La lettera in cui la “organizzazione socialista rivoluzionaria basca di liberazione nazionale” annuncia il suo scioglimento definitivo è stata pubblicata ieri in anteprima dal quotidiano spagnolo progressista ElDiario, a poche ore dall’evento internazionale previsto a Kanbo, nel Paese Basco sotto amministrazione francese, che domani vedrà la partecipazione non solo di esponenti del mondo politico locale – Arnaldo Otegi, storico leader della sinistra indipendentista, e Andoni Ortuzar, dirigente del Partito Nazionalista Basco – ma anche del leader dello Sinn Fein irlandese Gerry Adams, di Jonathan Powell (ex capo di gabinetto del premier laburista britannico Tony Blair), dell’ex premier irlandese Bertie Ahern.
Accanto a loro – prima un importante media internazionale dovrebbe diffondere il video in cui ETA sintetizza i contenuti della lettera – dovrebbero esserci anche alcuni di quei mediatori internazionali che negli ultimi anni hanno supervisionato il processo di smantellamento degli arsenali dell’organizzazione (culminato con la consegna delle armi e degli esplosivi nell’aprile 2017) seguito alla dichiarazione in cui nel 2011 annunciava la fine delle azioni armate.
L’annuncio di queste ore mette la parola fine, in maniera netta ed inequivocabile, alla storia di un gruppo militare e politico formatosi quasi 60 anni fa, negli anni più bui della dittatura franchista, quando le attività e le teorizzazioni “eretiche” di un gruppo di giovani del Partito Nazionalista Basco clandestino portarono all’espulsione di quelli che poco dopo fondarono “Patria Basca e Libertà”. L’influenza delle rivoluzioni e dei movimenti di liberazione di Cuba, Algeria e Vietnam e poi l’adesione al marxismo hanno reso ETA il motore di un’opposizione al franchismo non solo militare, ma anche sociale, culturale e politica, oltre che il punto di riferimento di una vasta serie di organizzazioni di massa e di un intero pezzo di società che, per decenni, si è riconosciuta nella lotta frontale contro lo Stato e i suoi apparati. Anche quando, dopo la morte del dittatore nel suo letto, di vecchiaia, la controparte divenne la monarchia parlamentare nata dall’autoriforma del regime, legittimata invece dal resto delle ex opposizioni antifasciste.
Dentro ETA sono passati molti dei dirigenti storici dello schieramento politico indipendentista – e anche alcuni di quelli che, dopo il pentimento, hanno guidato le formazioni autonomiste o spagnoliste – ma anche leader sindacali, intellettuali, giornalisti. Protagonista negli anni ’70 e ’80 di numerose scissioni e ricomposizioni, ETA è stata una vera e propria fucina di militanti politici e di protagonisti della scena culturale basca, oltre che lo snodo del cosiddetto Movimento Basco di Liberazione Nazionale.
La lettera datata 16 aprile annuncia la “fine di un ciclo storico e della sua funzione, ponendo fine al suo percorso”. L’organizzazione conferma la dissoluzione di tutte le proprie strutture e la fine della propria iniziativa politica, “portando a termine il processo iniziato nel 2010 con l’intenzione di aprire un nuovo ciclo politico in Euskal Herria” a partire dalla Conferenza di Aiete del 2011. ETA rivendica lo sforzo di aver cercato una fine ordinata, razionale e costruttiva all’epoca dello scontro armato con lo Stato. “Disgraziatamente, la Dichiarazione di Aiete non ha potuto percorrere il cammino stabilito, nonostante concordasse con la volontà della maggioranza dei cittadini baschi”, perché “gli stati francese e spagnolo lo hanno reso impossibile fin dall’inizio. Nonostante tutto, ETA ha deciso di andare avanti. Al di là della Dichiarazione di Aiete e di un ipotetico processo negoziale, Euskal Herria è stato il punto di partenza e l’obiettivo di tutta l’attività” rivendica l’organizzazione, che per questo ha compiuto tutti i passi promessi.
