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Lo strano colore delle lacrime del tuo corpo

Piomba nell’oscurità, avvolto nella cataratte della distribuzione, un altro stupendo film, che in Italia, per qualche oscura ragione, rimane intrappolato in una rete tessuta da un organismo che non vede i pregi, ma solo i difetti, ad aprirsi ad un cinema diverso, e credo, per questo, migliore.

L’étrange couleur des larmes de ton corps (“Lo strano colore delle lacrime del tuo corpo” di Hélène Cattet e Bruno Forzani) è un film bello, e forse di più, è interessante. Più che una montagna tra gli altipiani, è un’isola tra le maree; un’esperienza visuale, uno studio profondo delle immagini e dei sensi a volte complementari: come la sessualità e l’orrore, il rosso e il verde, qui si mescolano, senza dettare le regole di un gioco prestabilito, le parentele del cinema con le arti figurative e la parte buona del cinema horror italiano degli anni settanta.

Ci avviciniamo per stile di più a quei capolavori (con il dovuto rispetto naturalmente) come “le sang d’un poète” di Cocteau, che amava delineare una differenza tra il cinema ed il cinematografo, definendo l’ultimo “scrittura del movimento” quindi espressione di un linguaggio poetico.

Questa estetica, portata a volte verso un eccesso, è un po’ più sincera quando si preferisce far risaltare la tecnica ad un contenuto: i due registi belga, non dissolvono il contenuto nella tecnica (come in Godard, per esempio), e non caricano il film di superficiali esistenzialismi, ma riescono a trovare un meraviglioso equilibrio nella resa finale.

Una resa finale che però andrebbe goduta in tutto e per tutto al cinema.

Questo film non è il solo a non essere uscito nelle sale, ma fortunatamente, in questi tempi iperconnessi, riusciamo in qualche modo a giungere a conoscenza di questi piccoli gioielli.

The zero theorem” di Terry Gilliam è in quarantena da quasi un anno ormai, ne era stata annunciata l’uscita ad Aprile ed invece si sta tergiversando, si aspetta forse più domanda per questo prodotto cui il profitto è il solo ed unico mecenate.

Un caso che risalta ancora di più è il ritorno in scena di “Synecdoche, New York“, un film – bellissimo tra l’altro – che vidi molti anni fa, e che rientra nel circolo endovenoso dei distributori grazie all’inaspettato successo della morte di Philip Seymour Hoffman.

È da sottolineare con quanta poca perspicacia la polputa forma di questa industria culturale sia capace di sterilizzare nonostante il suo tentativo di impollinare le coscienze.

La spettacolarizzazione del cinema ha sempre tentato di imitare quella che per secoli è stata la forma teatrale: la turnazione di queste pellicole è di una falsità incredibile, dato che, è bene ricordare, un film può esser sempre proiettato.

È uno strano caso, quello del parallelo tra i medium di massa e i distributori cinematografici: il loro ruolo è di diffusione, eppure si ergono come scogli dall’indistinguibile sommità, su cui si infrangono i moti che cercano disperatamente di comunicare una propria, umana esigenza.

La censura che tanto abbiamo combattuto si è trasformata in una mostruosa selezione naturale, finché non costringono a cambiare le stesse idee, i metodi, lo stile e le intenzioni di tutti i movimenti, culturali e sociali, non più amputandoli, ma modellandoli per il consumo di questa orribile catena di montaggio.

La fiera della censura si è mutata in una muraglia dorata, ove ci troviamo come lo spaesato personaggio del racconto di Kafka, che osserverà per tutta la vita l’entrata del palazzo, a cui solo lui era permesso accedere.

La trasformazione di ogni movimento politico di conflitto, ad una conclusione estetica (tutto può essere esperito ad un livello estetico, ma parliamo di una mutazione genetica in cui il contenuto ideologico è completamente deviato) è un fatto indiscutibile: il gesto, verso un luogo simbolico o contro chi rappresenta la forma più bassa di quel potere (la polizia) diviene necessaria per entrare in quella forma di esistenza mediatica.

Differentemente, l’attacco che il potere sta infierendo è su un campo di battaglia totalmente diverso da quello dei movimenti: è un attacco vero, sull’aggregazione reale, e mentre noi siamo costretti a fare i conti con un fascismo burocratico, fantasmagorico, inafferrabile, che ingloba in sé gli elementi di una lotta inutile, dall’altra parte si impone la privazione ideologica, corrompendo con ideali di successo e di consumo.

Non bisogna essere degli empiristi per accettare questa verità: l’attacco agli spazi sociali e culturali, fa parte di una violenza a qualsiasi forma di associazionismo politico e intellettuale, di un processo attivo, e non spettacolarizzato da terzi.

Esistono però delle forme alternative, che sono un esempio da portare avanti, poiché dimostrano che è possibile muoversi all’esterno di un sistema e raggiungere dei risultati notevoli.

Il Teatro Valle è riuscito a creare una produzione e diffusione alternativa, come lo è di per sé il successo che sta avendo il Cinema America e la rassegna avvenuta a cura di Cinecittà Bene Comune (e parliamo solo di Roma).

Per il caso dei movimenti politici vale lo stesso: essi devono riuscire a creare una propria forma di divulgazione delle lotte, sfruttare i propri spazi per ricreare una connessione viva, reale, un magnetismo che fa parte, ed ha sempre fatto parte, di un fermento sociale, intellettuale, che abbatte le soglie della mediazione, creando al proprio interno una coscienza ideologica e non mero opinionismo.

 

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