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La tratta dei bambini negli sport minori

Anche i lavoratori dello sport sono rimasti a casa senza stipendio. Non parliamo delle super star del calcio e del golf o del tennis. Parliamo degli istruttori di nuoto, dei maestri di arti marziali e di ginnastica artistica o degli istruttori della Federazione Italiana sport Rotellistici – per esempio.

Non ci sono superstar in questi sport, non ci sono divinità da mandare in televisione a perorare la causa. Al loro fianco si sono mossi solo i sindacati – i blogger, gli influencer o gli opinionisti non si sono visti. Nessuna dimostrazione è stata organizzata, nessun blocco, nemmeno un innocente sciopero della fame. Si sono visti i soliti barbosi sindacalisti tradizionali, quegli stessi sindacalisti che anche la sinistra acculturata e dabbene vorrebbe vedere bruciare all’inferno.

Eppure, parliamo di attività che coinvolgono una platea vastissima di cittadini. Nel 2015 l’Istat ha stimato in oltre 20 milioni le persone di tre anni e più che dichiarano di praticare uno o più sport con continuità (24,4%), con un’incidenza sulla popolazione totale del 34,3%.

Togliamoci dalla testa che queste persone siano ragazzotti con pallone nel campetto dell’oratorio. Sono persone di tutte le età, sono pensionati con le vertebre schiacciate o in sovrappeso o col fiato corto, sono giovani con il mal di schiena per le troppe ore passate alla scrivania a riversare nel Big-data fatture e scontrini delle cene dei dirigenti, sono passacarte delle conglomerate, appesantiti da insalate al tonno e panini ingurgitati nei bar e nelle tavole calde delle mezze periferie urbane, sono lavoratori delle catene di montaggio di elettrodomestici incriccati da operazioni reiterate.

La pratica sportiva continuativa, dice l’Istat, cresce nel tempo per entrambi i generi e in tutte le età. Si è passati dal 15,9% del 1995 al 22,4% nel 2010, per raggiungere il 24,5% nel 2015. Gli utenti più attivi si trovano tra i giovani e giovanissimi, con una percentuale del 70,3% nella fascia di età 11-14 anni, percentuale che tende a decrescere con l’età. Insomma, gli utenti della palestre e delle piscine si trovano perlopiù tra i bambini delle elementari e delle medie.

Fra gli sport più praticati, dice l’Istat, ci sono la ginnastica, l’aerobica, il fitness e la cultura fisica, con il 25,2% di sportivi coinvolti, pari a 5 milioni e 97 mila persone. Il calcio attrae il 23% della popolazione, con 4 milioni e 642 mila persone. Mentre gli sport acquatici accalappiano il 21,1% dei consumatori, pari a 4 milioni e 265 mila persone. Il nuoto, dice l’Istat, è lo sport più diffuso tra i bambini fino a 10 anni (43,1%), il calcio tra gli under 35 (33,6%), mentre ginnastica, aerobica, fitness e cultura fisica tra gli adulti fino a 59 anni e sopra i 60 anni (27,4%).

La mia vicina di casa dice che imparare a nuotare è importante – saper nuotare serve. Lei non sa nuotare. Quando era piccola, e andava in riviera, doveva stare sempre sotto l’ombrellone o sulla spiaggia a costruire castelli di sabbia. Non poteva andare in acqua con gli altri bambini, doveva sempre essere accompagnata da un genitore.

Nella nostra cittadina di 26 mila abitanti è stato costruito un centro sportivo nuovo di zecca, con campo da rugby, palestra e, ovviamente, piscina coperta e riscaldata. Si somma all’altro centro sportivo comunale, con campo da calcio regolamentare, campi da tennis indoor e outdoor, eccetera. Possiamo fruire anche di una bellissima pista di skating e di una nuovissima pista di skateboard, messe a disposizione dal comune limitrofo.

Tutte queste strutture, compresa la piscina, sono affidate a organizzazioni private che le gestiscono con personale proprio (pochissimo), personale esterno (di solito per le pulizie) e personale precario (tantissimo) che spesso lavora per un numero ridotto di ore, come per esempio i maestri di nuoto – lo si arguisce anche dalle facce, sempre tristi e rapite dai mille problemi della vita cittadina.

Per diventare maestro di nuoto (allievo istruttore) bisogna seguire un corso di 48 ore di lezioni pratiche e 50 ore di tirocinio pratico presso una Scuola di Nuoto Federale, e sostenere un esame finale. A questo punto, sotto la supervisione di un coordinatore, si può iniziare a insegnare – e a lavorare e guadagnare qualche soldino – ma sempre rimanendo sull’attenti, perché non si tratta di un lavoro vero e proprio, ma di un lavoretto (per qualcuno) o di un modo per arrotondare (per altri).