“Nella sua azione più significativa, ETA ha consegnato al popolo le sue armi e ha ceduto nelle mani della società civile la responsabilità del suo disarmo. Il popolo è anche il protagonista fondamentale di questa ultima decisione: perché ETA si è formata dal popolo e torna al popolo. Perché si basa sulla fiducia nella forza del popolo. Soprattutto, perché vuole dare un contributo alla consecuzione della pace e della libertà nel Paese Basco. (…) Questa decisione chiude un ciclo storico di 60 anni di ETA. Non supera, invece, il conflitto che Euskal Herria mantiene con la Spagna e la Francia. Il conflitto non l’ha cominciato l’ETA e non termina con la fine del suo percorso. (…) La mancanza di volontà per dare una soluzione al conflitto, e le opportunità sprecate, hanno provocato un allungamento del conflitto e la moltiplicazione della sofferenza inflitta alle diverse parti. ETA riconosce la sofferenza provocata come conseguenza della sua lotta. Euskal Herria ha ora una nuova opportunità per chiudere definitivamente un ciclo di conflitto e costruire un futuro condiviso. (…) Anni di scontri hanno lasciato ferite profonde e occorre fornire le cure adeguate. Alcune ferite sanguinano ancora, perché la sofferenza non è una cosa del passato.
Attraverso questa lettera, e con tutta l’umiltà, ETA vuole trasmettervi una sua ultima opinione. La soluzione del conflitto e la ricostruzione di Euskal Herria ha bisogno di tutti voi, perché il futuro è responsabilità di tutti.
Noi che siamo stati militanti di ETA, da parte nostra, vogliamo confermare il nostro impegno in questo compito, ognuno dal luogo considerato più opportuno, con la responsabilità e l’onestà di sempre”.
Il messaggio adotta un linguaggio improntato alla riconciliazione e un tono mesto, affatto trionfalistico. Lo stesso utilizzato lo scorso 21 aprile, quando in un’altra missiva ETA ammetteva le sue responsabilità nell’aver causato sofferenze e lutti e chiedeva perdono alle vittime. Di più: ETA chiede scusa a tutti i baschi che hanno dovuto soffrire non solo in conseguenza delle specifiche azioni armate, ma a causa dell’esistenza stessa della lotta armata.
Le due missive – le ultime, quasi sicuramente, dell’organizzazione fondata nel 1959 – non costituiscono certo un’ammissione di sconfitta (che non c’è stata), ma sicuramente trasmettono una sensazione patente di impotenza, riconoscendo che la road map pensata contestualmente alla cessazione delle azioni armate – accordo con lo Stato, riconoscimento reciproco, liberazione dei prigionieri politici, riconoscimento reciproco, riconoscimento da parte di Madrid del diritto all’autodeterminazione del popolo basco, trasformazione dell’organizzazione armata in soggetto politico – è stata completamente disattesa. ETA e la sinistra patriottica, al termine di un lunghissimo braccio di ferro che la lotta armata, nelle intenzioni degli indipendentisti, doveva servire a sbilanciare a favore dei baschi, non hanno portato a casa nessun risultato tangibile. Nessuna trattativa si è aperta e svolta, le uniche novità sono state il frutto di azioni unilaterali da parte dello schieramento basco.
Se poche settimane fa il governo francese ha deciso quantomeno di avviare un avvicinamento dei prigionieri politici baschi verso la loro terra, il governo di Madrid non ha nessuna intenzione di mettere fine alla vendicativa politica della dispersione carceraria. La classe politica spagnola rivendica anzi la “sconfitta del terrorismo” attraverso la mano pesante da sempre adoperata e accusa i militanti dell’organizzazione armata di volersi, attraverso i messaggi di questi giorni, lavarsi la coscienza e le mani delle proprie responsabilità che lo scioglimento, avverte, non cancella.
D’altro canto non solo, come ricorda la stessa ETA, il conflitto nazionale non è superato, ma le cause che condussero alla costituzione del gruppo e alla scelta della lotta armata sono ancora tutte lì, per nulla rimosse.
