Una bella recensione all'ultimo film di Michele Placido sulla condizione operaia nel nostro paese.
Undici donne, undici operaie, chiuse in uno spogliatoio, dentro una fabbrica vuota, deserta, attorno a un tavolo, tra gli armadietti metallici. Devono decidere della loro condizione ma – soprattutto – di quella delle loro compagne e compagni di lavoro che sono di fuori con cartelli e striscioni ai cancelli. Questo è il contesto di 7 minuti, l’ultimo film di Michele Placido. Un film tratto da una storia vera, accaduta in Francia, a Yssingeaux, nell’Alta Loira, dalla quale Stefano Massini, uno degli sceneggiatori del film, aveva tratto un suo precedente lavoro teatrale con la regia di Alessandro Gassmann.
L’azione è spostata in Italia e ambientata nella zona delle piccole e medie fabbriche di Latina, per farne un racconto cinematografico tratto da situazioni e caratteri umani della nostra attuale condizione operaia, e femminile in particolare. La vicenda, d’altronde, ha tratti ormai comuni non solo a tante fabbriche ma anche a molti altri posti di lavoro con contratti sia a tempo indeterminato sia – soprattutto – soggetti al frastagliato arcipelago di contratti o non contratti del precariato.
Quella di questo film è la fabbrica tessile dei Fratelli Varrazzi (uno dei quali interpretato dallo stesso Placido) che stanno cedendo il pacchetto di maggioranza azionaria a una multinazionale francese. Da Parigi giunge, con il primo volo della mattina, Madame Rochette per stipulare l’atto formale di accordo con la vecchia proprietà. Questo dovrà essere poi approvato dal Consiglio di Fabbrica e quindi ratificato dal resto del personale. Le operaie delegano una loro rappresentate a partecipare come osservatrice alla stesura dell’accordo padronale. È Bianca – interpretata da Ottavia Piccolo, come nella precedente pièce teatrale di Massini –, l’operaia più esperta, con trenta anni di anzianità aziendale alle spalle. Madame Rochette ha molta fretta di concludere il tutto entro le cinque del pomeriggio, per essere la sera di nuovo a Parigi, a festeggiare il compleanno di un suo nipote.
Quando Bianca torna nello spogliatoio, tra le sue dieci compagne del Consiglio di Fabbrica, ci sono dunque poche ore di tempo per votare sì o no a quell’accordo. L’atto di cessione prevede questo: la fabbrica non chiude, non ci sarà alcun licenziamento, i turni di lavoro rimarranno immutati. La nuova proprietà chiede il taglio di soli sette minuti di pausa. Sembra un grande risultato, le delegate telefonano all’esterno, dove iniziano canti e balli, e vogliono immediatamente, compattamente votare sì, per chiudere subito l’intera vicenda e tornarsene a casa. L’unica che annuncia il suo voto contrario è proprio Bianca. Quando lei è entrata in fabbrica, la pausa era di 45 minuti, ridottasi progressivamente fino a 15. Tolti questi sette, ne rimarranno solo 8. Bianca invita le compagne a ragionare, a riflettere, prima di precipitarsi a votare sì, perché quei sette minuti in meno si trascinano inevitabilmente dietro molte altre rinunce.
Inizia una discussione tesa, drammatica, acre, a tratti violenta, con accuse, recriminazione reciproche che spacca l’organismo di fabbrica e contrappone le singole compagne di lavoro l’una all’altra. Attraverso questo aspro confronto, Placido ci mostra, anzi, compie una vera e propria vivisezione dell’attuale composizione di classe umana dentro questa realtà industriale italiana. Donne sposate, single, separate, con molti, nessun figlio, immigrate dall’Africa, provenienti dall’ex Est europeo, condizionate, ricattate, soggette ad attenzioni padronali di tipo sessuale. Una composizione umana frammentata, dispersa, i cui vuoti neanche gli slanci di affetto e solidarietà cementati in anni di lavoro in reparto riescono autenticamente a superare. Su questa divisione strutturale punta il padronato per affermare le proprie imposizioni.
Sta divenendo sempre più un fatto di cronaca quotidiana la recrudescenza padronale su controllo, rigida regolamentazione, riduzione, negazione delle pause lavorative, siano esse tra i turni, per il pasto o per i bisogni corporali. Una recrudescenza che tocca dunque non più soltanto la sfera fisico-meccanica esterna della forza lavoro, ma direttamente quella biopsichica più intima. Un bio-potere pervasivo che vuole appropriarsi dell’accresciuta componente sensibile, culturale, intellettiva e immateriale che ogni lavoratrice, lavoratore porta oggi all’interno del processo lavorativo, senza che essa sia loro minimamente riconosciuta.
Una vicenda cinematografica resa viva dalle undici attrici che formano questo sfrangiato ventaglio di classe e che sono: Cristiana Capotondi (Isabella), Ambra Angiolini (Greta), Fiorella Mannoia (Ornella), Violante Placido (Marianna), Ottavia Piccolo (Bianca), Clémence Poésy (Hira), Maria Nazionale (Angela), Balkissa Maiga (Kidal), Luisa Cattaneo (Sandra), Erika D'Ambrosio (Alice), Sabine Timoteo (Micaela). A completare un cast tutto al femminile c’è inoltre Anne Consigny nel ruolo di Madame Rochette. Donne che – riprendendo il celebre canto di protesta delle mondine tra le risaie “Se otto ore vi sembran poche” – potrebbero ora intonarlo ai più intimi minuti di vita che vorrebbero loro strappare via.
È importante che un regista e un attore italiano di successo come Michele Placido – invece di dedicarsi a copioni che sarebbero certamente più redditizi per lui – porti sullo schermo temi legati alla condizione della resistenza operaia sul fronte del lavoro. Se pensiamo anche a un altro film operaio, quello del regista inglese Ken Loach I, Daniel Blake, vincitore di Cannes 2016, una cosa colpisce: il lavoro vivo non appare più sullo schermo cinematografico. Appare invece, e come, in un film sul lavoro precario più crudele ambientato tra Nettuno e la zona Tuscolana di Roma. È Sole Cuore Amore di Daniele Vicari, presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma. Un altro film da non mancare e del quale Stampa Critica ha già scritto.
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Federico
Ripesco questa recensione perché solo di recente sono riuscito a vedere questo film e devo dire che mi è piaciuto abbastanza. Lo schema narrativo fa più che un'allusione al capolavoro del 1957 di Sidney Lumet "La parola ai giurati", però finalmente un film italiano che non sia la solita commedia (genere che nel nostro paese è morto e sepolto da un pezzo e ormai viene sistematicamente "violentato" dalle mèzze tacche di regime) e che si occupi invece della classe lavoratrice come succede in Inghilterra, in Francia etc. Comunque non posso fare a meno di notare la "confusione" di Michele Placido che prima gira un bel film come questo e poi firma l'appello per il Sì al referendum voluto da Renzi (e per fortuna perso alla grande da quest'ultimo), che propugna una visione del mondo neoliberista e una totale flessibilità e precarizzazione del lavoro che invece nel film viene stigmatizzata.