Regista, attore, musicista; poeta per intima vocazione e per diletto; uomo dotato di ironia venata di surrealismo, col gusto della battuta e apparentemente estroverso; Niko Mucci, sessant’anni, è, in realtà, personaggio complesso, dai tanti risvolti artistici, quasi schivo, schietto, decisamente sensibile ed emotivo. Ho avuto il piacere di conoscerlo più di vent’anni fa -al tempo di quell’assidua attività di “cronista culturale”, che mi portava in giro per teatri, cinema e libri, durante uno spettacolo di Libera Scena Ensemble che, fondata negli anni ’70 da Gennaro Vitiello, dopo l’esperienza del Centro Teatro Esse – prima avventura di Avanguardia Teatrale napoletana, nata in una cantina di Via Martucci – annoverava, allora – si era nel 1996 – artisti ed amici come Renato Carpentieri, Lello Serao, Enzo Salomone e intellettuali, tra cui Amedeo Messina e Giuliano Longone.
Oggi, la compagnia, che ha rappresentato – anche grazie al suo impegno e alla sua militanza politica, di stampo dichiaratamente marxista – una delle punte di diamante della ricerca teatrale campana, e intorno a cui sono nati e cresciuti registi e attori, sopravvive, pur tra le tante difficoltà che attraversano il mondo della scena italiana, grazie alla caparbietà e alla dedizione proprio di uomini come Niko Mucci e Lello Serao, cui si somma l’impegno di artisti, tecnici, lavoratori che, in quel progetto, continuano a credere. Orbene, con Niko Mucci abbiamo deciso di fare una lunga chiacchierata, chiedendogli di parlarci di lui, dei suoi impegni presenti e della sua idea di teatro.
Nato, come si diceva, sessant’anni fa, in quel di Vercelli, Niko si è trasferito a Napoli sin da ragazzo, dove comincia a coltivare la sua passione per la musica, iniziando presto a suonare la chitarra, per poi proseguire con pianoforte, batteria, basso. Le sue qualità di strumentista gli consentono di entrare in alcuni complessini dell’epoca, cercando, nel frattempo, anche una personale strada di cantautorato. Trasferitosi, intanto, a Portici, verso la fine degli anni ’70 viene chiamato, dall’amico Enzo De Caro, a sostituirlo in quella che era l’allora nascente La Smorfia. Con Lello Arena e Massimo Troisi, gira, dunque, per circa un anno, locali e cabaret, suonando chitarra e piano e facendo da spalla musicale e attoriale al gruppo. Ritornato De Caro, quando La Smorfia stabilisce di trasferirsi a Roma, Mucci decide di non seguirli, rimanendo a Napoli, dove continua a coltivare la sua passione per la musica popolare.
Nel 1977, frattanto, si era venuta a formare la Compagnia di Musica e Teatro Popolare di Strada, Lo Cunto de li Cunti, poi Compagnia de li Cunti, con la quale, Niko Mucci, gira, per circa otto anni, in Italia e all’estero. Nella compagnia, conosce anche quella che diventerà sua moglie, l’attrice e cantante Nunzia Schiano, con la quale comincia un sodalizio, mai interrotto, artistico e di vita. Nell’ottantuno, intanto, entra anche nella compagnia de’ I Rinnovati, a Portici, diretta da Lello Ferrara, che Mucci considera la sua prima scuola di formazione autenticamente teatrale; lasciata nell’ottantasette, riprende, con la moglie Nunzia, l’attività con la Compagnia de li Cunti, cui affianca altre importantissime esperienze con registi e autori del calibro di Roberto De Simone, Franco Però, Giuseppe Bertolucci, Armando Pugliese.
Nel 1996, l’incontro con Renato Carpentieri lo avvicina alla rinata Libera Scena Ensemble, con cui comincia un’assidua e proficua cooperazione; contemporaneamente, Mucci amplia la sua conoscenza e la sua esperienza teatrale, collaborando anche con Mico Galdieri, che considera un altro dei suoi padri putativi.