La parabola dell’organizzazione armata basca non ha riprodotto nulla di lontanamente simile allo scenario irlandese, con il proliferare di organizzazioni armate contrarie al disarmo e di vari gruppi politici dissidenti rispetto allo Sinn Fein ma altrettanto litigiosi tra loro. ETA non ha subito scissioni significative anche se i media spagnoli in queste ore parlano di settori di “irriducibili” non meglio precisati che si sarebbero impossessati di una piccola parte degli arsenali prima della loro consegna ai mediatori internazionali da parte dell’organizzazione.
Non è sulla fine della lotta armata che verte la polemica interna al mondo indipendentista, a parte alcuni settori ultra minoritari. La fine della violenza politica è stata il risultato di un ampio dibattito che ha coinvolto non solo la militanza di ETA ma anche la base sociale e politica del movimento indipendentista. La lotta armata non solo era diventata da tempo inefficace se non materialmente impossibile da condurre (si pensi che gli ultimi commando erano costretti ad operare dal Portogallo e dal Belgio…) e fonte di sofferenze inutili per la stessa società basca, ma era stata trasformata in un argomento di auto-legittimazione da parte delle classi dirigenti del cosiddetto “regime del ‘78”, quello uscito dall’autoriforma del regime franchista.
La polemica dei consistenti settori dissidenti della sinistra abertzale (patriottica), compresi alcuni prigionieri ed ex prigionieri politici, provenienti e non dall’ETA, verte soprattutto sulla liquidazione “del bambino e dell’acqua sporca” da parte della direzione affermatasi dall’inizio dell’attuale decennio. Rimossa la lotta armata, è l’accusa, si è gettata a mare anche la capacità di conflitto, di mobilitazione e di organizzazione che avevano permesso alla sinistra patriottica di resistere a decenni di durissima repressione.
L’accusa è di aver puntato tutto su un impossibile processo di pace abbandonando così il conflitto sociale, sindacale, politico che aveva caratterizzato l’intero Movimento di Liberazione Nazionale. In nome di un processo di pace mai partito ed oggettivamente impossibile da condurre viste le caratteristiche materiali e ideologiche della controparte, la nuova forza politica della sinistra patriottica ha effettivamente virato verso una visione socialdemocratica e istituzionalista, non solo abbandonando ma spesso condannando forme di conflitto che prendevano piede autonomamente o all’interno della sua stessa base a partire da vicende specifiche. Al momento della sua fondazione, e dell’abbandono della lotta armata e della violenza politica, la Sinistra Indipendentista affermò di puntare la propria strategia sulla disobbedienza attiva di massa, in modo da rendere impossibile per lo Stato spagnolo gestire un territorio ribelle che si sarebbe dovuto avviare verso l’autodeterminazione e la costruzione di un quadro sociopolitico avverso al liberismo e alle compatibilità dettate da Madrid e dall’Unione Europea.
Ma tranne che in qualche episodio – i muri popolari contro l’arresto di alcuni giovani militanti – la strategia della disobbedienza di massa non si è mai concretizzata e lasciando il campo alla classica strategia elettoralista di una forza politica che, dopo il boom di voti seguito all’annuncio della fine dell’attività armata da parte di ETA, ha visto una consistente erosione ad opera della costola basca di Podemos. Finché non è scoppiata la rivolta catalana la formazione guidata da Pablo Iglesias ha giocato ambiguamente sul tema dell’autodeterminazione, oltre che sulla rivendicazione di un quadro sociale e di diritti più avanzato, una battaglia tradizionalmente appannaggio di una sinistra abertzale sempre più immobile e conformista. Alla concorrenza a sinistra di Podemos si è sommata la scarsa credibilità del proprio messaggio politico – non più antisistema – e l’impossibilità di prefigurare uno scenario catalano di fronte tra le forze progressiste e di sinistra dello schieramento indipendentista e quelle moderate o di centrodestra. Dopo la fine della lotta armata e la normalizzazione di Sortu, il Partito Nazionalista Basco di Urkullu – il partito autonomista/regionalista che dalla fine del franchismo rappresenta gli interessi della media e grande borghesia basca saldamente integrata in quella spagnola – ha rafforzato i suoi tratti liberisti e conservatori, abbandonando le rivendicazioni ambiguamente indipendentiste a lungo agitate proprio in virtù dell’esistenza di una forza sociale e politica di massa antisistema rappresentata da Herri Batasuna e poi da Batasuna.