Resta il fatto, dice la vicina, che imparare a nuotare serve – a cosa serva non si capisce, visto e considerato che l’unico uso pratico che se ne possa fare è appunto nuotare, e che nuotare, a meno che non si voglia andare per mare da Genova a Palermo, serve solo a nuotare – è fine a se stesso.

Tutte le attività che hanno il fine in se stesse sono libere – direbbe il filosofo. Il gioco (lo sport) non avendo altro fine se non il gioco stesso rientra di diritto nelle attività sommamente libere, auto-poietiche – sovrane, direbbe il politologo. È proprio in virtù di questa sovranità che i poeti moderni e patibolari hanno visto nello sport un’attività da cantare.

Mentre altri, per esempio Pasolini (Intervista, Europeo 1970), vi hanno visto l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Nel fondo, disse Pasolini, il calcio è rito, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.

È del tutto evidente che quando lo sport viene ricondotto a un qualsiasi fine (salutismo, bellezza fisica, rituale, divertimento del pubblico, intorto, mercato, eccetera) perde la sua indipendenza e libertà – la sua giocosità. Diventa un mezzo per raggiungere altri fini, fini che gli rimangono estranei, esterni.

Se negli anni docili della Democrazia Cristiana il pensatore radicale e pantofolaio ha potuto giudicare lo sport moderno come un’attività massimamente alienata, ciò è stato possibile perché, secondo lui, lo sport era stato asservito ad altre attività mondane.

Asservimento che si consolidò quando il presidente Kennedy, nei suoi appelli alla nazione, iniziò a lodare costantemente i benefici della forma fisica. Appelli ai quale aderì anche il blocco real-socialista, convinto che lo sport potesse essere il mezzo giusto per avvicinare il proletario al partito.

Per il Movimento ludico, ispirato da Huizinga, la società industriale aveva estirpato l’aspetto ludico da ogni attività culturale. La razionalizzazione di ogni ambito della vita non aveva lasciato spazio all’estro dell’inventiva o alla propensione ad affidarsi al caso.

Il rischio, l’audacia, l’incertezza – componenti fondamentali del gioco – non trovavano posto nell’industria o nelle attività dominate dagli standard industriali. Attività che non si fermavano alla standardizzazione, ma che cercavano con ogni mezzo, anche meccanico, di predire il futuro, eliminando ogni possibilità di rischio, di alea, e, appunto, di gioco.

Il gioco, come l’attività industriale, era diventato produzione per un consumatore – per il pubblico – asservimento della forza fisica ad un fine estraneo. Lavoro mercenario rivolto al tifoso consumatore.

Secondo Christopher Lasch (La cultura del narcisismo) era stata proprio l’industrializzazione dello sport ad aver creato, come suo giusto contrappeso, il Critico Radicale, convinto sostenitore di un ritorno ad una dimensione sovranista dello sport.

La critica radicale, dice Lasch, svuotando lo sport di ogni suo elemento simbolico, e dunque di ogni rimando ad altro all’infuori di sé – tipo il suolo, la patria, il campanile, la città e la nazione – permise il dilagare di quella transumanza degli atleti che portò a quelle squadre modulari e multinazionali e a quelle star frizzanti capaci di indossare qualsiasi maglia – purché pagate bene.

In più, lo stesso industrialismo aveva tratto grande beneficio introducendo nei suo processi elementi del gioco sovranista, come ad esempio il Brainstorming, l’Aperitivo aziendale, il Build it with a brick, il Carton Boat (€ 50 + iva a dipendente), il Masterchef in azienda, il Secret Santa.

Rimane da chiarire in cosa consista l’aspetto religioso del pallone, facendo attenzione a non subire la lusinga di quell’hegelismo di ritorno che vede in ogni rivolgimento della storia una croce da portare in collo sino alla casella base, manco fossimo nel baseball.

In ogni caso, vittime della degradazione (vera o presunta) dello sport sono proprio i bambini, tratti dalle loro faccende fanciullesche, e condotti negli stabilimenti balneari urbani, assoggettati a una disciplina eterogenea capace di imprimere nelle loro testoline innocenti la tecnica necessaria per andare avanti e indietro in una vaschetta lunga dieci metri – senza pubblico che li osanni, senza competizione, senza sfoggio fisico, senza prodezze e patemi, senza vittorie e sconfitte, senza regole, senza falli, senza arbitro, senza meta, soprattutto, senza tifo – senza quella religiosità che i patibolari (tifosi e giocatori) amano dello sport.

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