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Milano, storia di una rinascita. Una mostra riuscita solo a metà

 Sino al 12 febbraio, a Milano, è possibile visitare la mostra Milano, Storia di una Rinascita 1943-1953. Dai bombardamenti alla ricostruzione (Palazzo Morando, Via Sant’Andrea, 6, entrata 10€ con possibili riduzioni).

Dico subito che questa mostra, curata da Stefano Galli, merita di essere visitata da tutti coloro che vivono e che si trovano a passare da Milano. Il materiale, soprattutto fotografico, che compone la mostra, è molto interessante soprattutto per quanto riguarda il primo dei due temi affrontati, vale a dire la Milano sotto i bombardamenti del 1943-44. Non è facile, a distanza di settant’anni, quando le testimonianze orali cominciano a essere più rare e meno ascoltate, immaginare cosa fosse esattamente Milano in quel momento particolarmente tragico della sua storia. Il ricco materiale messo a disposizione del visitatore ci conduce in una città in cui il 70% dei palazzi e dei monumenti del centro storico era crollato o danneggiato e i principali monumenti parzialmente distrutti . La Scala, teatro simbolo della città fu il più colpito, ma anche Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie, Palazzo Marino (oggi sede del Comune), il vecchio ospedale Maggiore (oggi Università Statale) e molti altri edifici storici furono gravemente danneggiati. Tuttavia, i bombardamenti non risparmiarono le periferie e i quartieri popolari, soprattutto quelli dove erano presenti insediamenti industriali, come le fabbriche Breda, Caproni, Pirelli, Alfa Romeo, che, sottomesse alle esigenze dell’industria bellica degli occupanti tedeschi, divennero obiettivo dell’aviazione alleata. In questo contesto, avvenne anche il terribile episodio della scuola di Gorla, dove per “errore” morirono quasi 200 bambini, poiché il comandante di un aereo alleato, resosi conto di avere fallito gli obiettivi degli stabilimenti dell’Isotta Fraschini e dell’Alfa, decise di liberarsi del carico di bombe inutilizzate sganciandole su quel quartiere.

Ancora, sono interessanti gli spunti offerti dalla sezione riguardante l’uso della bicicletta, ai tempi mezzo di locomozione popolare importante, che nel periodo dell’occupazione fu particolarmente sorvegliato, poiché i gappisti l’utilizzavano per spostarsi rapidamente in città. Non è un caso che, durante l’occupazione, per girare in bicicletta a Milano fosse necessario un permesso della Kommandantur tedesca.

Il materiale proposto nella mostra è utile per documentare non solo a che punto arrivò la distruzione della città di Milano, ma anche per comprendere quali potessero essere le condizioni di vita della popolazione durante il periodo 1943-44. Condizioni evidentemente durissime, sia per il rischio continuo dei bombardamenti, da cui ci si poteva difendere solo scendendo nei rifugi antiaerei (in pratica le cantine dei palazzi un po’ rinforzate), sia per la carenza di generi di prima necessità e soprattutto di cibo. L’inverno 1943-44, si narra tra l’altro, fu particolarmente freddo e questo comportò che la grande maggioranza degli alberi che ornavano i viali e i giardini della città furono tagliati per avere di che riscaldarsi.

Inoltre, il materiale della mostra, attraverso alcuni film-Luce dell’epoca apre alla conoscenza di come la propaganda fascista cercò di utilizzare, in un estremo tentativo demagogico, i bombardamenti su Milano per attaccare gli alleati e suscitare nella popolazione, stremata e affamata, improbabili slanci bellici.

Il materiale proposto in questa mostra aiuta a comprendere anche come avvenne la ricostruzione di Milano e contribuisce a capire quali siano i suoi attuali assetti urbani, almeno in parte condizionati dalla necessità postbellica di dare una casa a centinaia di migliaia di milanesi che l’avevano perduta e dalle modalità in cui avvenne la ricostruzione.

Detto di quanto di positivo, dal punto di vista documentario, offre questa mostra, è doveroso sottolinearne anche i non pochi limiti storici e politici, che non attengono tanto al materiale presentato quanto al commento proposto nei pannelli che lo accompagnano e a quanto viene detto al visitatore nell’audio guida.

