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Diaz, i registi della macelleria messicana

Vittorio Agnoletto, forse sentendosi tuttora depositario del copyright del Genova Social Forum, ha accusato il film di furbizia, commercialità, parzialità nel mostrare quel movimento. Insomma di valutazioni opinabili, come questa dell’ex portavoce del Gsf. Poi ha puntato il dito sulla carenza maggiore: non aver reso esplicita durante la narrazione l’identità dei responsabili diretti (Mortola, Canterini, Fournier e colleghi) e indiretti (La Barbera, Colucci, De Gennaro e altri). Questo si poteva fare perché esistono condanne, assoluzioni e prescrizioni sebbene l’ultimo atto del percorso giudiziario è atteso per la metà del mese di giugno con la sentenza della Cassazione cui è ricorsa la difesa degli imputati dopo l’Appello del 2010 che gli aveva inasprito le pene. Ciò che invece non è cronachisticamente praticabile, come al solito per mancanza di documentazione – e torniano al pasoliniano “Io so. Ma non ne ho le prove” – è ricostruire la cabina di regia di quella sospensione di democrazia individuale e collettiva che è continuata e prosegue, ahinoi, con varie forme nei confronti dell’antagonismo sociale.

Nel caso dei fatti di Genova però degli indizi ci sono. Insieme a spostamenti, dichiarazioni, ammissioni e ritrattazioni fissano responsabilità politiche all’interno di una linea con cui il secondo governo Berlusconi interpretava il mandato popolare. L’antefatto è il successo elettorale del 13 maggio 2001. Una vittoria schiacciate sul terreno del controllo dell’Istituzione legislativa che grazie al premio di maggioranza vide la coalizione collezionare 282 deputati su 475 alla Camera, 176 senatori su 315 al Senato. Un pieno inebriante per chi era assetato d’ogni sorta di potere. La coalizione formata da Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega Nord, Centro Cristiano Democratico, Nuovo Psi preparava aria di rivincita dopo aver dovuto digerire per un quadriennio un allontanamento dal Palazzo che bruciava più del tradimento bossiano responsabile della fine anticipata del primo governo della XII° legislatura. La vetrina mondiale del G8, collocata in una città storica ma difficilmente gestibile sul fronte dell’Ordine pubblico, faceva da anticamera a un ambizioso en plein: ospitare il summit, ricevere la contestazione di un movimento in ascesa qual erano i No-global, autorizzarne la collocazione logistica e le attività politiche compresi i cortei, escludere a essi l’uso di buona parte della città (zona rossa), blindarla e segregare al tempo stesso la cittadinanza. Tutto ufficialmente per due giorni, di fatto molti di più.

Le manìe di grandezza e la presunzione del premier italiano, il servilismo di subordinati politici (il ministro degli Interni Scajola) e di alleati governativi (il vicepremier Fini e il ministro della Giustizia Castelli) oltre che dell’intero gruppo di famiglia dell’Esecutivo compirono il disastroso capolavoro che, pur avendo epiloghi tragici già con l’assassinio di Carlo Giuliani, coi diffusi pestaggi di manifestanti, con quelli fascistoidi della Diaz e le torture sudamericane di Bolzaneto, potevano registrarne anche di più catastrofici in fatto di vittime. Le indagini condotte dalla magistratura non hanno mai potuto parlare delle responsabilità dei politici in questione perché nulla risulta a loro carico. Certo il vicepremier Fini in un contraddittorio televisivo serale col leader di Rifondazione Bertinotti nel giorno in cui fu ucciso Giuliani e si stava svolgendo l’operazione Diaz ripeteva meccanicamente “… c’è stata la violenza studiata a tavolino da gruppi criminali che hanno fatto di tutto per cercare di ottenere il morto”. Peccato che sull’asfalto di piazza Alimonda restasse il cadavere del ventitreenne Carlo. Nella notte fra il 21 e 22 luglio il ministro della Giustizia Castelli visitava la caserma di Bolzaneto diventato luogo detentivo. Lì le squadrette del Gruppo Operativo Mobile del suo dicastero, esperte in trattamenti di detenuti, si esibivano nei repertori di pestaggio didascalicamente descritti nel film. Il ministro leghista dichiarò di non essersi accorto di nessuna anomalia, sebbene sui giovani arrestati già sanguinanti e feriti venissero perpetrate sevizie e umiliazioni cui si prestava anche il personale sanitario del Corpo penitenziario.