Dopo tante collaborazioni, comunque, nel 2011 entra, ufficialmente e definitivamente, in Libera Scena, facendone parte, tuttora, nella nuova formazione dal nome Teatri Associati di Napoli (TAN). Purtroppo, nello stesso anno, un brutto incidente automobilistico mette a rischio la sua vita, tenendolo a lungo lontano dalle scene, cui torna, benché limitato fisicamente, concentrandosi, quasi esclusivamente, sul lavoro di regia e su quello di attore. Il suo interesse, negli ultimi anni, si è andato focalizzando sul teatro anglosassone, che lo stesso Mucci dice essere «vicino alla mia formazione scenica» e sul teatro in lingua spagnola e sudamericana, «trovandolo», afferma ancora Mucci, «molto vicino allo spirito partenopeo precedente gli anni ’80: quando cioè, dopo il terremoto, il popolo napoletano, secondo me, ha smarrito quella sua naturale innocenza, quella sua poesia carnale ed esistenziale, che, certamente, non è offerta dalla stereotipata immagine folkloristica tipica della Napoli da cartolina».
Da questa passione per la letteratura sudamericana, nascono, in successione, alcuni spettacoli significativi per quella che Niko considera la sua personalissima poetica teatrale, e che sono tuttora in scena: “Visite”, da Vargas Llosa , e “Avana”, liberamente tratto da Jorge Accame. Come si diceva più sopra, accanto a questi due allestimenti ce n’è un altro, che sta riscuotendo un ottimo successo: “Sigmund e Carlo”, ispirato all’omonimo saggio di Erich Fromm. Da più di un anno, poi, Mucci ha riscoperto l’antica passione per l’opera di Giambattista Basile – nello specifico, il Pentamerone – che lo ha portato a riproporre, con un gruppo di attori, le fiabe della prima giornata, «in una riscrittura» – come dichiara Mucci, che dell’allestimento è il regista, insieme a Domenico Basile – «che permetta di restituire lo spirito sonoro del Basile, rendendolo, però, più comprensibile ad un pubblico contemporaneo».
E allora, partiamo proprio dal Basile per rivolgere a Niko alcune domande.
Come nasce l’idea di mettere in scena Le Fiabe del Basile?
L’idea nasce da un mio amico, Domenico Basile – discendente diretto di Giambattista – che ha redatto la versione italiana, adottata dalle scuole, del Pentamerone. Circa un anno fa, in collaborazione con l’amministrazione comunale di Giugliano, luogo di nascita di Giambattista Basile, pensò di rappresentare per strada, nel periodo delle festività natalizie e in occasione del 450° anniversario della nascita dell’autore, le fiabe della prima giornata. Le storie sono state affidate ad un bel gruppo di attrici e attori, i quali, ciascuno partendo dalla propria sensibilità interpretativa, hanno riadattato, a loro volta, il codice linguistico, mediando tra il classicismo allusivo del barocco e l’incisiva immediatezza della lingua moderna. Ne è venuto fuori un lavoro, di diacronismo e sincronismo, interessante, che ha riscosso grande successo di pubblico; tanto che abbiamo pensato di proporne una versione teatrale, accompagnata da canti e musiche, e una versione estiva, itinerante, che permetta la fruizione dei luoghi più suggestivi all’interno di quei paesi che occupiamo con la nostra narrazione.
Che senso può avere riproporre, oggi, il Pentamerone del Basile?
Basile è un patrimonio collettivo; un momento di unione linguistica che contribuisce ad elevare il napoletano a dignità di Lingua. Inoltre, la tesi proposta nel prologo, da me stesso scritto, è che ci si riunisca ad ascoltare queste fiabe non per barricarsi di fronte alle paure provenienti dal mondo esterno ma per “riconoscersi” in una matrice comune ed avere, di conseguenza, più sicurezza nell’affrontare i problemi della realtà e della vita in generale.
Dunque, secondo te, Basile è un autore che ha ancora qualcosa da dire e da insegnare alle giovani generazioni e alle donne e agli uomini del nostro presente?
