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Ammortizzatori umani. Recensione del film “Capitale umano”

Piccola recensione dell’ultimo film di Paolo Virzì, «Il Capitale Umano».

Il film che ha fatto incazzare di brutto la Lega è un thriller malinconico ambientato in Brianza. C’è tutto: il morto, il fondo d’investimento che punta tutto sulla rovina del paese, gli adolescenti inquieti, psicologhe che lavorano (male) in strutture pubbliche dimenticate, quel clima di generale degrado che si respira tra le nebbia e le villette isolate del nord. Ma anche ex attrici divenute mogli represse di grandi uomini di affari (o meglio, uomini di grandi affari) e scuole d’élite che fanno cene di beneficenza con menu da 5mila euro. Parenti tossici che spacciano fumo in periferia, teatri che diventano blocchi di appartamenti (forse), partite di tennis, ispettori di polizia imbolsiti e fiaccati dalla vita che interrogano ragazzine in una questura buia ma addobbata dalle luci intermittenti di Natale e la foto di Falcone e Borsellino dietro la scrivania (un magnifico Bebo Storti, da apprezzare nelle sue fugaci apparizioni).

Questo è «Il Capitale Umano» di Paolo Virzì.

Messe da parte le polemiche dei padani – così ai minimi storici che si attaccano a tutto pur di far parlare di sé -, usciti dal cinema rimane l’impressione di aver visto un bel film. Per la complessità e la struttura dell’opera scatta naturale il confronto con La Grande Bellezza. In fondo, l’obiettivo è lo stesso: Sorrentino parla di Roma, Virzì della Brianza. Tipi umani diversi, sensazioni diverse. La sindrome di Stendhal in Lombardia non può esistere: un conto è collassare davanti al panorama della Città Eterna, un altro è morire di freddo nel gelo delle piatte campagne settentrionali. Ma è solo una questione geografica, di poco conto, in fondo.

La storia si struttura in quattro episodi che narrano lo stesso arco di tempo vissuto da tre personaggi le cui storie sono incrociate, fino al finale congiunto che riannoda tutti i fili. L’evoluzione della storia è sostanzialmente perfetta, la sceneggiatura è  buona davvero, la regia di qualità. Gli attori sono di livello, danno spessore ai propri personaggi. Forse si può avere la sensazione di essere davanti a stereotipi su due gambe, ma è fiction: la vicenda è sociale (quindi parla di tutti) non esistenziale (cioè, non racconta la storia di un singolo, o più singoli), quindi appare inevitabile che, per dire, Fabrizio Bentivoglio (look e accento memorabili) interpreti il classico immobiliarista che «ci prova» mentre Fabrizio Gifuni è il finanziere spietato che gioca con i soldi (quindi, in senso marxista, con la vita) di chi gli sta intorno.

All’inizio ci scappa pure il morto, investito dal Suv di un figlio di papà (il mistero sta nel capire chi lo guidava). E la trama ruota intorno ai sei mesi precedenti a questo episodio: vite che svoltano, vite che affondano. Crocifissioni e resurrezioni. Disagio diffuso da crisi economica prolungata: come si può continuare a condurre una vita «normale» quando il paese perde pezzi?

Un paragone musicale azzeccato, a parere di chi scrive, sarebbe da fare con gli ultimi Afterhours, quelli di «Il paese è reale» e «Padania»: temi e ambientazione sono gli stessi di Virzì.  «Due ciminiere e un campo di neve fradicia»,  il «paese sa affondare» e «tu vuoi far qualcosa che serva, che è anche per te se il tuo paese è una merda». Lo spaccato è desolante: la crisi si avverte di più nelle zone ricche, perché il confronto tra la vita «prima» e la vita «dopo» è spesso impietoso: la grande agenzia immobiliare che è costretta a trasferirsi nel retrobottega senza riscaldamento di un negozio gestito da cinesi, dopo aver licenziato tutti i dipendenti, ça va sans dire. Nelle zone industriali la crisi è andata avanti a colpi di cassa integrazione, altrove gli ammortizzatori sociali non ci sono e uno può ritrovarsi ad aver investito 700mila euro un giorno ipotecando la casa per poi andare in crisi (soprattutto di nervi) perché la propria moglie è incinta di due gemelli, per dire.

Alla fine emerge la miseria dei personaggi negativi e la nobiltà dei buoni, anche se poi i primi si salvano e i secondi vanno all’inferno (almeno per qualche tempo). E il problema de «Il Capitale Umano», se di problema si tratta, alla fine è proprio la conclusione più dolce che amara: la luce in fondo al tunnel, insomma, tutto sommato si vede. Ma la realtà potrebbe essere un’altra storia.

da http://todomodoblog.wordpress.com

 

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