L’improvvido ministro Scajola nel febbraio 2002 sostenne d’aver dato l’ordine di sparare sui manifestanti per oggettive ragioni di sicurezza contro possibili azioni di terrorismo internazionale (al G8 partecipavano i capi di Stato delle super potenze). Più tardi, davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato, ritrattò sostenendo di aver solo ordinato di “alzare il livello delle misure di sicurezza all’interno della zona rossa”. Per mesi l’Esecutivo e i ministri cercarono di aggirare l’ostacolo delle accuse nei confronti della gigantesca prova di forza messa in atto contro il movimento e le stesse velleità dell’opposizione parlamentare interna. Che, mentre concentrava l’attenzione su ulteriori aggiramenti delle norme da parte del leader della coalizione di centrodestra, quando dovette esprimersi su una commissione d’inchiesta formata per indagare sui fatti vide, ad esempio, l’Italia dei Valori votare contro la proposta. L’onorevole Di Pietro motivò il voto contrario perché la commissione avrebbe “rivolto l’indagine esclusivamente sulle violenze delle Forze dell’Ordine”. In 11 anni il Parlamento nazionale ha evitato in ogni modo una riflessione politica sui criminosi comportamenti di ufficiali e organi dello Stato.

Eppure le sentenze dei processi, quella di 1° grado del 13 novembre 2008 più benevola per gli accusati sosteneva che “in uno Stato di diritto non è invero accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tale entità, anche se in situazioni di particolare stress” per quanto escludesse “complotti ai danni degli occupanti (della scuola Diaz, ndr), spedizioni punitive o rappresaglia”. Ma il dispositivo d’Appello del 18 maggio 2010 recita “Non è possibile descrivere i fatti come la somma dei singoli episodi delittuosi occasionalmente compiuti dagli operatori indipendentemente l’uno dall’altro in preda allo sfogo di bassi istinti incontrollati; al contrario trattasi di condotta concorsuale di singoli agenti tenuta nella consapevolezza che altrettanto facevano i colleghi, coerente con le motivazioni ricevute dai superiori gerarchici e con l’esplicito incarico di usare la forza per l’arresto di pericolosi soggetti violenti…” “La responsabilità di tale condotta è peraltro ravvisabile in capo ai dirigenti che organizzarono l’operazione e che la condussero sul campo, trattasi di responsabilità commissiva diretta per condotta concorsuale con quella degli autori materiali delle lesioni…” .

Non è molto per l’individuazione su chi ordinò i giorni e il grado di repressione e sospensione della democrazia ma è un buon punto d’inizio. Sebbene la Cassazione dovrà ancora dire la sua chi si occupa d’informazione e divulgazione può porre una domanda ai tre politici citati: “Onorevoli, guardando questo film cosa avete da dire in vostra difesa?”

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1 Commento


  • enrico campofreda

    Grazie della precisazione. Con “premio” intendevo impropriamente indicare il vantaggio accumulato in virtù del Matterellum (la legge 276-277 del 1993) che prevedeva un 75% di maggioritario e le seguenti attribuzioni secondo un recupero del proporzionale per chi avesse superato il 4% alla Camera e del 25% al Senato per i più votati fra i non eletti. Non volevo però entrare nel cervellotico meccanismo che alcuni politologi, per indicarne la mostruosità, definirono “Minotauro”. Mi premeva sottolineare il clima che, con quel pieno di eletti e la maggioranza nei due rami del Parlmento, il governo Berlusconi II andava diffondendo. Quel sentirsi autorizzato a relizzare ogni tipo d’azione e di abuso. Quell’uso personalistico delle Istituzioni ribadito negli anni successivi con leggi ad personam agevolate dall’introdiuione del Porcellum (legge 270 del 2005).

    Quanto al risdoganamento, stavolta da parte del centrosinistra, di Fini non capisco né mi adeguo all’iniziativa. Io continuo a vederlo col braccio metaforicamente teso, oltreché impelagato in affarismi di clan e di casta. Per nulla diverso da altri ex le cui furbesche maschere non riescono a celare il rapporto passato e presente con la nostalgia del fascio delle proprie radici. ecam

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