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Gli ultimi di Kaurismaki

Dunque, la solidarietà è un principio che può ispirare le azioni.
(Hannah Arendt, da Sulla rivoluzione)

Si possono criticare le politiche migratorie col realismo poetico? Kaurismaki può.
Dopo aver visitato uno, due, tanti porti europei, il regista finlandese ha scelto l’angolo di Normandia di Le Havre per ambientare la sua storia sugli ultimi. 
“Miracolo a Le Havre” è un film prezioso ed essenziale. E infastidisce come solo i grandi sentimenti sanno fare, quando superano l’imbarazzo delle illusioni (e una volta ancora la traduzione italiana del titolo ingentilisce il contenuto crudo del solo nome, laddove l’originale era il connotante Le Havre, l’italica ipocrisia sente l’urgenza di edulcorare il contenitore e il contenuto con la parola miracolo).
E’ la storia dell’incontro tra il lustrascarpe Marcel Marx (la suggestione del nome!) e Idrissa, ragazzo arrivato dal Gabon in un container con l’intenzione di raggiungere Londra. Ma di più, è la storia della solidarietà tra gli ultimi che, sola, riesce a muovere il mondo. 
Kaurismaki non alza mai i toni, non limita la sua osservazione all’indignazione, fa di più: la spinge alla lotta, che sempre, per gli ultimi, è lotta quotidiana. 
Porta lo spettatore in un tempo senza tempo, in una Francia contestualizzata solo dai telegiornali che scandiscono la contemporaneità sugli sgomberi dei campi per migranti, ma che potrebbe essere qualsiasi paese industrializzato in qualsiasi decennio di questo secolo o del secolo scorso: è Le Havre ma potrebbe essere Ellis Island. E’ un giovane del Gabon, potrebbe essere un italiano dei primi anni del Novecento. E’ l’ “altro” che viene e determina la paura del diverso e una negata ospitalità.
Kaurismaki ha negli occhi l’inumano trattamento riservato ai migranti, lo ipostatizza nell’immagine della polizia che punta i fucili all’apertura del container e nei volti secchi, autentici e silenziosi della famiglia africana arrivata lì dopo settimane di navigazione clandestina, e ancora nella visita di Marcel Marx al centro per immigrati dove è stato condotto il nonno di Idrissa, moderni e inaccessibili campi di concentramento, dove gli ultimi scontano le conseguenze delle politiche neocoloniali dell’Europa.
Il regista raccoglie a due mani tutta la gamma di tonalità calde dello spettro dei colori e lascia che l’atmosfera surreale e fiabesca faccia da contorno alla resistenza etica della responsabilità.
La responsabilità è sempre responsabilità verso l’altro. E’ la responsabilità di Marcel per Idrissa, ma prima di Arletty, moglie devota, verso di lui e ancora del quartiere di baracche e disoccupati che riscopre nell’ospitalità il valore della ‘comunità’. Marcel rinuncia ai suoi pochi beni per Idrissa e come chi non ha più niente da perdere, assume sulle proprie spalle l’orgoglio del fare. 
Kaurismaki disegna questa mappa di resistenza con corpi scavati dalle rughe e dalla fatica, nobili nella tenerezza che solo certi concerti slabbrati di cantanti caduti in disgrazia sanno dare. 
E’ un’estetica del tirare indietro: tavole di poco cibo, case di mobili vecchi, armadi vuoti di abiti, botteghe piene di debiti.
In questa autenticità Idrissa, figlio di un professore del Gabon, che conosce le buone maniere e vuole raggiungere la madre, esule a Londra e costretta a un lavoro in nero in una lavanderia cinese, rivendica a bassa voce l’unica rivoluzione che non teme sconfitte, quella del dono. 
In questo piccolo gioiello di Kaurismaki c’è anche un profondo omaggio al cinema, nel volto irriconoscibile di Jean-Pierre Léaud (attore feticcio di Truffaut) che ricopre il ruolo del vicino schiacciato dalla paura che spia e denuncia (sintesi della lotta tra poveri: la legge punisce il clandestino, ma anche chi lo aiuta), il volto scavato di Jean Pierre Darroussin, il commissario irrealmente umano che scavalca il limite tra pubblico e privato, garantendo a Idrissa la possibilità di continuare il suo viaggio (il privato è politico). 
Certo non è la realtà, e per fortuna, non è nemmeno il tutto già visto dei Dardenne (Welcome), è, piuttosto, il mai banale sguardo sulle contraddizioni.
Marcel, nel suo volto nobile, non accoglie Idrissa a braccia aperte, riassume come Derrida il nesso strettissimo tra ospite e nemico, ma gli dona, sempre seguendo Derrida, «l’esperienza dell’altro come altro, il fatto che lascio l’altro essere altro».
La doppia natura della parola (l’hospes e l’hostis: l’ospite e il nemico) diventa la scommessa di un doppio finale, comunque aperto. Non sapremo se Idrissa riuscirà a raggiungere Londra, né se Arletty sia davvero guarita dal suo cancro. 
Sappiamo però che l’unica speranza di a-venire è nell’esperienza dell’ “altro”.

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