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12 dicembre, non un giorno qualsiasi sul calendario

Oggi è il 12 dicembre, una data che non sarà mai un giorno qualsiasi del calendario. La strage del 12 dicembre, la strage di Stato in Piazza Fontana a Milano, rimane infatti uno snodo storico e politico fondamentale per capire il paese in cui viviamo.
Il quarantaquattresimo anniversario della strage di Piazza Fontana aggiunge alla rilevanza della memoria storica e della valutazione politica il crisma dell’attualità. In questi anni abbiamo affermato che la verità giudiziaria sulla strage del 12 dicembre 1969 a Milano è ormai seppellita sotto due processi e la contraddittoria sentenza definitiva del secondo. Una lapide definitiva è stata calata a ottobre di quest’anno su ogni residuo filone d’indagine sulla strage di piazza Fontana. Il Gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo, valutando i quattro filoni d’inchiesta aperti dalla Procura di Milano successivamente alla sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 è arrivato alla conclusione che “non si può continuare ad indagare all’infinito” e dunque ha archiviato ogni possibilità di riaprire indagine.

La sentenza del 2005 afferma infatti che i colpevoli erano quelli giudicati innocenti nel primo processo (i fascisti Freda, Ventura etc.), mentre gli accusati del secondo (i fascisti Zorzi, Maggi etc) sono stati scagionati. Ma i primi sono stati già giudicati e quindi non possono esser processati una seconda volta per lo stesso reato. Una lapide su ogni anelito di verità che potesse uscire dalle aule di un tribunale. Dunque, sulla strage di Piazza Fontana rimangono solo la verità storica e la valutazione politica per cercare di capire, spiegare e affermare un giudizio che resti nella memoria collettiva del paese e che lasci tracce sufficienti per le generazioni future.

Quella di Piazza Fontana non era stata la prima bomba ad esplodere nel quadro della guerra sul fronte interno messa in cantiere dal 1966 contro la sinistra e i movimenti dei lavoratori. Altre bombe erano esplose prima sui treni e in altri luoghi, ma Piazza Fontana, nel 1969, è stata la prima bomba a fare dei morti. Altre ne seguiranno tra il 1974 e il 1984 a Brescia, sul treno Italicus, a Bologna, sul treno 204 e poi verranno le bombe “mafiose” (?) del 1992/93. Il nostro paese è stato attraversato da una guerra di bassa intensità che ha fatto morti, feriti, migliaia di detenuti politici, leggi d’emergenza. Una scia di eventi che hanno segnato e segnano tuttora la struttura istituzionale e le complicità politiche nel paese.

Il quadro che emerge dalla seconda inchiesta sulla strage di Piazza Fontana – riaperta dal giudice Salvini – e dal secondo processo per l’eccidio di Milano chiama direttamente in causa nella strategia delle stragi i servizi segreti militari USA, soprattutto quelli di stanza nella base del comando FTASE di Verona. Questi attraverso i loro agenti italiani (Digilio, Minetto, Soffiatti) agivano in modo coordinato con le cellule neofasciste di Ordine Nuovo e con gli apparati dello stato italiano nella “guerra sul fronte interno” contro i comunisti, i sindacati e i settori della DC recalcitranti a trasformare la “guerra fredda in guerra civile”. L’amerikano supervisore della rete degli uomini neri ha il nome di Joseph Luongo (insieme a lui c’era anche Leo Joseph Pagnotta) ed è l’agente che cooptò nella guerra di bassa intensità anche alcuni criminali nazisti come Karl Hass (con cui Longo si fa fotografare insieme in un matrimonio). Gli “uomini neri”, cioè gli autori delle stragi, non erano più di venticinque/trenta persone organizzati su cinque cellule collocate una a Milano e quattro nel Nordest, il vero e proprio “cuore nero” del nostro paese.

L’inchiesta del giudice Salvini ha portato alla luce tutto o gran parte di quello che c’era da sapere dietro e dopo la strage di Piazza Fontana sul piano giudiziario. Ma la sentenza del 2005 per un verso, e la complice inerzia della politica (inclusi i partiti della sinistra eredi del PCI) dall’altro, hanno scientemente perseguito l’obiettivo di lasciare impunita la strage di Stato e di depistare l’attenzione su mille piste diverse che hanno confuso quella giusta. Le audizioni del giudice Salvini davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, invocavano proprio questo pericolo e questa necessità. Sul piano giudiziario si era arrivati al massimo delle possibilità di ricostruzione con nomi, cognomi, dettagli, ma molti testimoni chiave nel frattempo erano morti. Toccava dunque alla politica trarre conclusioni che la verità giudiziaria non poteva affermare. Ma la verità sui mandanti era scomoda per il potere democristiano ma anche per l’opposizione (il Pci) che scelse il compromesso storico con la DC e la subalternità agli USA e alla NATO. Quando nel primo governo Prodi (1996-2001) ci fu la possibilità di fare chiarezza (il Ministro degli Interni era l’attuale presidente della Repubblica, Napolitano) prevalse invece la decisione di lasciare la verità seppellita negli archivi e in sentenze assolutorie. Il lavoro di magistrati come Salvini e di storici come Aldo Giannuli, ha permesso di riaprire l’inchiesta ma senza risultati. Di questo occorre essere consapevoli e da questo occorre partire per una battaglia di verità storica e politica sulla strage di Stato che non deve e non può fare sconti a nessuno.

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