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Borghesia. Una riflessione di classe partendo da Lolli

Vecchia piccola borghesia

per piccina che tu sia

non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia

Sei contenta se un ladro muore

se si arresta una puttana

se la parrocchia del Sacro Cuore

acquista una nuova campana

Sei soddisfatta dei danni altrui

ti tieni stretti i denari tuoi

assillata dal gran tormento

che un giorno se li riprenda il vento

E la domenica vestita a festa

con i capi famiglia in testa

ti raduni nelle tue Chiese

in ogni città, in ogni paese

Presti ascolto all’omelia

rinunciando all’osteria

cosi grigia così per bene

ti porti a spasso le tue catene

Vecchia piccola borghesia

per piccina che tu sia

non so dire se fai più rabbia

pena, schifo o malinconia

Godi quando gli anormali

son trattati da criminali

chiuderesti in un manicomio

tutti gli zingari e gli intellettuali

Ami ordine e disciplina

adori la tua Polizia

tranne quando deve indagare

su di un bilancio fallimentare

Sai rubare con discrezione

meschinità e moderazione

alterando bilanci e conti

fatture e bolle di commissione

Sai mentire con cortesia

con cinismo e vigliaccheria

hai fatto dell’ipocrisia

la tua formula di poesia

Vecchia piccola borghesia

Non sopporti chi fa l’amore

più di una volta alla settimana

chi lo fa per più di due ore

chi lo fa in maniera strana

Di disgrazie puoi averne tante

per esempio una figlia artista

oppure un figlio non commerciante

o peggio ancora uno comunista

Sempre pronta a spettegolare

in nome del civile rispetto

sempre lì fissa a scrutare

un orizzonte che si ferma al tetto

Sempre pronta a pestar le mani

a chi arranca dentro a una fossa

sempre pronta a leccar le ossa

al più ricco ed ai suoi cani

Vecchia piccola borghesia

vecchia gente di casa mia

per piccina che tu sia

il vento un giorno

ti spazzerà via

Si tratta, com’è noto, dei magnifici versi di Borghesia, poetica analisi sociale, politica ed esistenziale – in chiave musicale – della vita e della morale borghese, composta nel 1972 da Claudio Lolli. Versi che, andando oltre il semplice piacere estetico e la piena condivisione ideologica del brano in parola, imporrebbero uno sforzo di riflessione, ineludibile e profondo, su uno snodo fondamentale: il complesso rapporto tra borghesia e comunismo.

O, per meglio specificare, sulla percezione della morale e dello spirito borghese, come sulla reale declinazione di quello spirito e di quella morale, nella prassi quotidiana, esistenziale e politica, da parte di noi compagni.

Per chiunque si professi comunista, infatti, l’accusa perentoria di essere borghese brucia più di un ceffone ben assestato dal proprio padre, in età adulta. È una sensazione alquanto sgradevole e foriera di rabbia che, prima o poi, ritengo abbiano sperimentato un po’ tutti.

E ciò per un motivo molto semplice. La morale e il sentimento borghese sono due categorie concettuali, e soprattutto due fattori ineludibili dell’esperienza, personale e collettiva, che chiunque aderisca al marxismo si trova a subire, ad affrontare, a combattere e condannare; negli altri, ma principalmente in sé stesso.

Un confronto e una lotta che vanno sostenuti, senza esclusione di colpi, sulla complessa strada che conduce – o dovrebbe condurre – verso un’ideale società comunista e verso quell’ordine nuovo gramsciano, costruito da e fondato su una futura umanità, le cui soggettività abbiano, finalmente, reciso ogni legame con le precedenti strutture/sovrastrutture borghesi.

Strutture e sovrastrutture appartenenti alle società organizzate secondo quei rapporti di produzione, quelle relazioni sociali, quelle dinamiche psicologiche, quei codici linguistici e quei procedimenti teoretici e gnoseologici tipici della scienza e del pensiero imposto dal dominio di classe del Capitale.

Ecco che, allora, chiunque di noi compagni si senta lanciare addosso l’infamante appellativo di borghese, si affretta a negarne, con impeto non disgiunto da una certa collera, la validità dell’accusa. Riaffermando, con immediato orgoglio, la sua incontestabile appartenenza e la sua innegabile vicinanza alla classe lavoratrice, al proletariato e agli ideali di progresso delle forze produttive e dei ceti subalterni, propri del comunismo. Anche quando si proviene – come il sottoscritto, ad esempio – da famiglie di innegabili origini borghesi.

Ma questa orgogliosa e spesso sfrontata rivendicazione rischia di non bastare. Perché è innegabile che ognuno di noi si porti dentro il seme culturale, religioso, ideologico del contesto e del tempo in cui è nato. Un contesto che rifiutiamo con forza e pervicacia, ma di cui non riusciamo a liberarci del tutto, malgrado il nostro professarci marxisti e comunisti.

E allora, che fare? Allora, probabilmente, basterebbe leggere o rileggere i classici della Letteratura, del Teatro, della riflessione Politica (Marx, Lenin, Mao, Che Guevara, pur con i loro inevitabili ed umanissimi errori) per comprendere una cosa fondamentale.

