Recensione del libro: Mauro Van Aken, La diversità delle acque. Antropologia di un bene molto comune, Pavia, Ed. Altravista, 2013, p. 340, 28€.
L’acqua è oggi al centro di lotte sociali e di battaglie politiche di grande importanza, non solo in Italia, ma in tutto il mondo la nozione che sul controllo delle acque si giocherà una parte importante del futuro mondiale è ormai diventata uno dei ritornelli della politica. Purtroppo, la gran parte del dibattito sull’acqua perpetua una considerazione reificata di questa risorsa fondamentale, cioè la considera, come direbbe Van Aken, solo H2O, un oggetto pure importante e decisivo alla vita ma che sgorga dei rubinetti e da tubazioni sempre più nascoste alla vista, celando la vasta rete di rapporti sociali, culturali, produttivi e paesaggistici che intorno ad essa si sono mossi e si muovono. Van Aken è antropologo, dunque il suo punto di vista guarda proprio a tali rapporti e relazioni, legate soprattutto alla costruzione e alla modificazione dei territori irrigui, in varie parti del mondo ma con un riferimento particolare alla valle del Giordano dove ha condotto una ricerca sui progetti nazionali e internazionali di irrigazione.
“I modelli della modernità – secondo l’autore – hanno imposto uno sguardo indifferente alle acque, nascondendo le differenze culturali e le molteplici dimensioni del nostro coinvolgimento quotidiano con l’acqua (pag.11)”. Da questa impostazione nasce un libro interessante, che fa riflettere profondamente sul rapporto tra metodi di irrigazione tradizionali e progetti di “sviluppo” moderni, che spesso vengono riproposti dall’occidente e dalla cooperazione a prescindere dalla conoscenza dei valori simbolici, culturali ma anche economici delle comunità a cui vengono imposti, progetti “esportati come se fossero al di fuori della cultura: miti tecnici del cambiamento posti come processo “naturale” e discreto (pag.77). Van Aken sostiene invece che esista una diversità delle acque data proprio da come i diversi popoli e culture organizzano gli spazi e le relazioni umane e produttive intorno all’acqua e che ogni cambiamento delle infrastrutture idriche provochi anche un mutamento, non sempre positivo, delle società coinvolte. Questo processo è iniziato con il colonialismo quando “non si sono immesse solo nuove infrastrutture idriche, ma nuovi sistemi sociali in una dimensione inevitabilmente politica che ha portato alla destrutturazione delle istituzioni locali preposte all’acqua, alla censura dei saperi locali e ambientali, alla frammentazione dei sistemi economici che si basavano su altri modelli culturali di relazione all’acqua (pag.51)”. Un processo coloniale in cui Van Aken vede anche le responsabilità degli antropologi, spesso chiamati in causa per trovare i mezzi per “convincere” le popolazioni ad accettare la logica dei colonialisti. Non solo, ma ancora oggi, secondo Van Aken, i progetti di modernizzazione idrica proposti in molte parte del mondo incontrano l’opposizione delle popolazioni proprio perché si pongono in modo distruttivo rispetto alle pregresse organizzazioni dell’acque.
Sia chiaro, l’autore di questo libro è un esperto antropologo e quindi la sua posizione non è certo quella delle difesa a priori di tradizioni e sistemi culturali messi in crisi dalla “modernità”. Tuttavia, egli invita a considerare il valore dei saperi tradizionali intorno all’acqua, il significato dell’organizzazione degli spazi produttivi irrigui dettata dalla scarsità o dall’abbondanza d tale risorsa, sino a notare come anche le relazioni di genere possano essere condizionate da come una società considera l’acqua e da come si organizza secondo il suo utilizzo. Sulle rive di un canale irriguo, ci dice l’autore, avviene sempre un confronto politico e culturale che spesso è oscurato e che riguarda l’idea di cultura, di società, di organizzazione produttiva.
Van Aken rivolge una critica precisa anche ai progetti di agrobusiness delle diverse agenzie internazionali, nazionali, Ong e fondazioni che si concentrano da decenni sullo sviluppo delle risorse in regioni aride. Prendendo l’esempio della Valle del Giordano, cita la quantità di dati “duri” presenti nelle biblioteche e nelle pubblicazioni che ci permettono di sapere quanti cetrioli o pomodori siano stati coltivati in una sub regione di quella valle, ma che non ci diranno mai chi li ha coltivati, chi li abbia irrigati, quante famiglie abbiano fornito mano d’opera a basso costo per quella produzione.
Se, come ho scritto, l’acqua sarà uno dei temi di conflitto mondiale nei prossimi decenni, mi sembra anche importante che essa non sia solo considerata come H2O, oggetto statico, avulso dalla cultura e dalla storia dei popoli, ma che sia invece visto nella sua dinamicita economica, culturale, storica. Quindi, come scrive il nostro autore, “Se l’acqua è sempre più rivendicata come un bene comune, rimane la questione aperta di chi sia questa “comunità” e di come leggere le relazioni che diverse culture intrattengono con e attraverso l’acqua (pag. 19).
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