Racconta il mito che un giovane coraggioso di nome David, rifiutando spada, elmo e corazza ma armato di sola fionda e cinque pietre, riuscì a vincere sul tronfio e presuntuoso gigante Golia. Lo stesso giovane imbraccia oggi un AR-50A1, un grosso fucile di precisione che spara proiettili calibro 50. Aggiornamento metodologico? No, semplicemente un malriuscito capolavoro pubblicitario che però mira diritto alla più ripugnante forma di ipocrisia all’italiana: l’indignazione alternata per convenienza.
Immediata è stata infatti la sacrosanta levata di scudi verso l’azienda statunitense produttrice di armi ArmaLite, colpevole di aver avuto l’infelice idea di scegliere il David di Michelangelo come testimonial d’eccellenza per il suo prodotto di punta. Un combattivo plotone formato dalla soprintendente al polo museale fiorentino Cristina Acidini, dal direttore della Galleria dell’Accademia Angelo Tartuferi e dal neo-ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, ha lanciato un inorridito coro di diffide e di azioni legali contro la bellicosa azienda americana. Tante le accuse: “offesa che viola la legge”, “oltraggio all’arte”, “lesione della dignità culturale”, “stravolgimento del significato dell’opera”. Tutto vero. Così come altrettanto vero è che il capolavoro di Michelangelo è protetto da diritti e che l’utilizzo della sua immagine a scopo pubblicitario è subordinato al rilascio di un’autorizzazione da parte dell’ente titolare – in questo caso lo Stato italiano – e al pagamento dell’ammontare dei diritti. In un Paese misero e ingordo come il nostro, in cui il patrimonio culturale viene definito da alcune “illuminate” menti il “petrolio italiano”, la tentazione di chiederne i danni morali e patrimoniali è altissima. Ricordiamo, tra tutti i proponenti di questa infelice similitudine, Mario Pedini (DC) – emerso poi dalle liste P2 -, De Michelis (PSI) – “i beni culturali sono giacimenti culturali e come tali andrebbero sfruttati” – e non ultimi il neo ministro Dario Fransceschini (PD) insieme al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Graziano Delrio – “questo è come un ministero del petrolio in un paese arabo” -. Ed ecco infatti pronta la proposta da parte dell’assessore alla cultura di Palazzo Vecchio Sergio Givone: “richiedere un risarcimento all’azienda americana, magari anche una cifra astronomica: un miliardo di dollari, da impiegare, perché no, per restaurare Pompei, o per finanziare tutti gli interventi di manutenzione necessari nei musei italiani”. Un miliardo di dollari che quindi si andrebbe esageratamente a sommare a quei 105 milioni di euro cofinanziati dall’Unione Europea (e mai utilizzati) proprio per il sito archeologico campano, oltre a tutti quegli “investimenti” privati che tanto auspica il nuovo Presidente del Consiglio Renzi.
Contributi di ben altra consistenza sono stati invece richiesti ad un’organizzazione (che si definisce “non lucrativa di utilità sociale”) come quella del Lions Club di Firenze: soli 2.600 euro per una “cena elegante” ai piedi proprio dello stesso eroe michelangiolesco. Ci si domanda se l’evento in black tie rientri nella mission dell’associazione, ovvero in quel codice dell’etica lionistica in cui si parla di “solidarietà con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi, la simpatia ai sofferenti”. A giudicar dalle foto si direbbe proprio di no (https://www.facebook.com/media/set/?set=a.606191032775682.1073741829.563369347057851&type=1). D’altronde il motto dei lions è “we serve”, “noi serviamo”. Verrebbe da dire che siamo noi a servire loro… sì, la cena! In questo caso nessuno sdegno, nessun malumore bensì il placet di soprintendenza e direzione della Galleria.
Sempre la Toscana vede un’altra soprintendenza e giunta comunale (coincidenza, sempre PD) disponibili e diretti proponenti dell’affitto di beni comuni per eventi di dubbia congruità culturale: è il caso del Siena Sport Week, una fiera del fitness allestita nelle straordinarie sale espositive del complesso monumentale del Santa Maria della Scala, appena conclusasi il 5 marzo scorso. Quello che nei progetti più nobili di due tra i più grandi storici dell’arte italiani – Cesare Brandi e Giovanni Previtali – sarebbe dovuto diventare il Museo di Siena per eccellenza con al suo interno la Pinacoteca Nazionale e il Dipartimento di Storia dell’arte dell’Università, è diventato una palestra di zumba, di step coreography e tatami del radical trash. Cultura dunque? No, culturismo. E proprio con queste premesse Siena presenterà la propria candidatura Capitale Europea della Cultura 2019. Anche in questo caso nessuno dei sopraddetti ha sollevato dubbi etici in merito alla nuova – seppur più performante – destinazione d’uso del monumento.
Fuori dal coro degli “indignados dell’arte part-time” si colloca sicuramente lo storico dell’arte Tomaso Montanari, critico del renzismo e del suo ragionamento “democratico” sull’economia privatistica della cultura. Nel suo apprezzabilissimo libro “Le pietre e il popolo” (Minimum Fax 2013) Montanari riferisce una lunga lista di casi analoghi a quelli sopracitati, non risparmiando attacchi contro tutti coloro che con il termine “valorizzazione” hanno inteso e continuano ad intendere la monetizzazione e messa a reddito del patrimonio culturale, ovvero i cosiddetti “utilizzatori finali del passato”. E mette in guardia sull’attuale trasformazione del patrimonio culturale da potentissimo strumento di educazione e di uguaglianza quale era ad altrettanto potente mezzo di diseducazione e discriminazione quale sta diventando.
L’auspicio dunque è che il popolo torni quanto prima a riappropriarsi di tutte quelle pietre crollate sotto decenni d’omissione e che, fionda alla mano, riesca finalmente a frantumare il muro della grande ipocrisia all’italiana.
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