La parola come lotta. Il verso come pensiero militante. La scrittura come gesto di rivolta. La poesia come atto rivoluzionario.
Esperienza intima di dolore collettivo. Voce primordiale, dentro la quale si impastavano, amare, le ingiustizie subite dagli sfruttati di ogni tempo. Grido che prorompe, improvviso, con la violenza dei torti subiti. Con la furia devastatrice dell’insurrezione di classe. Con l’odio irredento verso il Potere. Con l’ironia ulcerante delle genti miserabili. Con l’amore sacro per i reietti del mondo.
Questo era Giulio Stocchi. Poeta Operaio in un’Italia insorgente. Profeta minimale e antilirico, ironico ed essenziale, di un proletariato che mai, nella Storia, ha potuto urlare in faccia ai signori la sua assoluta Libertà.
È morto l’altroieri, Giulio Stocchi. Majakovskij italiano che portava i suoi versi per strada. Lì, dove la poesia popolare nasce e si nutre. Lì, dove è più visibile l’arrogante dominio del sopruso padronale. Lì, dove le ferite dei diseredati gettano il loro sangue colpito a morte. Lì, dove le bocche affamate cercano il pane: tra gli scarti sprezzanti delle tavole borghesi e le elemosine fetide di cattolica ipocrisia. Lì, dove l’infanzia è violentata tra scheletri di merci e aliti marci di noia.
La strada della sua poesia vagabonda lo condusse tra le macerie della guerra civile in Libano. Tra la disperata solitudine del popolo di Palestina
La cantata rossa per Tall El Zaatar, che Stocchi compose con la collaborazione dell’amico jazzista Gaetano Liguori – esponente di quella canzone politica e di quelle sonorità jazz, che si collocavano, negli anni ’70, nell’area della sinistra più estrema – è un film febbricitante di musica e poesia. Un film distorcente di tormento e di rabbia.
Quel disco, ci racconta la tragedia della guerra civile nel paese dei cedri: e, precisamente, quella del 12 agosto 1976. Il campo palestinese di Tall El Zaatar (la collina del Timo), già duramente provato nel corso della guerra civile, iniziata nel 1974, cadde dopo un assedio durato cinquantatre giorni. E cadde, quel campo, con l’inganno di una tregua non rispettata, per mano dei falangisti libanesi – cristiano maroniti – appoggiati dai siriani dell’alawita Hafez-al-Assad, presidente della Siria e padre di Bashar. Con il pretesto di evacuare donne e bambini, maroniti falangisti e siriani compirono l’infame massacro di migliaia di persone.
La cantata rossa per Tall El Zaatar nasce, dunque, per condannare quella strage di innocenti. Perpetrata, come sempre è stato e sempre sarà, consapevolmente, dietro la spinta del desiderio di potere, della violenza cieca, della paura irrazionale. Sete di dominio dell’uomo sull’uomo. Di una classe su un’altra. Di uno Stato sui suoi cittadini. Di una nazione sulle altre.
La poesia di Stocchi era, all’opposto, un sibilo sonoro contro gli echi fasulli del Potere. Una frustata schioccata sul volto dei padroni. Il ghigno irrisorio di un clochard all’indirizzo del Capitale opulento. Un attentato contro ogni disegno imperiale.
Addio Giulio, compagno poeta. Nella tua poesia semplice ho inzuppato il vino di molte sbronze giovanili. Incazzato e solo.
Dio, per paura, non ama i blasfemi. Il Potere li ignora, per vigliaccheria tremebonda. Noi, li custodiamo gelosi nella nostra memoria. Alla Lotta!
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