Le diagnosi sono influenzate da forze sociali e politiche. Come i paradigmi scientifici analizzati da Kuhn, accumulano dietro e dentro di sé il portato assiologico, linguistico e culturale di una società, o meglio, della prospettiva dominante in una data società. Diagnosticare significa seguire procedure, finalità e criteri per spiegare cause, processi e conseguenze di una data condizione, ma le procedure sono sempre ispirate da convinzioni accettate per ragioni profonde: religiose o ideologiche. L’idea stessa di evidenza scientifica è figlia di una visione del mondo che ha certamente procurato – sui grandi numeri – vantaggi riconoscibili in ogni sfera dell’esistenza umana. Tuttavia oscilla. È soggetta a costanti variazioni, che dipendono dal prevalere o il decadere, all’interno di un quadro sociale, di alcune prospettive.
Tale sensibilità al contesto da parte di chi deve formulare delle diagnosi è ulteriormente amplificata nell’ambito di definizione delle finalità dell’atto diagnostico stesso. Le ricerche di Foucault in primo luogo, gli studi di ispirazione lombrosiana o l’esperienza della cultura medica nazifascista sono in tal senso esempi fin troppo chiari della spontanea attitudine del potere – specialmente in età moderna e contemporanea – a costruire strumenti diagnostici per isolare, escludere o addirittura rimuovere quegli esseri umani che, per motivi variabili, vengono fatti precipitare nella vertigine di un quadro diagnostico che ne ingabbia le ragioni di presunta incompatibilità con la vita associata o con l’omogeneità statuale.
Ne discendono poi i criteri, che assumono il volto del rigore scientifico. Rileggendo le diagnosi di autismo pronunciate dai medici austriaci e tedeschi degli anni Trenta e Quaranta, si può rimanere storditi dall’imprecisione e approssimazione con cui si definiva il quadro clinico – e dunque la possibile eliminazione – di bambini osservati pregiudizialmente e con metodi talmente vaghi da rendere incredibile, con lo sguardo odierno, un simile protocollo scientifico. Ma da quelle procedure e definizioni, ricordiamolo, ci separano solo pochi decenni.
La diagnosi medica, come la valutazione in ambito scolastico, non è soltanto influenzata dal contesto sociale in cui sorge, connessa com’è ai rapporti di potere esistenti, ma a sua volta agisce e gioca un ruolo politico decisivo nel legittimare quel quadro, provocando, suggerendo scelte discriminatorie, se non addirittura persecutorie. Era vero allora come rischia di diventarlo oggi, se non controlliamo la nostra bulimica raccolta di dati ed etichette su alunni e pazienti. Esiste un ruolo attivo e determinante della cultura medico-scientifica nelle dinamiche di sterminio del secolo scorso. E rivolgere a essa uno sguardo attento costituisce per noi un importante passo nel processo di consapevolezza sul nostro tempo, su ciò che il nostro atteggiamento diagnostico assume come finalità, e su come si muove.
Esisteva un punto di contatto stringente tra una parte della comunità scientifica tedesca e internazionale del primo Novecento, formatosi sulla cultura positivista, e la classe dirigente nazista. Ed è l’idea dell’igiene sociale. Dal punto di vista medico, la cultura della profilassi, della quarantena, della separazione degli agenti contaminanti dai soggetti sani, era scivolata velocemente a criterio per la determinazione di misure a tutela della salute pubblica, non solo in Germania. Gli Stati Uniti furono i primi a introdurre poco meno di un secolo fa la sterilizzazione forzata per i soggetti portatori di patologie ereditarie: tra il 1907 e il 1939, ventinove stati americani sterilizzarono oltre trentamila persone. Ma la Germania era probabilmente il paese con la cultura chimico-farmaceutica e medico-scientifica più avanzate di quegli anni, e il sistema politico attribuiva, già prima del nazismo, alle autorità scientifiche l’autorevolezza, se non l’autorità, di discriminare nel tessuto sociale gli elementi deteriori, da isolare o neutralizzare. Nella sola Germania tra il 1934 e il 1945 furono sterilizzati quattrocentomila individui.
