schio da una decina partigiani. In quel caso l’attenuante delle stragi naziste avvenute nei dintorni (Forni, Pedascala) nei mesi precedenti e il martirio di due partigiani del luogo, Germano e Giacomo Bogotto, di cui si ritrovarono i corpi straziati dalle torture non aiutano a comprendere l’eccesso repressivo che assunse i contorni di un’incondizionata vendetta. Seppure una folla inferocita nei giorni precedenti aveva cercato di assaltare le carceri per linciare i fascisti. E ad eccidio avvenuto una buona parte della cittadinanza lo considerò un atto di giustizia verso i tanti martiri della libertà.
Avrebbe meritato senz’altro punizioni severe una moltitudine di gerarchi e camicie nere che invece riuscì a farla franca . Anche per quell’azione di pacificazione che fu la citata amnistia del giugno 1946 che portò alla scarcerazione di oltre 40.000 fascisti . Tra loro c’erano parecchi criminali di guerra. Due nomi per tutti: il capobanda dei torturatori della X Mas, Junio Valerio Borghese, e il macellaio d’Etiopia Rodolfo Graziani che il democristiano Giulio Andreotti negli anni Cinquanta portava al fianco nei comizi elettorali nei collegi della Ciociaria.
In fondo la Storia e i vincitori si sono dimostrati assai più clementi di quanto Pansa, Pisanò e i loro amici revisionisti vogliano far credere.
Enrico Campofreda, dicembre 2003
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Qualche libro per approfondire
P. Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Einaudi, Torino, 1975
G. Bocca, “Storia dell’Italia partigiana”, Laterza, Bari, 1977
L. Borgomaneri, “Due inverni, un’estate e una rossa primavera”, Angeli, Milano, 1985
P. Spriano, “Le passioni di un decennio”, Milano, 1986
C. Pavone, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri Torino, 1991
G. Ranzato, “Guerre fratricide”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994
G. Bocca, “Storia d’Italia nella guerra fascista”, Mondadori, Milano, 1996
L. Borgomaneri, “Hitler a Milano”, Datanews, Milano, 1997
H. Woller, “I conti col fascismo”, Il Mulino, Bologna, 1997
L. Ganapini, “La Repubblica delle camicie nere”, Garzanti, Milano, 1999
D. Gagliani, “Brigate nere”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
M. Griner “La banda Koch”, Bollati Boringhieri, Torino, 2000
M. Franzinelli, “I tentacoli dell’Ovra”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
F. Germinaro, “L’altra memoria”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
R. Katz, “Morte a Roma”, Editori Riuniti, Roma, 1996
K. Klinkhamer, “Stragi naziste in Italia”, Donzelli, Roma, 1997
Aavv, Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2000
Aavv, Atlante storico della Resistenza, Mondadori, Milano, 2000
M. Griner, “La banda Koch”, Bollati Boringhieri, Torino, 2000
B. Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, Einaudi, Torino, 1978
B. Fenoglio, “I ventitre giorni della città di Alba”, Einaudi, Torino, 1986
E. Vittorini, “Uomini e no”, Mondadori, Milano, 1986
V. Pratolini, “Cronache di poveri amanti”, Mondadori, Milano, 1988
G. Fiori, “Uomini ex”, Einaudi, Torino, 1993
Qualche film per non dimenticare
“Roma città aperta”, Roberto Rossellini, 1945
“Paisà”, Roberto Rossellini, 1946
“Achtung! Banditi”, Carlo Lizzani, 1951
“La lunga notte del ’43”, Florestano Vancini, 1960
“Rappresaglia”, Gorge Pan Cosmatos, 1973
“Salò e le 120 giornate di Sodoma”, Pier Paolo Pasolini, 1975
“Novecento”, Bernardo Bertolucci, 1976
“La notte di San Lorenzo”, Paolo e Vittorio Taviani, 1982
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