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Brani tratti dalla conversazione con Juan Martín Guevara (pag. 131)

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Partiamo dalle lettere. Le lettere scritte a vostra madre da tuo fratello Ernesto non smettono mai di emozionare. Naturalmente in alcune di quelle missive ci sei anche tu. Vi amava molto, così scriveva, ma per voi non deve essere stato semplice comprenderlo visto il tipo di scelte che aveva fatto. È stato veramente così difficile per la vostra famiglia?

No, sappiamo e sapevamo allora che per Ernesto non era affatto facile dimostrarsi affettuoso. Era una persona abbastanza rigida. Lui stesso lo diceva, ma lo diceva senza sapere come noi percepivamo e interpretavamo le cose. La verità è che il suo ruolo, ciò che stava facendo, l’intensità con cui lo faceva, non gli lasciavano tempo per esprimere con tranquillità i suoi sentimenti, e noi questo lo capivamo. Mi ricordo un suo testo, La piedra, scritto da Ernesto mentre era in Congo, quando capì che la nostra vieja, nostra madre, non ce l’avrebbe fatta, che sarebbe morta. Lì è contenuto un passaggio in cui descrive la durezza apparente di nostra madre; ed era così, difficilmente ci faceva una carezza, non era questo il modo in cui esprimeva i suoi sentimenti. Ernesto era come lei, non ti dimostrava l’affetto come tu ti aspettavi, ma aveva un modo tutto suo di farlo. Non ho mai giudicato la sua rigidità né l’ho mai percepita come una volontà da parte sua di tenerci a distanza. Lui si esprimeva nella lotta, nell’attività politica. In cambio, aveva una maniera molto gentile di comunicare. Nel corso della Conferenza di Punta del Este del 1961, al presidente dell’Uruguay di allora, Eduardo Víctor Haedo, disse: “Lo sa bene, presidente, che bisogna essere duri senza perdere la tenerezza.” E poi si firmava semplicemente “Che” o “Che Guevara”.

Era fatto così, aveva una naturale predisposizione alla tenerezza, ma ne era geloso, non la dimostrava facilmente, alla prima occasione, con chiunque, come sappiamo fare bene noi argentini riprendendola dalla nostra parte italiana, con abbracci, effusioni. Ernesto appariva distaccato ma in realtà era capace di grande vicinanza e di grande affetto.

Andando più indietro nel tempo ti sovvengono altri ricordi relativi a Ernesto?

Uno dei miei primi ricordi nitidi di Ernesto è quando studiava di notte. Lo ricordo bene anche se ero molto piccolo. E poi i regali: quando andava in giro tornava sempre con qualcosa per me e gli altri fratelli.

Ricordo anche la camicia semanera, di nylon, quella che portava sempre; era detta così perché la lavava una volta a settimana. Bisognava poi cercare di andare in bagno prima di lui se si aveva urgenza: lui andava, si portava i libri e si metteva a recitare in francese e a declamare poesie. Io lo ascoltavo, era piacevole.

Rammento che a casa aveva una relazione speciale con Sabina Portugal, una india aymara boliviana che lavorava nella nostra abitazione come domestica. Lei era quasi analfabeta ma Ernesto si metteva ad ascoltare con grande attenzione la storia della sua vita, le miserie della sua gente. Penso che questo lo abbia influenzato non poco. Sabina lo trattava benissimo, gli cucinava le patate fritte e gli metteva da parte il cibo quando andava all’Università. Quando Ernesto partì lei rimase molto male e riversò il suo affetto su di me. L’ultima volta in cui tutta la famiglia si riunì con Ernesto fu quando lui andò a Punta del Este per la Conferenza. Ho un ricordo molto bello. Lui regalò alla nostra vieja il suo libro, La guerra di guerriglia, con questa dedica: “Vieja: Affinché il tuo spirito guerrigliero, sempre stretto tra figli, convenzioni sociali, ristrettezze economiche, faccia la sua ‘tournée’ nei cammini dell’epica passata e futura, quella dell’ultima grande guerra di liberazione che vedrà il mondo, con affetto tuo figlio. Che”.

da Io e il Che
a cura di Nadia Angelucci e Gianni Tarquini
Nova Delphi Libri 2017

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