Qualsiasi autore ha importanza per il presente, ammesso che si trovi la motivazione giusta della sua riproposizione. Una motivazione, è chiaro, non prettamente filologica ma che vada nel senso di una condivisione emotiva e di un assunto da proporre nel quadro complesso della nostra contemporaneità. Basile, pertanto, ci dice che siamo una comunità, umana e meridionale, che va al di là, deve andare al di là del campanile, per riconoscersi nella cultura comune che l’ha generata; non in quei simboli pallonari o superficialmente folkloristici, imposti da un mercato che ha tutto l’interesse economico di proporre una simile riduzione dell’immaginario collettivo! Per quel che concerne l’insegnamento implicito nell’opera del Basile, alla fine di ogni fiaba c’è una morale, espressa attraverso un motto. Questo ci dice della funzione etica del racconto, un aspetto che definisce gl’intenti di una narrazione che ha, perciò, ancor oggi una grande valenza.
Quali sono le differenze, se differenze ci sono, tra le rappresentazioni del Basile in teatro e quelle in piazza?
Certo, e la differenza sta, chiaramente, nel rapporto col pubblico. Nel senso che l’intimismo e la relazione tra i personaggi , che in teatro, considerata la presenza della quarta parete, sono predominanti, in piazza si trasformano nella necessità di rivolgersi all’esterno, per cui la relazione con il pubblico diventa continua e fondamentale. Di conseguenza, anche la recitazione viene portata fuori, come si dice in gergo, e si gioca su un versante di maggiore immediatezza e spontaneità.
Qual è il tuo rapporto con la tradizione, la lingua napoletana e col teatro cosiddetto popolare?
Il napoletano, come sai, non è la mia lingua madre. L’ho studiato, ovviamente, il che mi rende meno naturale in alcuni aspetti, ma questo mi ha permesso un lavoro critico sulla lingua, nella sua evoluzione diacronica, che, alla fine, è risultato un vantaggio, permettendomi di non dare mai nulla di acquisito dal punto di vista espressivo. Inoltre, i miei studi di antropologia mi hanno portato a considerare il Mezzogiorno –ed il Sud in generale-la sua Storia, la sua magia, il mondo dei vinti che ad esso appartiene, come un’occasione perduta di crescita sociale, collettiva e nazionale. è questo, secondo me, uno degli aspetti più significativi e controversi della secolare Questione Meridionale. Nei confronti della cultura popolare, invece, mi sento come una sorta di Orfeo, che tenta di tirarla fuori dall’inferno della dimenticanza, in cui è sprofondata a causa della predominante cultura borghese e del trionfante modello mercati sta, e non resistendo alla tentazione di voltarsi a guardarla, ne causa il ritorno all’indietro. Tutto ciò, comunque, voglio sottolinearlo, nasce dalla tesi, portata avanti dalla Compagnia de li Cunti, di una sostanziale unità della cultura popolare, di matrice contadina, tipica del Meridione.
Da un po’ di tempo, ormai, il tuo interesse si rivolge alla letteratura sudamericana. Come mai questa scelta?
Quello che trovo di affascinante, nella letteratura latinoamericana, è la presenza di un alito poetico che, secondo me, è stato caratteristico anche della cultura napoletana, che un po’ l’ha smarrito, a partire dagli anni ’80, trasformandolo in una sorta di cupa aura da sottoscala. In America Latina, invece, quella poesia è rimasta a rappresentare, in modo molto semplice, la genuinità del sentimento comune. Genuinità e semplicità che consentono, ancor oggi, ad alcuni paesi del Sudamerica, di proporsi come alternativa al sistema, globalizzato e globalizzante, del mercato liberista. E penso , in particolar modo, all’Uruguay di Pepe Mujica. Un modello cui ispirarsi.