Naturalmente – e drammaticamente – le autorità sanitarie non avevano alcuno strumento preciso per discriminare in modo omogeneo e chiaro le categorie di soggetti pericolosi per il Volk da quelli “integrabili”, e lo stesso concetto di rischio era del tutto vago. Questo vuoto fu riempito dalla politica. Fu infatti la sinergia tra l’ideologia razziale nazista e la cultura diagnostica della medicina tedesca a produrre una parte delle peggiori pratiche di sterminio del Novecento. Come osserva Edith Scheffer in un suo recentissimo libro: “la razza era senz’altro il principio organizzatore del regime nazista, ma il termine potrebbe anche suggerire che le classificazioni e i programmi fossero più definiti rispetto alla realtà. L’eliminazione degli indesiderabili procedette infatti per errori e tentativi. Le definizioni erano labili, le politiche incoerenti e variarono in base al tempo, al luogo e agli attori coinvolti” (I bambini di Asperger. La scoperta dell’autismo nella Vienna nazista, Marsilio 2018, p. 17).
Questa sinergia tra autorità sanitarie e partito nazionalsocialista, nella peculiare specificità della cultura tedesca ha facilitato la circostanza per cui è maturata una vera ossessione per la suddivisione ordinata della popolazione in categorie, di tipo razziale, sessuale, biologica e psico-sociale. Ma se per attivare un processo gerarchico di classificazione occorre avere un criterio di riferimento con cui valutare la vicinanza o la distanza al soggetto-tipo, tale criterio era definito nella Germania nazista dal grado di appartenenza e utilità rispetto alla comunità nazionale, nei confronti della quale l’individuo modello non doveva limitarsi a rispettarne le norme, come pure a garantire un buon contributo pratico o intellettuale alla vita dello Stato; si riteneva inoltre necessario un elevato grado di adesione emotiva. Occorreva l’entusiasmo, l’amore per il Volk, l’immedesimazione tra singolo e totalità. Evidentemente, le minoranze etnico-religiose, con le loro identità, serbavano in sé stesse il germe dell’impossibile fusione con la comunità, mai sarebbero state integrabili in senso forte, così come non avrebbero potuto esserlo gli inabili al lavoro, per la loro impossibilità di offrire un contributo funzionale.
La tutela del Volk assumeva anche il profilo della sua perfettibilità, dell’ingegneria medica, che non passava solo attraverso l’esclusione di elementi considerati parassitari o contaminanti, ma pure promuovendo sperimentazioni finalizzate al miglioramento della razza. Non bisogna mai dimenticare come il nazismo abbia saputo far leva anche sulle ambizioni di ricercatori e scienziati, offrendo loro la possibilità di utilizzare cavie umane per le loro ricerche. L’operazione T4, così denominata per via dell’indirizzo in cui era ubicato l’edificio destinato all’eutanasia degli adulti (Tiergartenstrasse, 4 – a Berlino), determinò l’uccisione di più di duecentomila persone. Il corrispettivo padiglione destinato ai ricoverati in età evolutiva, si trovava invece a Vienna, ed era denominato Spiegelgrund. Lì furono eliminati circa ottocento bambini, su un totale di quasi ottomila, tutti uccisi nell’intero programma eutanasia del Reich. L’eliminazione dei bambini era meno frettolosa, ma più importante. Lunghe osservazioni avrebbero infatti determinato il destino di sopravvivenza. In alcuni casi le osservazioni durarono poche settimane. In altre circostanze, anche anni.
Per poter funzionare, questi programmi avevano bisogno di un apparato di personale sanitario accondiscendente molto ampio: “i medici esaminavano personalmente i bambini che condannavano a morte. Le infermiere nutrivano e cambiavano le lenzuola ai bambini che uccidevano. Ne conoscevano nomi, i volti e le personalità” (p. 20). Ma complici consapevoli erano anche gli addetti alla manutenzione e alle pulizie, i custodi, gli impiegati, gli autisti e, occorre dirlo, molti tra i genitori, che spesso insistevano presso tali centri affinché i propri figli, dei quali non si sentivano in grado di seguire la crescita, vi trovassero la morte, ringraziando inoltre i medici per il servizio reso.
