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ll silenzio sul nichilismo di Godard

Il silenzio di Godard di questi anni si è fatto oggi più rumoroso: le parole pubbliche, a favore di Marine Le Pen, ci hanno ricordato una quiete, che in questi giorni si è trasformato in un muto grido:“Affinché le cose si smuovano un po’, affinché si faccia almeno finta di smuoversi un po’, se non riusciamo davvero a smuoverci. Fare finta è sempre meglio che non fare nulla”.

Ciò che stupisce di più è che in questi giorni non c’è stata nessuna polemica sulle parole di Godard.

Il regista francese, che cambiò il modo di vedere il cinema (almeno ad un livello mainstream), è stato vittima delle sue stesse provocazioni: il nulla che è scaturito dalla sua polemica, almeno qui in Italia, è il segno del legittimo nichilismo di massa, non più figlio delle elite culturali.

A Godard si potrebbe semplicemente rispondere che non c’è reazione più squallida del suo voler stupire.

La liquida e mutevole forma dell’industria culturale non riesce ad essere perforata, ed il finto senso di movimento – a cui si riferisce Godard – è racchiuso nelle sue parole: non c’è più stimolo reale, e persino la provocazione artistica sembra morire sotto i colpi di una volgarizzante opera qualunquista.

Si può intuire dalle sue parole una psicologia a noi molto nota: quella del rimpianto, della nostalgia a volte troppo forzata e conformista per scioccare l’apatico pubblico. 

Derrida, parlando del “Teatro della Crudeltà” di Antonin Artaud, diceva che qualsiasi spettacolo non potesse non essere politico: lo schieramento intimista, di tutta l’intellighenzia e delle elite culturali, ha fatto parte di una politica culturale con cui oggi dobbiamo fare i conti: la critica che si può fare a questi artisti, a questa classe, non è di tradimento, ma di resa verso questo stato di cose indotto (parliamo di un’arte sterile, inutile, e a volte, persino dannosa); di veder questo stato di normalizzazione e criticarlo con sempre meno analisi. 

Una visione orfana di un movimento, che il regista non è riuscito a portare avanti nonostante la sua emblematica autonomia. 

Le sue frasi, apparentemente sbalorditive, fanno parte di un meccanismo ormai ben conosciuto, e mi chiedo: qual’è l’ultima grande provocazione che può fare un artista?

Lo schierarsi è presentito come una forma di debolezza, di sottomissione del proprio Io artistico ad un sistema, quando, è proprio esso a spingere verso l’atomizzazione delle realtà sociali, politiche e culturali.

Forse, Godard, è un altro dissociato che aspetta di vedere da quella vetrina, che tutti conosciamo fin troppo bene, un cambiamento, un moto di realtà, per sfuggire all’omologazione eterogenea di cui tutte le realtà culturali sono vittime in questi bui anni.

Quello a cui siamo davanti è però il frutto di un pensiero molto noto: già Debord, ne “La società dello spettacolo” riesce ad invertire gli addendi del movimento rivoluzionario, dicendo che ogni moto rivoluzionario è, in realtà, all’interno dell’enorme spettacolarizzazione, reazionario.

Quello che alcuni artisti dimenticano, o che ignorano totalmente, è il fatto che un movimento di avanguardia può comprendere nel suo interno il tradizionalismo (basti pensare al movimento Les Pirimifs arrivati forse al loro apice con Gauguin), ma ricordano bene che il tradizionalismo in sé, non può essere che reazionario.

Sembra di aspettare a volte un grande progresso, di qualsiasi genere, per poter riabilitarsi all’interno di una moda: che sia essa impartita o che sia di una cultura sporca che parta dal basso è poco importante: in cerca di questa verità atavica, gli artisti oggi brancolano nel buio, senza sapere più che lo stupire, è stupire innanzitutto sé stessi.

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