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Regina Madre: “Io, la verità, mento”

Napoli. Sala Teatro Nuovo. Buio. Sipario. Si materializzano due presenze fantasmatiche che, per teatrale convenzione, chiameremo attori: Imma Villa (apparentemente Regina Giannelli) e Fausto Russo Alesi (apparentemente Alfredo, il figlio). Ha inizio Regina Madre. Regista/demiurgo di questa tragedia della psiche che, sempre per convenzione teatrale, chiameremo scrittura scenica – tratta dall’’omonimo testo drammaturgico, datato 1984, di Manlio Santanelli – è Carlo Cerciello.

Intraprendiamo un viaggio allucinato, un trip, che ci condurrà, per più di un’’ora, a guardare dentro noi stessi e dove, di solito, fa più male guardare. Un trip che ci porterà a scandagliare nel nostro frastornante e travagliato subconscio. Sull’’orlo di un baratro nel quale, riversate, si ammassano le macerie da disseppellire e ricomporre – quando si riesce – di quell’’infanzia vissuta nel grembo, apparentemente tranquillizzante, della tanto celebrata famiglia tradizionale. Asse portante, in vero, della decrepita, malferma società borghese occidentale e nucleo incandescente di dinamiche nelle quali, spesso, si condensano quei disagi psichici che ci accompagneranno per l’’intero corso della nostra esistenza: nevrosi, fobie, angosce, terrori, rapporti di potere ai limiti del sadomasochismo, morbosità incestuose, carenze affettive, odi, disistime di sé, senso irrimediabile di fallimento, duble bind, coazioni a ripetere, psicosi, crudeli principi di autorità e liberatori sentimenti di rivolta.

All’improvviso, ho come la sensazione di calarmi  (termine significante, usato all’atto dell’assunzione di Lsd – nellatmosfera cupa di The End, dei Doors e precisamente quando Jim Morrison, nel lontano 1966, la cantò, per la prima volta, al Whiskey a go-go di Los Angeles – o in quella, più luccicante, ma non meno ipnotica, di Shine On You Crazy Diamond, dei Pink Floyd). O anche, di scivolare all’interno di un dipinto di Carlo Carrà e della sua pittura metafisica.

Prime sensazioni riconducibili, innanzitutto, a quelle straordinarie menti creatrici di drammaturgia dello spazio e drammaturgia delle luci, che rispondono ai nomi di Roberto Crea e Cesare Accetta. Il primo, inventore di un latteo praticabile allegorico, il cui segno è suscettibile delle più diverse interpretazioni, al mutare delle surreali logiche che si dipanano sulla scena: un gigantesco letto matrimoniale, un palco rialzato, una camera iperbarica, una gabbia, una cella di isolamento di un Ospedale Psichiatrico, una pedana per schermidori armati di fioretti linguistici, una pagina bianca da narrare, una culla tombale.

Di fianco, inquietanti, assistono due burattini in legno, raffiguranti Pinocchio e la Fata Turchina, entrambi col naso lungo ed orrorifici nella loro allusiva dimensione simbolica “rovesciata”, chiusi in un sogno angoscioso sospeso tra il Kafka puerile di Bataille e il Lynch di Inland Empire. Tra Ionesco e Pinter, vagabondi nel bugigattolo dell’’infanzia morta di Kantor. Simboli che rivelano – come Sileno a Re Mida, ne La nascita della Tragedia – una terrificante realtà: la menzogna di cui è impastata la vita, e i suoi spesso effimeri rapporti, raddoppia quella verità, artificiale ma autentica, che ci dice il teatro, quando sa farsi poesia delle cose umane. Il secondo, sapiente e magico alchimista, trasforma le luci in semantiche ferite sinestetiche, capaci di disegnare trame visionarie e percettive, dando profondità alla soffocante proiezione della mente nello spazio scenico, ventrale e prenatale; o raggelando suoni, accenti, frasi, gesti, che in esso e sulle maree del suo amniotico liquido, prendono corpo e danzano come ombre.