E cioè che non ci si affranca dall’essere borghese esclusivamente perché si aderisce all’ideale comunista. Non c’è relazione meccanicistica. Non possiamo invertire, arbitrariamente e per un’autoreferenzialità speculativa di comodo, il nesso di causalità. L’aderire, sic et sempliciter, al marxismo, al materialismo storico e dialettico e al comunismo, non fa di noi, automaticamente, dei rivoluzionari.

La nostra essenza borghese, lo spirito borghese dei tempi ce lo portiamo dentro. Pasolini aveva mille volte ragione quando parlava di interclassista omologazione culturale di stampo piccolo-borghese, messa in atto dalla società dei consumi. Anzi, quello spirito, oramai, ci aderisce sempre più come la pelle alle ossa. Vecchia gente di casa mia, scrive, non a caso, Lolli.

Bisogna, perciò, combatterla giorno per giorno, quell’essenza spirituale. Scarnificarla attimo per attimo. Mettersi in crisi. Lottare quotidianamente contro i germi, ben nascosti, della società capitalistica e, dunque, dell’epidermica morale piccolo-borghese, colpevolista e punitiva, ad essa implicita. Metterli sotto la lente del microscopio delle nostre intelligenze critiche. Diventare avversari di noi stessi e delle nostre stesse convinzioni. Sovversivi contro il nostro stesso essere. Fare a pezzi il convenzionalismo e il conformismo, anche nel nostro campo ideologico e d’indagine. Ribaltarne gli assunti. Guardarli da diverse angolazioni e prospettive. Romperne i nessi con le nostre più granitiche certezze. Essere avvocati del diavolo contro la nostra psicologia cristiana e le nostre tendenze religioso-superstiziose. Trovare l’antidoto contro il veleno del Maschilismo, del Protagonismo, del Nazionalismo, del Potere. Scovare dove si annidi il microbo dell’appiattimento intellettuale e della tranquillità culturale.

Fare del materialismo dialettico, insomma, un’arma micidiale, puntata innanzitutto contro le nostre stesse tempie. Operando – mi sia consentito il parafrasare un filosofo come Nietzsche, certamente non marxista – una trasvalutazione intima e sociale di tutti i nostri valori predeterminati.

Quei valori propri della società borghese, liberale, consumistica, individualistica, classista e plasmata su regole, irrimediabilmente e costantemente scolpite in un dogmatismo del pensiero – seppur mascherato da relativismo postmodernista – che ci appare necessario, solo perché rassicurante e consolatario.

Una società e un dogmatismo che rischiano di infettare, con le loro spinte reazionarie e le loro ritornanti involuzioni produttivistiche, imperialistiche, repressive, ordinative, legali e, dunque, culturali, sovrastrutturali e ideologiche, anche le fondamenta dei più avanguardistici esperimenti socialisti e comunisti. Con l’inevitabile e nichilistica ricaduta sulle potenzialità dialettiche del soggetto, umano e politico, incapace, a quel punto, di rimettere in discussione sé stesso e il modello sociale faticosamente costruito.

L’idealismo borghese e il dogmatismo acritico – figli illegittimi della stessa genesi platonica – sono, infatti, sempre in agguato, anche dietro il più apparentemente strenuo assertore dell’analisi scientifica. Ce lo ricordano Geymonat e Zhang Enci. Oltre che Mao, naturalmente.

Un socialismo o un comunismo che mutuino le loro strutture economiche e produttive e la loro sovrastruttura giuridica, statale, ideologica, culturale, artistica, iconografica ed epistemologica, dal modello capitalistico, sono dunque, per quanto detto finora, ineluttabilmente destinati a fallire.

Bisogna scrollarsi di dosso il fardello dei valori e della scienza secolari. Solo allora e solo alla fine, forse, potremo dire di esserci liberati e solo in parte dalle scorie della civiltà borghese.

Bisogna bombardarne le sovrastrutture pensanti ed agenti in noi stessi e polverizzarne i rapporti intersoggettivi e intrasoggettivi. Annientare gli Stati, immanenti e trascendenti. Mentali e fisici. Cancellare noi stessi e rinascere con nuovi organi, come diceva Artaud.

Una volta fatto questo, stremati nel pensiero e nel corpo da una lotta feroce, appassionata e inneggiante alla vita e alla Libertà, allora, forse, ci saremo approssimati ad un’idea compiuta di Comunismo.

Insomma, il nostro status, borghese e di classe, come scrivevo all’inizio, non lo si cancella proclamando la nostra semplice, seppur appassionata adesione agli ideali comunisti. Al contrario, si potrà dirsi comunisti, solo allora, quando avremo spezzato, dentro di noi, il borghese che ci abita e ci pensa. Acquisire coscienza di sé e per sé. Nullificarsi e diventare finalmente liberi, per dirla con Sartre.

Ma è un cammino lungo, tortuoso, impervio e pieno di contraddizioni. Che la prassi lacerante e tremendamente realistica dei fatti – per evocare Lenin – provvederà, incessantemente, a rimettere in discussione.

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