Ma oltre alle responsabilità soggettive di un gruppo dirigente indipendentista giovane, scarsamente avvezzo al conflitto e in deficit di quelle capacità analitiche che hanno sempre contraddistinto la sinistra patriottica, non si possono non citare gli innegabili elementi oggettivi.
Dopo molti decenni – c’è chi dice secoli, iniziando a contare dalle guerre carliste del XIX secolo – di lotta frontale, guerre, morti, arresti, torture, esilio, rappresaglie, la fine della lotta armata ha determinato una rapida e profonda trasformazione della società basca. Basti vedere il boom turistico che in pochi anni ha completamente stravolto i centri storici delle città basche, a lungo protetti nel loro carattere popolare e conflittuale dall’esistenza di una contrapposizione frontale, di uno scenario di guerra rimossi i quali milioni di spagnoli hanno cominciato a considerare non più rischioso trascorrere le proprie vacanze sulle spiagge della bellissima Donosti o nei bar dell’altrettanto splendida Pamplona. Il boom turistico – con annessa speculazione – ha creato tante occasioni di lavoro e di guadagno; ma ha anche fatto esplodere una feroce gentrificazione con il suo portato di precarietà, ai quali alcuni settori della sinistra indipendentista – e non solo – hanno cominciato ad opporre la propria mobilitazione.
La privatizzazione della vita sociale che ha coinvolto migliaia di militanti e di simpatizzanti ha svuotato il corpo di una sinistra abertzale che ora deve fare i conti con un consistente fenomeno di spoliticizzazione e di riflusso all’interno della sua stessa base.
Questo non vuol dire che in Euskal Herria sia venuta meno la conflittualità politica e sociale, anzi. Esistono realtà molto combattive ed interessanti, a partire dal movimento femminista passando per alcune realtà giovanili e per l’organizzazione internazionalista Askapena, fino ad arrivare al movimento per l’Amnistia e a quello contro l’occupazione militare spagnola.
Come detto, le cause che portarono alla nascita dell’ETA negli anni più bui del regime franchista sono ancora lì: il Paese Basco è spezzettato (anche più che durante il franchismo) in tre diverse amministrazioni e tra due stati, l’autonomia conquistata dopo la fine del regime franchista è spesso lettera morta ed ostaggio dei nazionalisti spagnoli ulteriormente rafforzati dal sostegno dell’Unione Europea, le diseguaglianze sociali crescono invece di ridursi.
Inoltre, nelle carceri spagnole sono ancora rinchiusi ancora quasi 300 prigionieri politici, molti dei quali condannati a pene tombali che solo un provvedimento di tipo politico – l’amnistia – che Madrid non adotterà mai, potrebbe riconsegnare alle loro famiglie e alle loro comunità.
“Si è chiuso un ciclo storico” ha scritto l’ETA annunciando il suo scioglimento. Da vedere quando e come se ne aprirà un altro e quali forme assumerà la storica lotta del popolo basco per l’autodeterminazione e il socialismo. Il bagaglio di lotte, analisi, progettualità e umanità rappresentato dalla storia della sinistra patriottica è ancora lì, disponibile ad essere ripreso e utilizzato.
Citando il marxista e dirigente di ETA José Miguel Beñaran Ordeñana, detto ‘Argala’, ucciso il 21 dicembre del 1978 da una bomba collocata nella sua auto dagli squadroni della morte al servizio del governo spagnolo, “né ETA né Herri Batasuna (…) né altre organizzazioni, per grandi che possano essere, possono risolvere i problemi della classe lavoratrice basca. Solo il popolo lavoratore basco può risolvere i suoi problemi. Per questo io credo che dobbiamo organizzarci. Solo un popolo organizzato può ottenere gli obiettivi ai quali aspira”.
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roberto
il discorso è molto complesso. Tutttavia ricordo che la regione Basca gode ora di grande autonomia e che a livello economico è molto ricca. Segnalo anche che il fascismo non è superato in Spagna e che la casa reale è colpevole di molte nefandezze a partire dalla collusione col generalissimo Franco. Personalmente la decisione dei vertici dell’Eta mi sembrano adeguati al momento storico.