Cesare Accetta innalza tutto nell’’aria rarefatta di un iperuranio lessicale, dove la parola galleggia, con la sua essenza ontologica, celando le possibili connotazioni soggettive, mondane, inconsce; o, ad un tratto, precipita – con le sue luci – la messinscena su fondali di acque trascendenti la loro essenza fenomenica, in cui si agitano gli specchi rotti di individualità sull’’orlo della follia.

Alla scenografia di Roberto Crea e alle luci di Cesare Accetta, si affianca la tessitura sonora, evocativa ed enigmatica, con cadenze da thriller hitchcockiano (penso, non casualmente, a Psyco), costruita dal sempre impeccabile Paolo Coletta.

La regia di Cerciello lavora alla creazione di quella che potremmo definire una Gesamtkunstwerk (opera d’’arte totale) per “accumulazioni” stilistico/formali, coniugando senza mai scadere nel manierismo, nel compiacimento citazionista o nella vacuità postmodernista – l’iconoclastia visiva e pittorica del Teatro Immagine e la frattura, straniante e anti-illusionistica, tipica di Brecht; il tragicomico salto nel vuoto esistenziale del Teatro dell’Assurdo e il realismo psicologico di matrice stanislavskijana; la kantoriana scrittura scenica – tra i cui spettri la memoria profana il passato e il lato oscuro della vita è sospeso tra l’urlo della nascita e il rantolo della morte – e la psicosi della proiezione/identificazione fantasmatica secondo il concetto formulato da Melanie Klain – del Genet de Le Serve.

In quest’ottica, il testo di Santanelli – sul quale Cerciello, Villa e Russo Alesi hanno lavorato e agito con intelligenza, apportando non pochi tagli – viene destrutturato e ridotto, se così si può dire, alla sua essenza sottotestuale e significante, permettendo, tanto alla regia quanto agi attori, di succhiarne l’anima, restituendola al pubblico lacerata nella sua tragica, paradossale, sghignazzante crudeltà schizofrenogena.

C’è da sottolineare che i tre non si sono certo semplificati la vita e, a tratti, il rischio di smarrire il senso di alcuni passaggi e dinamiche complesse lo si è corso, nei continui ribaltamenti di ruolo che i due interpreti sono stati costretti a sostenere, nell’alternanza di un incessante gioco di identità riflesse. Ma la loro magnifica prova d’attore ha decisamente surclassato qualunque incongruenza, rilevabile in fase di scrittura.

Due presenze simboliche, fantasmatiche, come si diceva all’inizio, Imma Villa e Fausto Russo Alesi; eppure prepotentemente fisiche, nella cesellatura di ogni dettaglio della macchina attoriale. Imma Villa è Regina Giannelli, la madre, mentre Russo Alesi veste i panni del figlio Alfredo, che è andato a trovarla, sapendo del suo cagionevole stato di salute; ma, in realtà, per poter scrivere un libro su di lei e sulla sua morte.

Da qui, parte un gioco al massacro, una lacaniana dialettica sadomasochistica, tra Alfredo e Regina: con il primo, chiuso in un labirinto senza via d’uscita, braccato dalla Legge di un padre assente nella realtà, ma onnipresente nel mito, e dal Desiderio di una Madre oppressiva e junghianamente uroborica, nel suo crudele tentativo di fagocitare quel figlio, fino a dilaniarlo. Una Madre che, come dice ad un certo punto Alfredo – adoperando uno stratagemma linguistico – è madre e patria, quindi Madrepatria, in un capovolgimento quasi deleuziano del delirio, dall’ambito familiare al più pregnante, ma meno immediatamente evidente, ambito politico.

