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Cina 1949: la vittoria dell’Assalto al Cielo

Alle tre pomeridiane del primo ottobre del 1949, il Presidente Mao Tse Tung nella capitale Pechino di fronte a trecentomila persone a piazza Tienanmen proclama solennemente la fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Prima della celebre dichiarazione di Mao, viene eseguito il nuovo inno nazionale: “La Marcia dei Volontari” e issata la bandiera rossa con le cinque stelle, 54 armi sparano a salve per 28 volte, simboleggiando i 28 anni di sanguinosa lotta condotta dal Partito Comunista Cinese – fondato a Shangai il luglio del 1921 – per raggiungere l’agognata vittoria.

Una lotta di “lunga durata” che ha avuto 20 milioni di martiri, secondo stime per difetto, che ha resistito e poi soverchiato il sistematico tentativo di annichilire le forze comuniste da parte del vecchio ordine – di cui i “signori della guerra” erano la punta di lancia -, con il concorso delle forze imperialiste occidentali e passata attraverso l’aggressione giapponese, divenuta poi esplicita invasione.

Il Primo Ottobre del 1949 la Cina esce dalla sua “preistoria” di nazione semi-feudale con uno status semi-coloniale, nonostante la Repubblica fosse stata “formalmente” proclamata – ma mai veramente realizzata – con la Rivoluzione del 1911, che aveva posto la fine della dinastia Qing che regnava dal 1644.

Come disse Mao, fu la Rivoluzione Bolscevica a risvegliare i cinesi, nonostante la sua storia recente fosse stata costellata da ribellioni sconfitte come quella dei Taiping, nella prima seconda metà dell’Ottocento, quella dei cosiddetti “boxers” a cavallo tra Otto e Novecento, nonché da numerose rivolte contadine “isolate” schiacciate nel sangue.

Questi sollevamenti, insieme alle forme di banditismo, alimentavano l’immaginario di insubordinazione delle campagne trasmesso oralmente dai lavoratori della terra sottoposti ad un feroce regime feudale, mentre la cultura ufficiale confuciana predicava la rassegnazione e la subordinazione, in cui la sconfitta si tramutava in “vittoria morale”, come ha mirabilmente descritto Lu Hsün in “La vera storia di Ah Q”.

La Rivoluzione Russa del 1917 risvegliò i cinesi, da quel momento la Cina cambiò la sua direzione” disse Mao.

La fondazione del Partito fu la premessa soggettiva. una sintesi politica efficace del movimento reale, in cui poterono convergere differenti profili della società cinese, in grado di rapportarsi con il blocco sociale base del processo rivoluzionario.

Il PCC attraverso la sua esperienza pratica e la messa a bilancio delle sue scelte, oltre a un costante “lavoro d’inchiesta”, poté orientare la propria azione attraversando diverse fasi, accumulando quella forza e quel bagaglio di esperienze in grado di farlo diventare “elemento oggettivo” in grado di cambiare le carte in tavola dei progetti imperialisti per quell’area, e di realizzare anche quelle aspirazioni sinceramente democratiche e modernizzatrici che la Repubblica del 1911 non era stata in grado di raggiungere.

La Rivoluzione Cinese fu una “rottura” con l’ordine bipolare uscito dalla Seconda Guerra Mondiale – un fatto geo-politico epocale -, divenne un faro per tutto il movimento anti-colonialista a venire e contribuì ad arricchire la pratica, la teoria ed il metodo del movimento comunista in maniera decisiva, attualizzando l’indicazione di Lenin secondo cui: “una classe oppressa che non si sforzasse di imparare a servirsi delle armi, meriterebbe semplicemente di essere trattata da schiava”.

