“Il Pane e la Morte” è il titolo del libro, frutto dell’ultimo lavoro elaborato da Renato Curcio per la casa editrice “sensibili alle foglie”, che è stato presentato il 3 giugno 2014 nella sede nazionale Inpdap occupata da diversi mesi da molte famiglie senza casa. La scelta del luogo non è neutra ma frutto di una scelta precisa. Il libro racconta e svela come e quando sempre più spesso persone in cerca di un lavoro paiono disponibili ad accettarne uno nel quale a volte lo si “scambia” con la morte. La presentazione è stata utile soprattutto per illustrare il modo con il quale si è poi operato fino alla pubblicazione del libro stesso.
Il lavoro di analisi e d’inchiesta si basa soprattutto sulla natura di un componente risultato poi altamente tossico e nocivo: “il cloruro di vinile monomero” (Il CVM (Cloruro di Vinile Monomero), gas estremamente tossico ed infiammabile, a seguito di un processo di polimerizzazione genera il PVC (cloruro di polivinile), materia plastica altamente versatile.)
Sorge a questo punto una domanda: “come si può considerare accettabile il fatto che si accetti un lavoro nel quale è possibile poi incontrare la morte?”.
A questa domanda, che trova oggi sempre più denunce e segnalazioni, cerca di dare una risposta il lavoro iniziato già da diverso tempo sotto forma di “cantieri” nei quali persone e soggetti, diversi tra loro per attività lavorativa o per specializzazione professionale, intervistano i diretti interessati sui quali si sviluppa poi l’inchiesta stessa.
Al centro di quest’attività, spiegato con buona dialettica, c’è il quesito del: “cosa narrare e come narrare”.
Questo interrogativo iniziale è spiegato molto bene sopratutto in un prologo al libro che riporta un pensiero di Giulio Maccacaro: “…Quello che le persone sentono è uno straordinario strumento di riconoscimento delle cause ambientali o sociali di malessere e malattia. Dal punto di vista epidemiologico e preventivo una corretta analisi dell’ambiente si può fare solo partendo dalla soggettività di chi in quell’ambiente vive e lavora e ne conosce la condizione”.
E’, infatti, da questo presupposto che il “cantiere” socioanalitico proposto dal lavoro di Renato Curcio ha mosso i suoi passi. Il libro propone i risultati di un lavoro d’inchiesta tenutosi a Brindisi nel 2013 sul problema riguardante lo scambio che può esserci (o già esiste) tra salute e lavoro. Cantiere al quale hanno partecipato molte persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico di Brindisi; medici epidemiologi e cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente e della salute dei lavoratori impiegati nell’azienda stessa.
Queste testimonianze hanno fatto emergere, attraverso le loro narrazioni, lo stretto rapporto che esiste fra la produzione e la disseminazione di veleni nei territori confinanti, o nelle immediate vicinanze del polo industriale stesso, con le sue Centrali termoelettriche e il Petrolchimico.
Da ciò dipenderebbe l’aumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti, come ad esempio il quartiere Tamburi nella città di Taranto confinante con lo stabilimento Ilva-Italsider, al centro oggi di un’inchiesta sulla mortale nocività e pericolosità della sua attività produttiva, spesso coperta da complicità istituzionali (Asl, direzioni e perizie sanitarie, centri di ricerca ospedalieri di notevole spessore, ecc.).
Un interrogativo su quali siano stati i dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e, quindi, porre dei rimedi alla situazione.
E’ su questo, riferisce Renato Curcio nella presentazione del libro, che attraverso testimonianze delle persone direttamente coinvolte, s’inquadra quale sia stata poi la complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo opera, l’imprenditoria sia pubblica che privata preferendo il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei cittadini.
Un altro aspetto centrale sul quale Curcio ha insistito in questo incontro è dato anche dal “silenzio” da parte dei diretti interessati che accompagna l’intera vicenda. Su quest’aspetto, e le sue dinamiche sociali, si basa anche la narrazione che viene fatta dal libro stesso. Attraverso una spiegazione che può apparire simbolica, ma non lo è per niente, quando si afferma che: “…la sofferenza non è il tumore, …bensì il silenzio!” Questa frase serve a spiegare come poi i lavoratori che iniziano ad avvertire i primi sintomi, o che si ammalino, mettono in atto un comportamento per nascondere il male, come se si vergognassero, di questo fatto. Solo poi, quando l’evoluzione della malattia “incontra” la morte, si fanno le denunce e partono le inchieste o i processi contro chi o coloro che hanno prodotto tali fatti.
La presentazione del libro avvenuta il 3 giugno scorso, secondo il mio parere, più che entrare nel merito dei singoli episodi mortali ai quali sono stati condannati molti di questi lavoratori, o almeno non solo sulla sua stessa dinamica, piuttosto su quale è stato il metodo usato per fare questa inchiesta e il relativo libro. Attraverso la formula del “cosa narrare” e “come narrare”, viene di fatto resa più vicina e meglio comprensibile la comunicazione stessa e la presa di coscienza di questa vicenda. Dice ancora Renato Curcio, a conclusione dell’incontro. “… la fonte del sapere sono le stesse persone che vivono direttamente le esperienze, da cui nasce poi e la loro narrazione”.
A noi spetta poi il compito di renderle accessibili in modo tale che si formi poi la consapevolezza di come sia possibile intervenire per limitarne i danni se non addirittura eliminarne gli effetti e le pratiche.
PS: il libro è pieno di note che dettagliano e rivelano sia alcune sentenze di condanna emesse in merito della pericolosità e nocività riscontrate, che l’evolversi delle patologie riscontrate nei dipendenti delle fabbriche oggetto della inchiesta e della narrazione.
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