Se è vero che ci furono manifestazioni di protesta che posero fine – almeno ufficialmente – all’operazione T4, è altrettanto certo che esisteva un clima culturale e sociale, legittimato dall’autorità sanitaria, che condivideva lo spirito e l’esistenza di tali politiche. Si prenda il caso della Vienna socialista, patria dell’austro-marxismo. Il governo progressista immaginava di poter inaugurare una nuova era nella storia nazionale attraverso un welfare attento alle persone, migliorandone le condizioni di vita, rafforzandole fisicamente e tutelandole da un punto di vista igienico-sanitario. Ma il “sistema-Vienna”, ammirato in tutto il mondo, si basava sull’eugenetica, perseguita quasi ovunque e condivisa dalla destra e dalla sinistra, dai movimenti religiosi come da quelli femministi. Nessuno negherebbe la positività di uno sforzo politico orientato a migliorare le condizioni di vita delle classi sociali più fragili.
Nel decennio 1923-34 furono edificati a Vienna oltre trecento condomini dotati di un sistema idraulico efficiente, di buone cucine e di cortili per far giocare i bambini, con canoni di locazione accessibili. La moltiplicazione delle visite mediche e la costruzione di nuovi ospedali arginarono la diffusione delle malattie. Come negare in ciò un progresso? I nuovi parchi e piscine pubbliche ridussero i casi di rachitismo e debolezza fisica. Eppure, la visione migliorativa di sistema impiegò poco tempo a mutarsi in rimozione di ciò che impedisce a questo grande sforzo di raggiungere i suoi obiettivi. La sterilizzazione coatta dei soggetti portatori di malattie ereditarie, invalidità fisiche o mentali, soggetti devianti e criminali, rientrava già nella Vienna democratica, nel quadro coerente di un welfare di protezione sociale. L’espressione “vite indegne di essere vissute” precede il nazionalsocialismo. Come scrive Edith Scheffer, “la diffusione dell’eugenetica nelle pratiche del welfare nel corso degli anni Venti medicalizzò le ansie della società” (p. 32).
Già in quel contesto si rintracciano elementi di una corsa alla diagnosi precoce. Nei reparti di “pedagogia curativa” viennesi l’idea di selezionare e predisporre i soggetti a un corretto inserimento sociale favoriva l’atteggiamento di individuazione rapida delle possibili attitudini future di un bambino, e le sue capacità o incapacità di contribuire alla vita associata. Nella Vienna democratica, infatti, molti bambini ricevettero la diagnosi di “dissocialità”, e vennero considerate come etichette mediche diciture quali “soggetto con problemi disciplinari”. Ne derivò un atteggiamento ossessivo verso la schedatura diagnostica di molti cittadini, raccogliendo una mole di informazioni che, una volta affermatosi il sistema politico nazista anche in Austria, accelerò e facilitò il ricovero forzato e l’eliminazione fisica degli “indesiderabili”.
Ma siamo in un paradosso. A Vienna proprio quelle istituzioni di servizio sociali che avevano cercato di prendersi cura di bambini socialmente esclusi (orfani, abusati o variamente problematici) si trasformarono con l’avvento del nazismo in istituti di individuazione dei soggetti da eliminare proprio perché esclusi dalla società. Con la rapida conquista di tutte le posizioni chiave da parte dei nazionalsocialisti, in Germania come in Austria, la situazione precipitò, perché l’estrema destra, in tutti i settori, dalla sanità all’istruzione, radicalizzò l’idea di compattezza del Volk. Cercò il più possibile di trasformare in senso comune alcune idee che fino a quel momento erano state parzialmente frenate nel dibattito pubblico. Non solo attraverso la propaganda, ma mobilitando tutte le agenzie educative. Si notino ad esempio alcuni problemi inseriti nei libri per la scuola elementare: “un idiota in un istituto costa quattro Reichsmark al giorno. Quanto costerebbe se dovessimo prenderci cura di lui per 40 anni?”, oppure: “perché sarebbe meglio se questo bambino non fosse mai nato?” (p. 67).