Si apriva così una nuova era per la Cina, ed emergevano nuovi compiti per il PCC, che aveva preparato – grazie all’inestimabile contributo teorico e strategico di Mao – le basi per una fase in cui le priorità era “sbarazzarsi” dei retaggi del vecchio regime; annichilire la possibilità di formare delle sacche di resistenza contro-rivoluzionarie da parte dei “signori della guerra”, che controllavano ancora porzioni di territorio; attuare la riforma agraria nei territori in cui non era stata sviluppata durante il processo rivoluzionario e promuovere la cooperazione ed il mutuo appoggio nelle campagne; risolvere le questioni delle “minoranze” etniche come in Tibet; completare il processo di unificazione territoriale e preparare le basi per il progresso industriale futuro e lo sviluppo del socialismo, mantenendo quello “stile” di lavoro che aveva caratterizzato – con l’umiltà e la dedizione – i comunisti durante tutta la lotta rivoluzionaria.

Erano compiti non facili che implicavano la costante mobilitazione popolare, la continua rettifica delle storture del processo e di alcuni “eccessi”, le trasformazioni delle relazioni sociali, il ruolo guida non solo dei dirigenti rivoluzionari, ma di tutti i membri del partito in vari campi e naturalmente il rigore esemplare nel sanzionare coloro che minavano questo progetto.

Le premesse a questi compiti erano stati i bagni di sangue contro il nascente movimento operaio dagli anni ’20 nelle città, il soffocamento delle conquiste contadine nei territori riconquistati dai “signori della guerra”, le inenarrabili sofferenze della “Lunga Marcia” per sfuggire ai piani di annichilimento orchestrati dalla “destra” dei Koumintang, la lotta contro l’imperialismo giapponese (che non aveva niente da invidiare alle atrocità perpetrate dai nazisti), e l’appoggio di tutte le potenze imperialiste alla parte più retriva della società cinese a scapito delle sincere aspirazioni democratiche che per tutta la prima metà del Novecento avevano caratterizzato la società cinese simboleggiate dal lascito politico di Sun Yat-sen, ma non avevano trovato pressoché eco tra le Cancellerie Occidentali.

Le trasformazioni delle tradizioni sociali furono impegno che, insieme ad altre conquiste materiali nella ri-costruzione delle basi materiali per lo sviluppo produttivo e il miglioramento complessivo dell’attività agricola, caratterizzarono la fase post-rivoluzionaria ottenendo dei risultati che hanno cambiato indelebilmente il volto della Cina.

Erano conquiste importanti: dall’abolizione della prostituzione ed il suo sradicamento, alla feroce lotta all’industria della droga “creata” dalla penetrazione delle politiche imperialiste, e frutto delle due “guerre dell’oppio” che resero tra l’altro tossicodipendenti 20 milioni di persone (tra il 4 e il 5 % della popolazione d’allora); dalla riforma del matrimonio – con la contestuale abolizione del concubinaggio e della poligamia – che permise l’emancipazione della donna che era soggetta al dominio feudale, permettendole di acquisire una maggiore autonomia (dal ’49 al ’52 le donne che lavorarono passarono da 600 mila a più di un milione e mezzo!) alla cura della salute e dell’igiene in direzione di una concezione di una moderna medicina popolare; ed alla cancellazione della stigmatizzazione negativa di alcune figure di lavoratori “disprezzate”, che acquisirono pari dignità…

In generale i frutti migliori della rivoluzione erano un “nuovo umanesimo” che rompevano con il vecchio ordine.

Tra i compiti più impegnativi della Cina Popolare, che le permisero di coronare il prestigio conquistato con la Rivoluzione, ci fu la vittoriosa resistenza dell’invasione a guida nord-americana della Corea, che si tramutò in una cocente sconfitta per gli States e, di fatto, fece vedere al mondo come una delle due potenze uscite vittoriose dalla Seconda Guerra Mondiale potesse essere battuta da una nazione appena uscita dal giogo coloniale.

Per dare il senso di ciò che fu la “Guerra di Corea” (1950-53) per la Cina, occorre ricordare che impiegò 300.000 volontari sul campo in aiuto della Corea del Nord, da poco liberatasi dalla dominazione nipponica, con un notevole sforzo sul “fronte interno” della giovane Repubblica, e l’aiuto dell’Unione Sovietica.