Anzitutto, il ruolo della Resistenza viene ridotto a quello di un movimento a supporto dell’avanzata alleata, quasi che i combattenti affluiti nelle brigate partigiane non avessero un progetto spontaneo e proprio di liberazione nazionale e in molti casi anche un progetto politico per l’Italia futura. E’ bene ricordare che la formazione delle prime brigate partigiane non avvenne con l’obiettivo di sostenere l’avanzata alleata, ma piuttosto di scacciare direttamente tedeschi e fascisti. Peraltro, senza retorica, è bene ricordare anche che l’esercito alleato entrò a Milano in modo trionfale e quasi pacifico, poiché i partigiani avevano già liberato la città.

Inoltre, sempre nell’audioguida distribuita ai visitatori, si fa riferimento ai bombardamenti delle fabbriche piegate all’industria bellica nazista dicendo che la produzione in realtà non si arrestò mai anche perché si pensava alla ripresa dopo la guerra. Tuttavia, non si cita il costante lavoro di sabotaggio della produzione bellica nazista condotto dagli operai di tali fabbriche, né come i lavoratori difesero, anche in armi, nei giorni dell’ imminente liberazione, le fabbriche dalla volontà dei tedeschi di distruggerle perché ormai non più utilizzabili nei loro piani di guerra.

Nella seconda parte di questa mostra, dedicata agli anni della ripresa economica 1946-1953, molto spazio viene dedicato al nascente design milanese e alla rinascita dell’industria ed eguale attenzione ai progetti industriali ed edilizi che ridefinirono la città negli anni del dopoguerra.

Purtroppo, il punto di vista adottato è, per questo periodo, esclusivamente quello della grande industria in ripresa, dei grandi architetti che realizzarono i nuovi quartieri popolari della periferia, dei designer della moda e dei progettisti della televisione, pur senza tralasciare i progetti culturali che si realizzarono.

Non si manca, per esempio, di citare la trasformazione, già nel 1946, della sede della famigerata legione Muti, luogo di tortura degli antifascisti, nel Piccolo Teatro di Milano, divenuto uno dei luoghi significativi della cultura milanese, operazione completata solo alla fine del novecento con la costruzione del nuovo teatro Strehler per l’Europa sulla spazio dove sorgeva l’Istituto Tecnico Schiaparelli, altra sede di quell’infame milizia fascista.

Tuttavia, la storia della ripresa industriale milanese è tracciata senza tenere in alcun conto il contributo operaio, la soggettività operaia presente nelle fabbriche, le lotte dei durissimi anni postbellici, quando il capitale e il potere politico democristiano tentarono e purtroppo, in parte, riuscirono, di vanificare le aspettative sorte dalla Resistenza e di restaurare gli equilibri produttivi prebellici. La storia della Milano industriale dei primi anni del dopoguerra è scritta così solo attraverso i nomi di grandi capitani d’industria e l’esposizione, certo interessante, ma non sufficiente, di qualche prodotto industriale.

Egualmente, quando si tratta della costruzione dei nuovi grandi quartieri popolari, come il QT8 o quello di Viale Omero, si mostrano i progetti e si parla degli architetti che li concepirono, ma senza spiegare a chi fossero destinati, chi realmente li abitò e quale vita vi si condusse nei primi anni dopo la loro costruzione (la mostra si pone come limite temporale il 1953). In questo modo, i disegni di quei grandi quartieri appaiono come scatole vuote, silenti, senza abitanti che li animino nel contesto urbano della Milano che si rialzava dalle macerie della guerra.

Per tutte queste ragioni, la mostra Milano, Storia di una Rinascita 1943-1953. Dai bombardamenti alla ricostruzione mi sembra riuscita solo a metà, vale a dire, come ho scritto, solo nella parte documentaria del periodo dell’occupazione e dei conseguenti bombardamenti, monca tuttavia dello slancio vitale che avrebbe potuto ricevere dalla presenza delle classi popolari milanesi, con i loro desideri, aspirazioni e con le loro lotte.  

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