L’Italia, si sa, è un paese incapace di fare i conti con la propria storia e, per logica conseguenza, di scarsa e breve memoria.
Se non fosse per i lavori di Angelo Del Boca e di qualche altro studioso, la barbarie del colonialismo italiano sarebbe ancora oggi edulcorata, così come edulcorate sono altre storie d’invasione, come quella dell’URSS nel corso dell’ultima guerra mondiale e dell’occupazione, sempre durante l’ultima guerra, della Grecia e della Jugoslavia. Italiani brava gente, anche quando si parla di emigrazione che sarebbe sempre avvenuta in modo legale, mentre gli immigrati d’oggi in Italia arrivano solo per delinquere e godere di immeritati privilegi, soprattutto per via clandestina.
E‘ giunto dunque a proposito il bel libro di Sandro Rinauro Il cammino della speranza, l’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra (Torino, Einaudi, 2009, pp.426, €35), che ripercorre una storia occultata: quella dell’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra. Il titolo del libro, peraltro, è ripreso dall’omonimo film di Pietro Germi (1950) e la copertina ne riporta una scena a significare che non mancarono, in passato, testimonianze su questo tema, ma, come spesso capita, furono dimenticate.
La motivazione prevalente che spinse tanti italiani a cercare rischiosi e spesso mortali “cammini della speranza” era la più naturale e legittima: la fame e la voglia di trovare un lavoro per vivere o sopravvivere. Tuttavia, spesso, questa ricerca dovette passare per vie clandestine e non furono assenti, nel gioco, vere e proprie organizzazioni criminali, come le bande siciliane che operavano in Francia per falsificare passaporti e avviare i clandestini verso aziende che, peraltro, ne facevano connivente richiesta. Il fenomeno migratorio clandestino, soprattutto verso la Francia fu tanto esteso che nel 1947 comuni frontalieri come Bardonecchia e Giaglione, giunsero a chiedere aiuto alla prefettura di Torino per avere risorse da impiegare per la sepoltura dei numerosi migranti clandestini che morivano in montagna, durante la traversata dei gelidi passi alpini innevati, affrontata spesso con abiti inadeguati, bagagli troppo pesanti e con l’aiuto di “guide alpine” pronte a battersela alla prima difficoltà o al sopraggiungere della polizia, proprio come gli odierni “scafisti”. Per diversi anni e in diversi paesi, l’immigrazione clandestina degli italiani superò quella regolare.
Rinauro è molto chiaro quando ci avverte di non essere “un seguace della popolare tesi secondo cui ‘gli albanesi eravamo noi’” perché troppe sono le differenze storiche, sociali, economiche. Tuttavia, il libro mi suggerisce alcune riflessioni che sono piuttosto legate al dibattito odierno sull’emigrazione/immigrazione. Anzitutto, rileggere la storia dell’emigrazione italiana clandestina porta a considerare come le condizioni di immigrato regolare e irregolare non siamo affatto così impermeabili l’una all’altra e come tra le due, spesso, non ci sia una cesura netta ma una continuità, un passare da una situazione all’altra. Gli italiani emigravano con permessi turistici, contando in una regolarizzazione dopo un certo periodo trascorso in un paese. Come nel caso del transito attraverso i passi alpini, quando la speranza era che il bisogno di braccia li avrebbe aiutati a trovare qualcuno disposto ad assumerli e a regolarizzare così la loro posizione.
In altri casi, il confine tra regolare e clandestino era dettato dalle condizioni di lavoro. E’ il caso del Belgio, dove molti lavoratori giungevano assunti regolarmente attraverso il reclutamento per le miniere, che avveniva con promesse false e con la descrizione di condizioni di vita e di lavoro che si rivelavano ben presto illusorie. Molti di tali lavoratori, viste le reali condizioni di lavoro nelle miniere, ne fuggivano, ma cercavano di rimanere nel paese per intraprendere altre attività, oppure tentare la strada verso la Francia o altri paesi, ma diventavano così dei clandestini. Si potrebbero fare altri esempi, ma ciò che è importante è sottolineare il dato storico della labilità del confine tra clandestino e regolare, che invece sembra assolutamente certo ed evidente a molti dei politici italiani d’oggi, tutti presi nei loro demagogici discorsi a discriminare tra immigrati “buoni” e “cattivi”, tanto più in presenza di una legge dissennata come la Bossi-Fini che mette a repentaglio la possibilità di essere un “regolare” qualora si perda il posto di lavoro (cosa tante volte avvenuta, in passato, a lavoratori italiani che diventavano, dunque, clandestini).
E’ così evidente che voler separare in modo troppo netto immigrato regolare e non regolare risponde solo a esigenze politiche; nell’Italia d’oggi come in altri paesi un tempo, spesso si giunge alla situazione di “regolari” dopo un periodo passato da “clandestini” e i rischi di ricadere in situazioni irregolari dopo un periodo di tranquillità sono sempre presenti. Ma si sa, questa è anche un po’ la politica del divide et impera o se si preferisce, dello scatenare la guerra tra poveri. Chi riesce a salire su una zattera e a conquistarvi un posto reagisce a colpi di remo in testa a chi in seguito vorrebbe trovarvi lo stesso rifugio. E’ la logica che purtroppo si sente applicare da certi immigrati ben integrati e stabilizzati che se la prendono con i nuovi arrivati, quasi che loro stessi non avessero passato le medesime vicissitudini.
Per chi, come me, ha avuto frequenti contatti con le comunità di ex immigrati italiani ora prevalentemente ben integrati (perché di questo, per esempio, si deve parlare per il Belgio), è sorprendente notare l’atteggiamento spregiativo se non razzista verso le nuove immigrazioni (e poco importa se provenienti addirittura da paesi comunitari, come la Polonia o la Romania, tanto nessuno di costoro li considera tali). E peraltro, in passato, soprattutto in Francia, l’immigrazione italiana, anche clandestina, fu utilizzata per arginare l’immigrazione algerina o africana, ritenuta “più pericolosa”.
Un altro fatto citato da Rinauro che sembra singolarmente ripetersi oggi come un tempo è il fenomeno dell’incentivazione al rientro, in termini economici, di certe categorie di immigrati regolari considerati non più “utili”. Questo accadde, in certi paesi, agli italiani, in quel fenomeno chiamato “Fortezza Europa” e si ripete oggi in diversi paesi. In tempi di crisi, la repubblica ceca incentiva i vietnamiti a rientrare in patria, la Spagna lo fa con i Romeni, il Giappone con i sudamericani. Persone che sono considerate, nel capitalismo, solo braccia da lavoro e che quando non servono più, vengono rimandate a casa con quattro soldi. E a condizione di non rientrare nei diversi paesi d’immigrazione, a rischio di venirvi considerati “clandestini”. Vero, noi non eravamo gli albanesi d’un tempo, ma certo è sempre vero che conoscere la storia aiuta a comprendere il presente.
QUESTO DICEVANO DEGLI ITALIANI NEL 1912 NEGLI STATI UNITI
Immigrati italiani in Usa
“Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.
La relazione così prosegue: “Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni
che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
Il testo è tratto da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912
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