Parliamo un po’, a questo punto, dei tuoi spettacoli: Visite e Avana
Tratto da Vargas Llosa, Visite – che sarà in scena, dal 19 al 22 Gennaio, al Teatro Elicantropo di Via dei Gerolomini – è la storia di un incontro tra un ricco uomo d’affari peruviano e una donna, che afferma di essere la sorella del suo amico d’infanzia. Questo è l’inizio di un bellissimo gioco teatrale, misterioso e affascinante, tra attribuzioni di ruoli e proiezioni di un possibile e improbabile vissuto tra i due protagonisti, alla luce della nostalgia per un’età perduta. Il tutto, condito da elementi tipici del giallo psicologico, che si conclude con un doppio colpo di scena. Avana invece, tratto da Jorge Accame, è un viaggio, romantico e teatralissimo, all’interno di un’impossibilità esistenziale, che solo la magia della scena rende possibile. Si parla di un volo aereo inventato, di amori perduti e ritrovati, dell’avvento dell’inevitabile destino, a riportare i sogni nei cassetti.
Un altro spettacolo, con cui stai girando e che ha riscosso un buon apprezzamento, è Sigmund e Carlo (Freud e Marx ndr). Come mai hai deciso di portare sulla scena due personalità tanto complesse, due autori/filosofi che hanno segnato una svolta radicale all’interno del pensiero occidentale, nel senso della pratica del dubbio come metodo di ricerca, determinando una frattura profonda con la metafisica dominante?
Con Sigmund e Carlo volevo parlare della responsabilità collettiva e dell’effetto del crollo delle ideologie nel mondo contemporaneo. Quali autori, dunque, meglio di Freud e Marx avrebbero potuto permettermelo? Comunque, pur riprendendo, in parte, la riflessione elaborata da Erich Fromm, nell’omonimo saggio, la chiave scelta è quella dell’ironia, che diventa drammatica scelta politica per riscrivere, in modo netto,pensieri che, soprattutto nell’immaginario giovanile, sono divenuti echi, ombre, slogan.
Come regista, come intendi il rapporto con il pubblico? Cosa vuoi che emerga dai tuoi spettacoli?
Concepita una pièce, stabilisco un’empatia colla storia che andrò a rappresentare e, quindi, sfrutto tecnicamente tutte le funzioni e i codici scenici: luci, musiche, abiti, attori, sorriso, per entrare in complicità col pubblico, per poi giungere a porre degli interrogativi riguardo ai temi che intendo esporre e trattare. A tale scopo, infatti, a fine spettacolo, di solito prospetto una riflessione con il pubblico che, per me, diventa un impulso per nuove e più approfondite considerazioni, sia sulla scrittura che sulla possibilità di messinscena. Una sorta di straniamento brechtiano conclusivo, insomma. E ho riscontrato che, tuttosommato, è stimolante anche per il pubblico, che partecipa con interesse.
Caro Niko, veniamo ora alle note dolenti. Ha ancora senso fare teatro, oggi?
Non esiste epoca, che abbia avuto dei parametri di civiltà, in cui il Teatro non abbia assunto un ruolo, divenendo fonte di riflessione, riconoscimento, crescita sociale e civile. In questo preciso momento storico, però, è molto forte lo iato creatosi tra Spettacolo e Teatro. Intendo dire che, pur rispettando i livelli artistici di ogni lavoratore del settore, dovremmo operare una differenza sostanziale: il Teatro ha, o meglio dovrebbe avere, la funzione di mettere lo spettatore di fronte ad un interrogativo e, si badi bene, senza proporre soluzioni; mentre lo Spettacolo –in senso debordiano- ha, o sembra avere, una funzione soprattutto di alleggerimento psicologico.
Quali sono le difficoltà che incontri al momento di produrre uno spettacolo?
Io lavoro sulla logica dell’autoproduzione. Coinvolgo, quindi, persone che sono interessate a partecipare ad un progetto che, sebbene povero, rispetti economicamente il lavoro di tutti, venendo costruito in previsione del target possibile dello spettacolo, inteso come teatri ospitanti. La storia degli ultimi cinque anni mi ha dato ragione in questa politica organizzativa, permettendomi di chiudere in pareggio tutte le produzioni a cui abbiamo lavorato. Questo, ovviamente, anche grazie alle possibilità offerte dalla struttura organizzativa del TAN (Teatri Associati di Napoli) di cui sono socio.