Tutto lo spettacolo, d’altronde, lungi dal ruotare intorno ad uno sterile ed estenuante psicologismo, tendente alla semplice evidenziazione delle dinamiche distorsive interne al nucleo familiare, si attesta su un versante di dura critica alla sovrastruttura borghese, di cui la famiglia, come si diceva prima, rappresenta il cardine principale. Quell’amorevole nucleo primigenio si trasforma – grazie alla lettura originalissima, evocativa e surreale, che di Regina Madre hanno offerto Cerciello, Villa e Russo Alesi- in una terrificante stanza di tortura, dove vittime e carnefici si massacrano amorevolmente, e con godimento reciproco, contribuendo a smantellare quella narrazione, ottimistica ed irritante, del cosiddetto focolare domestico, insieme alle sue implicazioni culturali ed ideologiche.

Or dunque, durante il primo segmento dello spettacolo, la sorella di Alfredo, Lisa, è solo evocata. Poi, però, dopo una probabile pera di eroina, che Alfredo si spara in vena, sopraffatto dalla disperazione, si invertono i ruoli; e allora Alfredo diventa Regina e Regina, a sua volta, si trasforma in Lisa. Qui, il gioco teatrale si rivela in tutta la sua sublime finzione s/mascherante. Alfredo, difatti, indossando la maschera di Regina Madre, entra, per dirla con le parole di Leo de Berardinis, «in contatto psicosomatico col fuori di sè» e rende così manifesta la sua personalità psicotica, incidendo sul volto quel simbolico materno, quel desiderio della madre, incestuoso e castrante, che lo invade e lo inghiottisce, conducendolo verso il nulla eterno.

Da questo punto in poi, i ribaltamenti di ruolo si susseguiranno più rapidi, creando sì un vertiginoso senso di straniamento ma rischiando, come si diceva prima, di creare un po’’ di confusione nello spettatore. Imma Villa e Fausto Russo Alesi, tuttavia – lo abbiamo già sottolineato – non smarriscono mai il senso dei loro personaggi, cucendo insieme frammenti psicologici, partiture gestuali, scavi emozionali, pur nel variare dei registri interpretativi e dei codici attoriali. Due scuole a confronto: l’una, Alesi, più tecnica, fino alla perfezione del dettaglio; l’altra, più immediata ed emotivamente avvolgente, Villa; ma due interpreti capaci, complessivamente, di farsi un unico corpo organico con lo spettacolo.

Il gelo beckettiano, la Supermarionetta di Craig, lo straniamento di Brecht, il naturalismo di Stanislavskij, finanche il cabaret, trovano spazio nelle voci, nelle mani, nelle braccia, nelle gambe, nei piedi di questi due straordinari attori, permettendo loro di spaziare in quella magmatica follia espressiva e pluricodica che questo allestimento di Regina Madre ha voluto e saputo regalarci.

La regia di Carlo Cerciello, come sempre intelligente e stratificata, ha messo ordine nel tutto, con un rigore ossessivo che, solo, può dare senso a quell’universo visionario e grottesco, come un allucinato kabaret espressionista, che abita la sua personalissima scena. Un universo divenuto, ormai da anni, inconfondibile cifra stilistica.

Nel finale, il vaneggiamento psicotico giunge a compimento, in un’implosione psichica che sgretola letteralmente la personalità (la struttura egoica) di Alfredo, il quale, adagiandosi nella culla/cella tombale, non può far altro che soccombere a sé stesso, alla propria nullità e al fantasma di una madre che, ora comprendiamo, è essa ad essere stata assente per tutta la durata di questa scioccante rappresentazione della psiche, aleggiando nella violenta, struggente, lancinante evocazione filiale. Una madre/puttana, una Maria/Maddalena mitopoietica, che, nell’ultima scena, ci appare come carnale spettro danzante tra gli incubi proiettati dalla mente di Alfredo. Lui, regredito a livello neonatale, si lascia, al fine, annegare tra le acque – elemento drammaturgico fondamentale – di quello che, recuperando la suggestiva immagine espressa da Ferenczi in Thalassa, potremmo definire l’oceano primordiale del grembo materno.