C’erano in Germania alcune gang giovanili, adolescenti ribelli critici nei confronti del nazismo, che amavano la musica americana, fumavano e vivevano in strada, spesso bevendo oltremisura. Considerati dissociati e non integrabili, questi ragazzi furono quasi tutti internati in campi di concentramento per adulti.
La psichiatria nazista si inserì nella tradizione medica esistente senza rivoluzionarla, ma radicalizzandone alcuni aspetti, insistendo sul concetto di Gemüt, inteso come “devozione verso la comunità”, e classificando i bambini in base alla presenza o al difetto di Gemüt, una degenerazione sulla base della quale Asperger arrivò a definire il complesso concetto di psicopatia autistica: una diagnosi-ombrello, come era stata anni prima quella di “isteria” per raccogliere in modo assai impreciso una serie di comportamenti femminili divergenti rispetto alla norma.
Nei documenti raccolti a Vienna possiamo leggere le diagnosi più incredibili, come: “profondamente stupida”, “disturbo del linguaggio”, “ritardata dal punto di vista fisico”, “idiota”, “mongoloide”, “egocentrica, “scarso senso morale”, “assenza di Gemüt”. Questi bambini furono uccisi, e i referti ufficiali attestavano per tutti la stessa causa di morte: “polmonite”, ma tutti loro era stata praticata l’eutanasia. Uno dei più stretti collaboratori di Asperger, il dottor Jekelius, non nascondeva le ragioni del regime, riguardo ai casi di disabilità, da lui ritenute particolarmente gravi: “è una questione di protezione, che, per me, significa proteggere la comunità da queste creature sfortunate. Non c’è più spazio per il sentimentalismo ipocrita. Metteremmo soltanto in pericolo il lavoro della pedagogia curativa, così importante e spesso ancora incompreso, se continuassimo a trascinarci dietro questa zavorra nei nostri istituti speciali” (p. 138). Molti di questi bambini, prima di essere uccisi, furono esposti a terribili sperimentazioni mediche, come quelli sui vaccini contro la tubercolosi, sempre nel quadro di una priorità della protezione del Volk.
Medici, infermieri, dirigenti sanitari, praticavano e ordinavano l’uccisione di bambini cui erano stati approssimativamente diagnosticati “mali incurabili”, perché l’eutanasia era considerata un gesto di responsabilità, faceva parte del protocollo scientifico. Pertanto, non era affatto percepita come un omicidio. Come scrive giustamente Edith Scheffer, “l’obiettivo del Reich di eliminare i bambini indesiderabili rispecchiava la sua ambizione di eliminare i popoli indesiderabili” (p. 225). Non a caso la persecuzione e la deportazione degli ebrei veniva da Goebbels definita come una misura di “profilassi igienica”.
Il grande storico dell’Olocausto, Raul Hilberg, ricorda il ruolo della problematica sanitaria nel processo di ghettizzazione degli ebrei in Europa orientale. Ed è qui particolarmente importante considerare tale aspetto. L’osservazione da parte del personale sanitario dell’elevata trasmissione del tifo nelle comunità ebraiche, per ragioni non definite, esigeva un sistema di quarantena, una serie di iniziative destinate a isolare quelle persone, per prevenire epidemie. I medici tedeschi infatti erano convinti che se il tifo si fosse diffuso tra i tedeschi avrebbe determinato un maggior numero di morti, poiché secondo le loro stime tecniche gli ebrei avevano maturato una maggiore resistenza a quel microrganismo trasmesso dai pidocchi. E siccome la conseguente ghettizzazione, evidentemente destinata a fenomeni di sovraffollamento e denutrizione, produsse poi l’effettiva proliferazione di quei mali, come nella più classica profezia che si auto-avvera, divenne necessario, sempre per ragioni sanitarie, procedere all’eliminazione definitiva di quei soggetti pericolosi e portatori di malattie. Di qui le prime iniziative di fucilazione nei confronti degli ebrei che si fossero allontanati dal ghetto (anche questa era un’indicazione sanitaria), la decisione di far morire di fame gli ebrei, poi l’accelerazione: dalla fucilazione alle camere a gas.
