Il tariffario è il seguente: euro 250 ad articolo per i mensili, euro 67 per i periodici, euro 20.80 per i quotidiani, euro 6.25 per un lancio di agenzia o una segnalazione per il web.
Questo è quello che la Federazione nazionale della stampa definisce «equo compenso» per i giornalisti freelance e precari. Il tutto mentre, chi è contrattualizzato (sono sempre di meno), godrà ancora di ricche prebende e contratto di ferro praticamente inespugnabile.
Niente di male, per carità, anzi, ce ne dovrebbero essere di più di cose del genere nel mercato del lavoro italiano, non solo giornalistico. Il problema risiede nel solito vecchio scontro, in eterna costruzione, tra i garantiti e gli spiantati. Una versione della guerra tra poveri, o meglio, tra gente che dovrebbe lottare insieme ma che non può farlo, tanto sono diverse le posizioni e le condizioni. I garantiti si disinteressano degli altri, dall’alto del proprio ‘privilegio’. Ma anche i contrattualizzati dovrebbero preoccuparsi perché un domani potrebbe toccare anche a loro. Basta guardare com’è andata a finire in tanti altri settori.
È un problema di mestiere, quello del giornalismo: per diventare ‘professionisti’ bisogna, in sostanza, smettere di lavorare. Un esempio: il freelance che va in guerra e si fa pagare a pezzo potrebbe non cambiare mai il suo status di pubblicista, mentre quello che per qualche anno viene messo a ‘passare’ – cioè, correggere, titolare e dare un senso grafico – le pagine locali della Gazzetta di Canicattì (con tutto il rispetto) senza mai scrivere una riga, ascende al rango di professionista. Oppure puoi fare l’ufficio stampa di un politico amico, che è sempre una possibilità. Niente di male, ma è follia: personalmente conosco un sacco di colleghi che da buoni giornalisti sono diventati tipografi, costretti allo smazzo quotidiano di dover ‘fare pagine’ che poi non legge nessuno, perché le notizie sono quelle che sono e a volte proprio non esistono. Vi chiedete il motivo di tanti servizi sul caldo estivo? Be’, il giornale non può mica uscire bianco. Tutto qui. Sempre con rispetto parlando.
Comunque, la norma che avrebbe dovuto salvare i precari dall’abisso in cui sono cacciati (5 euro lordi a pezzo, quando va bene) era stata preceduta da squilli di tromba e solenni proclami sull’atteso arrivo della giustizia sociale nel campo del giornalismo. In una parola: una buffonata. La lunga trattativa tra la Fnsi (il sindacato dei giornalisti, almeno di una parte di quelli garantiti) e il sottosegretario con delega all’Editoria, Luca Lotti, è finita così: 3 euro all’ora per il 60% dei giornalisti. Per favore, non facciamo battute. Si sono lamentati tutti, persino l’Ordine dei Giornalisti che, diciamo, non ha mai brillato per coraggio.
Qualcuno parla di pregiudizi di costituzionalità – e potrebbe avere ragione – ma Franco Siddi, segretario della Federazione, sostiene che «si va avanti rispetto all’esistente». E difficile dimenticare come finora l’utilità della Fnsi sia emersa soltanto quando si è trattato di far fare carriera in parlamento ai suoi massimi dirigenti, vicini per lo più a Sel o al PD. Ci si poteva aspettare che i vertici del ‘sindacato’ potessero andare allo scontro frontale con Renzi? Anche qui: per favore, non fate battute.
Intanto i coordinamenti dei freelance e dei precari, sbalorditi dal merito e dal metodo utilizzato per varare il provvedimento, hanno indetto per l’8 luglio a Roma una manifestazione sotto la sede della – ed inevitabilmente contro – l’Fnsi. Questa volta sarebbe un grave errore non esserci, che si viva di giornalismo o meno.
Il problema dell’equo compenso nasce da una questione enorme, quella della stampa in Italia. Messa malissimo, senza più soldi, con sempre meno lettori, con una credibilità ridotta ai minimi termini. Bisognerebbe farsi qualche domanda, e magari darsi pure qualche risposta. Se non si vendono più giornali un po’, certo, è colpa dei lettori che vogliono tutto-e-subito, ma un po’ è anche colpa dei giornalisti che hanno perso la loro funzione di mediatori tra la mole di notizie e ciò che è davvero di interesse pubblico. Gli editori hanno trasformato i giornali in pezzi di carta sopra i quali si mette (oltretutto sempre meno) pubblicità. E gli inserzionisti vanno tutelati. Se, facciamo per dire, Confindustria ci compra cinque pagine di pubblicità ogni settimana, il valente e intraprendente cronista è caldamente invitato a farsi gli affari suoi rispetto a certi temi, quelli più importanti.
E allora spopolano, soprattutto sulle edizioni online, gli articoli sui gattini, le tette, i pacchi, i culi, i centomila-modi-per-cucinare-i-carciofi. È la caccia al clic. Vi pare normale quello che è successo al presunto assassino di Yara Gambirasio? Importanti testate, su Facebook, mettevano link tipo «Ecco chi è il mostro». Tu dovevi cliccare e scoprirlo, solo per aumentare gli utenti unici del sito che proponeva la notizia. E lasciamo perdere quelle cose tipo il segreto istruttorio: ogni volta che escono notizie dalla procura, qualcuno apre un fascicolo per ‘fuga di notizie’, che però rimane sempre vuoto. D’altra parte, se dal ‘palazzaccio’ non uscissero più indiscrezioni il rischio di stampare pagine bianche si farebbe parecchio concreto. Così, pur di fare il pieno di accessi, si tende a pubblicare tutto subito, senza curarsi di fare qualche verifica. Questo ha portato anche a un netto calo della qualità della scrittura: bisogna scrivere tanto, non bene. Alla fine, se scrivi bene ti guardano pure male. Sei un peso, un problema.
La domanda finale è di una semplicità disarmante, manca però la risposta: vale ancora la pena?
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