A questo punto, riallacciandoci a quanto si scriveva in apertura di questo tentativo di analisi, si può decisamente affermare che l’aprirsi del sipario su Regina Madre e sull’edificio drammaturgico costruito da quel magnifico artefice della parola teatrale che è Manlio Santanelli – edificio assurdo e paradossale, violento e crudele, lucido e immaginario, fisico e impalpabile, sfuggente alle logiche della razionalità architettonica e, perciò stesso, spiazzante come un’opera di Gaudì – ha portato con sé un’allegorica funzione di slittamento psichico: di confine, di frontiera, liminale. Terrificante eppure incantevole. Mostruoso eppure seducente. Agghiacciante eppur divertente. Farsesco eppure drammatico. Grottesco eppur tragico.

L’indolente sollevarsi del drappo rosso, il suo svogliato dischiudersi, l’irruente e immediata irruzione di personae – nell’accezione latina di maschera, personaggio – e di universi altri, proiettati sulla scena e dinanzi al mio sguardo, che confesso smarrito, li ho vissuti con quel fanciullesco, angoscioso desiderio dell’infanzia di sprofondare nella verità, inafferrabile e inaccessibile, del sogno o dell’incubo. Dove tutto è indefinibile e indefinito. Impalpabile e denso. Liquido eppur materico. Dove l’occhio è ipnotizzato. La mente, immersa in una spessa bolla oniroide. La coscienza, avvolta nella crepuscolare penombra di un atterrito Club Silencio: al cospetto di quel David Lynch, faustiano sacerdote officiante la cerimonia dell’assenza e dell’allucinazione distorsiva. Dove i sensi sono rapiti dall”improvviso materializzarsi di una ir/realtà spettacolare.

Paesaggi lisergici, regioni immaginarie, quadri espressionisti, dedali laterali del pensiero, possono squarciarsi all’apparire di un palco, quando esso sa farsi epifania visionaria. Allora, il segno ha corrispondenze surreali. Il linguaggio, connotazioni assurde. Le sensazioni, risonanze inimmaginabili. La paura si mescola indecentemente all’’orgasmo. La vita si sovrappone crudelmente alla morte, nel suo artaudiano atto palingenetico. E la morte, la morte ludica e impossibile, spietata ed insensata del K de Il processo, la dionisiaca morte del dio teatrale per antonomasia – finta, eppur inverata dall’illusorio alone del trauma Rem, più reale che se fosse reale – diventa enigma oscuro o dis/velamento di sapienza, nella simultaneità delle opposizioni, per parafrasare Cusano.

Allora, l’ancestrale impulso che mi sorprende, è quel minaccioso, titanico e, al tempo stesso, umanissimo desiderio di oltrepassamento delle porte della percezione, al di là delle quali, una volta purificate, «tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è: infinito», citando William Blake e il suo meraviglioso Il matrimonio del cielo e dell’inferno.

Allora, so di essere dinanzi ad un pagano rito teatrale. Rito di iniziazione e di s/mascheramento antico, che continuamente si ripete e continuamente ci conduce attraverso quelle stesse porte, le quali  – secondo lo scrittore Aldous Huxley – aperte dalla mescalina, permettono l’accesso a quel magmatico non-luogo, asemantico e sinestetico, dove «Una rosa è una rosa e solo una rosa. Ma queste gambe di sedia sono gambe di sedia e sono anche San Michele e tutti gli angeli». Porte che si spalancano sugli abissi dell’inconscio, con il suo primordiale oceano di pulsioni, desideri, simboli, strutture; le sue psicosi edipiche, i suoi deliri storici e sociali. Specchio deformante nel quale proiettare la propria immagine/gabbia, o dietro il quale sbirciare il proprio dis/alienato. O anche specchio infranto, sulle cui infinite schegge riverberare e smarrire le incalcolabili tessere di un io/puzzle in frantumi. E ancora, lacaniano lavacro linguistico/dialettico, dalle cui acque riemergere immacolati, portati dalle onde fluttuanti della parola e del significante, che ci ri/velano. Ecco cosa può rappresentare la simbolica apertura di un sipario.