Anche dopo la trasformazione dei campi di concentramento in campi di sterminio, il personale medico assunse un ruolo assai importante, che dà molto da pensare sulla concezione del rapporto tra aspirazioni della ricerca scientifica e rispetto della vita umana. Non parliamo del medioevo, ma di appena settanta anni fa. Iniziarono dunque le sperimentazioni mediche nei campi, su soggetti ovviamente non consenzienti. Le esigenze sperimentali erano le più disparate: dai tentativi di rendere potabile l’acqua di mare alle prove del servizio medico dell’Aeronautica sulle reazioni dell’organismo all’altitudine o sulla rianimazione dopo l’assideramento. Il dottor Dohmen provava a iniettare dei virus estratti da carcasse di animali malati nell’organismo dei deportati per osservarne l’effetto. Ufficialmente i medici o le aziende farmaceutiche chiedevano di poter sperimentare solo su delinquenti recidivi o condannati a morte.
Ma le SS, con il protagonismo di Heinrich Himmler, che nutriva molte aspettative rispetto ai benefici di tali sperimentazioni, sovrapposero il concetto di delinquente a quello di ebreo, e trasformando i lager in luoghi in cui i medici potevano attingere liberamente le proprie cavie umane. Gran parte dell’impegno della comunità scientifica fu concentrato sulla sperimentazione di tecniche più efficaci (economicamente e praticamente) per la sterilizzazione forzata. Il nuovo assetto dell’impero prevedeva infatti lo sfruttamento dei popoli “inferiori” assoggettati e la loro sterilizzazione, affinché si estinguessero definitivamente. Furono ipotizzate pratiche di sterilizzazione maschile con i raggi X e di sterilizzazione chimica per le donne. Himmler suggerì, o in altri casi accolse il suggerimento degli scienziati, di sperimentare queste, come altre pratiche, sui prigionieri ebrei. Si arrivarono così a sterilizzare fino a mille donne in un solo giorno. Il dottor Mengele, com’è noto, concentrava i suoi sforzi nello studio dei fenomeni gemellari, con lo scopo di moltiplicare la razza ariana.
Come spiegare tale fenomeno, come giustificare il ruolo centrale della comunità medica nel processo di sterminio? Secondo Norbert Frei, tale zelo da parte degli scienziati dipese dalla volontà di tutelare gli interessi corporativi della classe medica e in parte anche dall’ambizione professionale di ciascuno, secondo un meccanismo dl tutto analogo a quello riscontrabile nel settore burocratico. Ma non basta, perché prevalessero gli interessi personali, occorreva la presenza di un retroterra culturale (pre-nazista) che consentisse una simile radicalizzazione, tanto da farla diventare per una parte degli uomini di quegli anni un’opzione plausibile e socialmente accettabile. Infatti, aggiunge Frei, si deve tener conto del sistema culturale determinato dal diffuso dibattito sull’eutanasia svoltosi non solo in Germania nei primi anni del Novecento, e dall’accresciuto prestigio internazionale dalle ricerche eugenetiche. Tutto questo si combinò alla perfezione con la pericolosa logica dell’efficienza e della produttività, per innescare un gigantesco sistema di autoassoluzione morale da parte dei medici. L’idea della salute del popolo mutò di fatto il ruolo del personale sanitario, che poneva in secondo piano il concetto della cura del singolo.
La salute era diventata un dovere sociale, circoscritto alla tutela del Volk, e prioritario rispetto a ogni altra considerazione sulla dignità della vita umana.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa