Di fronte a certe opere, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema – non soltanto italiano – è alto il rischio di scadere nel già detto. Per quali motivi, in fin dei conti, può interessarci ancora un film come Rocco e i suoi fratelli – scontate tutte le più azzeccate e rotonde analisi teoriche sull’importanza del Neorealismo, soprattutto quelle spoliticizzanti di certi prestigiosi ambienti di critica? Che farcene dunque di un’opera, certo affascinante, ma che si appresta a compiere il cinquantacinquesimo anno di età, e che racconta un’Italia dissolta ormai dal fluire dei decenni, segnati da profondissimi cambiamenti socio-culturali? Queste sono le domande da porsi, anche quando ci si accosta ai lavori di un mostro sacro come Luchino Visconti.
Rocco e i suoi fratelli è prima di tutto un mirabile esempio di come un regista possa far affacciare lo spettatore sull’ambiente che ha scelto: nella fattispecie, sulla Milano dei primissimi anni Sessanta, centro propulsore del cosiddetto “miracolo economico” italiano. Luciano Bianciardi scriveva negli stessi anni che nel primo mattino, a Milano, ci si sveglia con “il ringhio sordo della città che ha iniziato a mordere.” La durezza delle sue fauci, pare davvero di sentirla nelle scene girate nel quartiere Fabio Filzi, dove la famiglia Parondi, appena arrivata dalla Lucania, trova il primo alloggio nell’umido scantinato di una casa popolare; così come si avverte nelle grigie strade della Ghisolfa, altro quartiere in cui si concentra il proletariato migrante, nel quale hanno luogo le scene più dolorose e violente del film. La corporeità dei personaggi è un altro elemento importante: il pugilato, il lavoro operaio, il disfacimento fisico provocato dall’alcolismo, sono tutte le vie per cui passa questa esaltazione della concretezza, quasi sempre crudele.
È quindi attraverso questi espedienti che Visconti vuole coinvolgerci nel dramma: nello scontro tra una generazione sradicata dal proprio luogo d’origine, figlia di millenni di civiltà contadina, e la nascente società industriale del nord Italia, che sta violentemente imponendosi sui modi di vita. In questo scontro si gioca la partita, o meglio, l’estenuante match tra i cinque fratelli Parondi e l’ostile ambiente sociale nel quale si trovano a vivere. Ognuno di loro deve sopravvivere al razzismo anti-meridionale, all’assenza di prospettive di vita, alle delusioni, e ognuno lo farà cercando la propria nicchia per integrarsi: chi tenterà di migliorare la propria condizione con la boxe, chi diventerà operaio all’Alfa Romeo di Portello, chi invece rimarrà schiacciato dal peso della propria incapacità di adattarsi. Fatte le debite proporzioni e valutate le diversità dei contesti storico-culturali, la vicenda di Rocco e i suoi fratelli continua oggi nella fatica, nell’indigenza, ma anche nella rabbia di altri migranti, provenienti dalle zone del pianeta immiserite dal cosidetto Occidente.
Il romanzo popolare di Visconti passa quindi attraverso il dolore, ma conclude con una nota di speranza, quella che il regista vedeva nell’organizzazione di classe e nella presa di coscienza, attraverso le quali le marginalità migranti di allora potevano riscattarsi. Se quindi è lecito il paragone, c’è chi pensa che sia così ancora oggi.
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