Ecco cosa sicuramente ha rappresentato per me, Regina Madre. E quali sconfinamenti immaginari, psichici, emozionali, filosofici, esistenziali, culturali può produrre, quando feconda il seme dell’Arte, un Teatro mai disarcionato dal lunatico, talora bizzarro, cavallo della vita, nel suo molteplice, sbrigliato divenire e manifestarsi: fenomenico o spirituale; politico o privato; intimo o collettivo; familiare o relazionale; soggettivo o interpersonale; psicologico o carnale.

S/confinamenti verso territori senza luce: lontane, disperate e desolate lande della mente, per parafrasare Elliot; smottamenti negli spazi aperti del pensiero logico, ingannevolmente precipitati nelle aporie della loro stessa vastità, si sono quindi generati in chi scrive, tra bruschi trasalimenti e assorte riflessioni, sin dal primo quadro di Regina Madre. Spettacolo che, prodotto da Elledieffe e Teatro Elicantropo, ha aperto l’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival e che si potrà vedere in scena, nel corso della prossima stagione, ancora al Nuovo di Napoli, e al Teatro Eliseo, di Roma.

Dunque, Regina Madre costituisce proprio quel raro esempio di epifania poetica, di hegeliano fenomeno teatrale liminale, di arcaica e inattuale ritualità scenica, capace di condurre, mediante le incontaminate porte di una percezione, costantemente sfuggita e sfuggente sulla scivolosa superficie dell’apparenza, verso un’ipotizzabile comprensione di quegli imperscrutabili significati altri, che non solo connotano la parola – la phonè semantikè di Heidegger e Lacan – ma, con essa, attraversano e plasmano le nostre ingannevoli, fallaci esistenze, e insieme ai quali il nostro dire, il nostro parlare, il nostro linguaggio gioca a nascondino – mi si passi l’azzardo figurato – mettendo la benda sugli occhi alla Verità e riponendo il velo sull’auspicabile conoscenza di noi stessi.

Ci troviamo di fronte, in pratica, con Regina Madre, tanto nel suo scenico divenire Testo spettacolare, quanto nella sua dimensione drammaturgica, creata dalla sottilissima, paradossale, polisemica, polimorfa, persino polifonica scrittura del Santanelli, ad una aletheia dell’Essere (e del linguaggio) nel Tempo e, contiguamente, quasi per conseguenza, ad una parresia dell’Essere nel Nulla.

In altre parole, quel che qui si vuol dire – forzando un tantino i concetti e giocando con due scritti fondamentali che hanno tracciato, in termini antitetici, la storia del pensiero occidentale novecentesco, e con i loro autori: Heidegger e Sartre – è che, nella messinscena in parola, vengono messi in discussione, a partire dalla famiglia, come ordine borghese, i miti del pensiero occidentale: verità, linguaggio, dover essere, legge, unicità del soggetto, razionalità, logos, metafisica.

L’Essere, principio ontologico della filosofia e della società giudaico-cristiana, si manifesta, celandosi e obliandosi – lethe – in tutta la sua contraddittorietà, nel Tempo e nella Storia, ma s/velandosi, ci dice anche l’unica verità possibile, dissolvendosi nella sua nullificazione.

Non ci resta, dunque, che la vita, nel suo procedere dialettico. E due sole possibili vie di fuga dal nulla. La libertà e la Morte. Alfredo, incapace di liberarsi dal giogo del fantasma della madre, e dal suo Desiderio, trova riparo prima nella droga. Poi nella follia. Infine nella Morte. Mentre, dall’alto o dal profondo degli abissi, una dea, dalle sembianze di Diana cacciatrice, sembra gridare beffarda. “Io, la Verità, mento!”

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