Qual è l’importanza di uno spazio come il TAN, situato in un territorio tanto difficile come Piscinola?
Il TAN, creato da Libera Scena, nelle persone di Renato Carpentieri e Lello Serao, ed ora gestito dallo stesso Serao e dai ragazzi di Interno 5, è, com’è noto, un teatro di frontiera. In tal senso, faccio mie proprio le parole di Serao, che ha più volte sottolineato come, lavorare in un teatro di frontiera, offra occasioni di fermento e di collaborazione col territorio e con le tantissime forme associative in esso presenti, che un teatro, ad esempio situato al centro storico, non offrirebbe. Sarebbe meno vivo, almeno questa è la nostra opinione. Quanto detto, ovviamente, determina anche la nostra funzione sul territorio stesso. Una funzione catalizzante, di indirizzo intellettuale e culturale, ma soprattutto capace di offrire occasioni a chi voglia operare, creare e pensare in quella periferia tanto marginalizzata dalla Napoli borghese, immaginando opportunità di crescita sociale e collettiva. A tal scopo, il TAN non è solo un insieme di operatori culturali, ma è il luogo dove sedici associazioni, di vario scopo e provenienza, trovano casa per il loro riunirsi e progettare.
Proprio riprendendo quanto stavi dicendo, la cultura è, in genere, considerata uno strumento di crescita individuale, collettiva e di massa. Strumento di Potere e di Contropotere. Tu come la intendi?
Sulla crescita individuale, credo non ci siano dubbi. Io stesso, lavorando in teatro, mi sono sentito più sicuro nell’affrontare la realtà, a volte dura, della quotidianità. Ovviamente, considerando la sua valenza socializzante, è inevitabilmente anche volano per la crescita delle masse; o, almeno, può esserlo nell’identificarle come un insieme di soggettività pensanti. Per quel che riguarda, invece, la dicotomia Potere-Contropotere, non si può non considerare il fatto che la cultura aiuti, appunto, a pensare. Quest’aspetto, libera dalla soggezione nei confronti delle forme di Potere manipolativo, persuasivo e induttivo, offrendo l’occasione di riconoscere e riconoscersi nell’alto concetto di Libertà.
I tuoi lavori, di solito, li proponi in quei piccoli spazi che potremmo definire teatri off. In un momento come quello attuale, in cui anche la legislazione dello spettacolo dal vivo vira verso le stritolanti logiche di mercato –tanto che si può parlare di una vera e propria industria teatrale- che valore ha questa scelta?
Ovviamente, io non sono concettualmente chiuso all’idea di proporre i miei lavori in teatri più grandi. Semplicemente, il mercato non li richiede. Peraltro, trovo che la possibilità dialettica interna con lo spettatore, la necessità di creare con esso empatia, la fruibilità totale del lavoro dell’attore, così come lo si concepisce in epoca moderna, si avvantaggino delle ridotte dimensioni di alcuni spazi. E quasi, di conseguenza, anche i miei allestimenti sembrano concepiti su tali dimensioni. Insomma, credo anche che il tipo di lavoro teatrale che propongo abbia, in qualche misura, bisogno di confrontarsi con il pubblico, in formazione permanente, dei piccoli spazi. Un pubblico interessato più ad un progetto teatrale che all’”evento” spettacolare.
Nel corso del ‘900, il teatro ha assunto un rivelante senso politico. Secondo te, può ancora esercitare questo ruolo?
Credo che qualsiasi occasione di riflessione sulla nostra condizione di individui e di collettività abbia una rilevante funzione politica. Una funzione che non consiste nell’indirizzare il proprio pubblico verso uno specifico segmento partitico, ma nell’offrire ad esso uno strumento idoneo a cercare un proprio pensiero, una propria via, una propria etica, tali da consentirgli di affrontare il mondo esterno senza subirlo. Ritengo, dunque, che così il teatro esplichi la sua funzione politica, in una chiave didattica ma non scolastica. Insomma, il Teatro offre occasioni di riflessione e chiavi di lettura della realtà, permettendo a ciascuno di formarsi una propria coscienza civile e, quindi, politica.
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