Per due anni, le trattative per l’armistizio iniziate nel ’51, si protrassero insieme ai combattimenti…

A voler essere “profeti al contrario”, fu con quella sconfitta che iniziò il declino della potenza nord-americana e il progressivo annullamento del vantaggio strategico statunitense nei confronti della Cina, che ebbe un notevole “balzo in avanti” con i positivi test missilistici e nucleari cinesi della metà degli anni Sessanta.

La guerra civile coreana iniziò il 25 giugno del 1950.

Il 27 dello stesso mese il Presidente Truman ordinò alla Settima Flotta del Pacifico di invadere lo stretto di Taiwan, per prevenire qualsiasi offensiva cinese per la liberazione dell’Isola. Quest’azzardo militare nord-americano non era solo una palese violazione della sovranità e dell’integrità del territorio cinese, minacciando la Repubblica Popolare, ma metteva in discussione il processo di riunificazione cinese in un momento critico.

Gli USA manipolarono poi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottando una risoluzione illegale, portando 16 paesi a formare una “Forza ONU” a guida statunitense per invadere la Corea del Nord. Forza che giunse a Inchon il 15 settembre e raggiunse rapidamente il 38° Parallelo, che attraversò il 7 ottobre, occupando Pyongyang il 19 ottobre e avvicinando poi il fronte in prossimità del fiume Yalu, confine naturale con la Cina.

Gli avvertimenti e gli ammonimenti dei dirigenti cinesi non produssero alcun effetto nei policy makers di Washington, che li ignorarono convinti che la propria superiorità e i rapporti di forza a livello internazionale avrebbero loro permesso di assicurarsi una rapida vittoria.

Ma così non avvenne.

Il 19 ottobre, i primi volontari cinesi attraversarono il fiume Yalu, e il 25 ottobre conquistarono la prima vittoria sul campo, preludio alla Prima Campagna.

Il 10 giugno dell’anno seguente, i volontari cinesi avevano realizzato 5 vittorie, annichilito 230 mila soldati nemici e stabilizzato il fronte sul 38° Parallelo.

Nel Luglio del 1951 iniziarono i colloqui per l’armistizio – dopo la quinta campagna cinese vittoriosa – tenutesi prima a Kaesong e poi a Panmunjon, dopo che gli Stati Uniti si accorsero che cercare di giungere alle acque del fiume Yalu e arrivare ad una vittoria rapida risultavano impossibili, continuando comunque i combattimenti convinti di potere “imporre” le proprie condizioni credendo di arrivare ad punto di vista di forza sul terreno che non venne mai raggiunto.

Gli USA impiegarono un terzo del proprio esercito, un quinto della propria aereonautica, e circa metà della propria marina nella guerra di Corea, senza successo contro la resistenza della Nord Corea, i volontari cinesi e l’appoggio, in una seconda fase, dell’URSS.

Il 27 luglio del 1953 fu firmato l’armistizio – tuttora in vigore – suggellando la vittoria sul campo della Corea del Nord e della Cina.

Come ebbe a dichiarare il generale nord-americano Omar Bradley, il 15 maggio del 1951, riguardo all’estensione della Guerra di Corea alla Cina: “la guerra sbagliata, nel posto sbagliato, al momento sbagliato, contro il nemico sbagliato”.

L’attuale declino dell’egemonia nord-americana nell’Indo-Pacifico, e l’ascesa della Repubblica Popolare a potenza mondiale dovrebbero portarci a riconsiderare la Storia del Novecento in un’altra chiave in cui la “rottura” del ’49 e la vittoria del ’53 assumono una valenza storica ancora più epocale.

Allo stesso tempo “Uno stile di vita semplice e la dura lotta”, come suggerito da Mao, dovrebbero continuare a caratterizzare i comunisti anche nel terzo Millennio.

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1 Commento


  • marco

    grande è la confusione sotto il cielo! la situazione è eccellente!
    lunga vita alla repubblica popolare!

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