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Orfani bianchi

Mirta Mitea, eroina moldava,

finta infermiera,

che ha abbandonato la sua famiglia

per aiutare quelle degli altri”

I lettori di Antonio Manzini saranno piacevolmente sorpresi dall'ultima fatica del creatore del vice-questore Rocco Schiavone. Non c'è dubbio che Rocco così come il commissario Montalbano siano personaggi dall'innegabile fascino letterario. Utopici, irrealistici, degni del don Chisciotte servantiano. Però coloro che hanno a che fare con le forze dell'ordine italiane, sanno bene quanto la letteratura sia differente dalla realtà.

“Orfani bianchi”, edito da Chiarelettere, si discosta nettamente dalla scrittura precedente di Manzini. Non solo perché il genere è totalmente diverso ma soprattutto perchè il tema affrontato è estremamente realistico.

La vicenda ha per protagonista una donna moldava, Mirta, che si è trasferita in Italia per lavoro e per mantenere il figlio lasciato in patria. Mirta è una badante, una delle migliaia che si incontrano nei giardinetti sotto casa e che spesso ci rappresentiamo come una massa compatta e indistinta. Eppure queste signore dell'Est europeo, non provengono semplicemente da nazioni diverse: in ognuna è racchiusa una storia singolare e unica, che caratterizza ogni essere umano.

La storia di Mirta Mitea però è anche una storia comune a molte delle immigrate che vivono nelle nostre case. Spesso non capiamo le loro abitudini o la loro lingua eppure affidiamo loro responsabilità infinite; ciò che non siamo più capaci di affrontare, ciò che non abbiamo il tempo di fare, lo carichiamo sulle spalle di persone che rinunciano alla propria famiglia per badare a quella degli altri.

Non è certo buon cuore o aspirazione al martirio; lo scrittore al contrario riesce molto bene a trasmettere tutta la rabbia e la forza di volontà che spinge la protagonista. Mirta è in Italia solo per motivi economici, perché in Moldavia non riesce a dare alla propria famiglia una vita degna. Spesso dimentichiamo perché le persone emigrano, attribuendo loro margini di scelta che non hanno. Chi si muove a prezzo di rinunce anche emotive, non lo fa a cuor leggero. Mirta a tratti odia l'Italia e il lettore non può darle torto. Manzini ci mostra la radice di questi sentimenti: chi è sfruttato non può provare riconoscenza o sentirsi in armonia con il luogo in cui vive. I personaggi e la trama del romanzo mostrano ad ogni passo quella irriucibile dicotomia Noi/Loro che rende l'empatia e la solidarietà tra le persone impossibili da realizzare.

Ogni tanto la protagonista incontra qualcuno più consapevole, che accomuna lo sfruttamento dei migranti a quello dei lavoratori del Sud Italia negli anni del secondo dopoguerra. Ma in generale i media e la politica nostrana soffiano sulle braci mai spente del razzismo; una guerra tra poveri che arricchisce chi la orchestra. Niente di nuovo, certamente. Eppure la letteratura narrando una storia tra tante, ci aggancia inesorabilmente e spesso inconsapevolmente alle nostre realtà. La parabola di vita di Mirta, assurda e a tratti surreale, è una possibilità che agisce ogni giorno accanto a noi, che esula dai dati statistici e dalle analisi politiche per immergere il lettore nella realtà di una vita vera, per quanto scaturita dalla penna di uno scrittore.

La storia precipita dentro le infinite probabilità del reale. La protagonista perde la madre ed è costretta ad affidare il figlio adolescente ad un Internat, una sorta di convitto/orfanotrofio dove i ragazzi senza famiglia possono vivere e studiare. Così Ilie, il figlio, diviene un orfano bianco: un ragazzo che pur avendo una madre, è costretto dalla vita, o dal sistema di sfruttammento delle società occidentali, a vivere come se una madre non ce l'avesse.

A tratti Manzini generalizza senza approfondire, i problemi dei paesi dell'ex blocco sovietico e questo è indubbiamente un punto debole della narrazione. D'altro canto ci da invece un'immagine estremamente puntuale e realistica del nostro Paese, dove si svolge la maggior parte del romanzo.

In epoca di muri e recinzioni, reali e psicologiche, in cui pare si debbano accogliere nel nostro piccolo mondo solo coloro che arrivano per produrre qualcosa, Manzini ci riporta coi piedi per terra. Chi arriva non si lascia alle spalle il nulla; spesso ha negli occhi gli occhi di altre persone; eppure non vediamo quegli sguardi. Mentre la politica blatera di numeri, di impronte digitali, di permessi, capita che un romanzo ci ricordi che questi sono solo dettagli, che la realtà è un'altra cosa.

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