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Il teatro? Pizza, panini e birra…

Sabato sera. Va in onda l’indigeribile insalata teatrale allestita dalla Rai 3 filogovernativa, i cui programmi culturali sono, evidentemente, coordinati dalla cabina di regia insediata al Mibact.

La mission della quale – con il Ministro Franceschini in testa – sembrerebbe, ormai da tempo, essere quella di azzerare non solo il pur considerevole patrimonio teatrale e culturale di questo paese, ma di annichilirne la coscienza e il pensiero critico. Trasformando, il paese stesso, in un immenso discount per merce artisticamente avariata.

“Ricomincio da Raitre”, questo il titolo del programma diretto dal borioso Stefano Massini che, tra retorica e cliché, pretenderebbe di restituire dignità al Teatro, mettendo insieme Valentina Ludovini e Glauco Mauri, Alessio Boni e Luca e Paolo, fino a Marco Paolini.

Tutto e il suo contrario, dove l’unico collante è la famagiustamente o no conquistata dal nome dei protagonisti nel corso della carriera.

Purtuttavia, dopo questo scempio, domenica mattina mi è toccato leggere Repubblica Napoli. E per la precisione, l’articolo del collega Alessandro Toppi.

Un articolo in cui – con sprezzo di ogni pudore e di ogni senso del ridicolo, che attenga non voglio dire alla cultura e al teatro quale forma di espressione artistica, ma al lavoro in quanto tale e quale pilastro costituzionale, piaccia o no, di questa Repubblica, che sul lavoro sarebbe fondata – ci viene raccontato, altresì con incomprensibile entusiasmo fanciullesco, di un nuovo format teatrale.

Format grazie al quale lo spettacolo subirebbe una vera e propria mutazione genetica di carattere alimentare, prevedendosi una consegna a domicilio, con tanto di attrice/attore rider ad eseguirla.

Trasecolo, salto dalla sedia e il mio iniziale stupore trasfigura immediatamente in rabbia. Nei tanti anni – dico tra me – in cui mi sono occupato di cultura in senso ampio, ne ho sentite di tutti i colori. Ma il teatro a consegna, il teatro da asporto, con gli attori che si trasformano in rider, mi mancava.

Siamo dunque ben oltre – o sotto – l’allegoria del teatro gastronomico creata da Brecht. Qui l’arte scenica e la cultura investono davvero il concetto del cibo. Pizza panini e birra!

E quel che è peggio, con una coincidenza di ruoli lavorativi, come vedremo, che rischia di diventare un azzardo sui tempi lunghi.

Perché, se è vero che l’attrice/attore indossa i panni e interpreta un/una rider, è anche vero che si reca effettivamente a domicilio a recapitare lo spettacolo. Come fosse una cena, avvenendo le consegne dalle 19:00 alle 22:00.

Attenzione quindi, non si recita semplicemente un ruolo. Si crea, a nostro seppur modesto parere, una vera e propria interferenza e confusione tra figure. Che non è il romantico confondersi tra vita e arte. Ma una distorsiva sovrapposizione tra soggetti economici, precari e a bassa produttività di reddito.

Anomalo e rischioso, considerando il dogma della flessibilità che domina il mercato del lavoro. E soprattutto, considerato il totale caos normativo che affligge le arti della scena, in termini di profili professionali e disciplina giuridica dei contratti. Caos che perseguita anche l’universo dei riders.

In un simile mare, ci permettiamo quindi di suggerire, la deriva è un’ipotesi che non può non essere valutata.

A confronto, Il Netflix della cultura risulta essere l’iniziativa di un sovrano illuminato. Col delivery theater, infatti, si giunge all’elemosina volontaristica.

Un dispositivo che potrebbe anche essere adottato in futuro, invariabilmente, da impresari e ministri del Mibact senza scrupoli.

E non mi si venga a raccontare, ammantando il tutto con una scrittura tra il patetico e il piagnucoloso, che si tratta di un atto di resistenza culturale e di resilienza teatrale. Questa è mistificazione!

Perché, in realtà, si sta mortificando la figura professionale dell’attore e banalizzando il lavoro del rider. Del quale si pretenderebbe di sostenere, a quanto è dato capire, anche una difesa drammaturgica pseudo-sindacale, nel corso della performance casalinga.

E come no! A domicilio e in una dimensione privata, non collettiva.

Ma soprattutto, nel segno della più spietata e umiliante spettacolarizzazione ludica della merce. Umana e lavorativa.

Una frattura e una torsione gravissime in tempi di crisi così violenta.

D’altro canto, come abbiamo imparato in questi anni, tutto è possibile nel fantastico mondo del Capitale a trazione neoliberista.

L’iniziativa dunque – il format per essere più chiari – a nostro parere è da ritenersi una vera e propria idiozia. Pericolosissima sul piano del lavoro, scandalosa su quello più specificamente teatrale, e quanto meno umiliante su quello sociale.

Si chiama “Consegne” – creato dalla compagnia bolognese Kepler-452 e ripreso a Napoli dal collettivo LunAzione – e prevede uno spettacolo in live streaming che un attore/attrice – come accennato – nei panni di rider teatrale, consegna a domicilio, dopo un iniziale collegamento sulla piattaforma Zoom.

Spettacolo incentrato prevalentemente sui problemi lavorativi dei rider, di cui si stanno vestendo, quasi proditoriamente oserei dire, i panni; e il cui costo – che il cliente pagherebbe alla “consegna” – dovrebbe aggirarsi intorno alle 15€.

Insomma, ribadiamo il concetto della metamorfosi ovidiana dello spettacolo in merce gastronomica. Pizza Panini e Birra.

Ma quello che più ci preoccupa, a differenza dell’apologetico giornalista di Repubblica Napoli, è la paradossale e caotica sovrapposizione di competenze e “ruoli” lavorativi, che squadernano interrogativi non da poco. Se non lo si comprende è grave!

Un miscuglio mortificante di elemosina lussuosa e cortigianeria pauperistica, di mecenatismo prêt-à-porter e di adattamento a qualunque condizione pur di sopravvivere – con buona pace di decenni di lotte per i diritti dei lavoratori – i cui rischi sono imprevedibili. Tanto per il Teatro e gli attori, quanto per i riders.

I primi – lavoratori dello spettacolo – costituiscono infatti la categoria, in questo momento delicato, forse maggiormente colpita e sotto attacco concentrico, considerando un settore completamente deregolamentato, l’assenza del riconoscimento delle figure professionali, l’inadeguatezza dei sindacati, le paghe non rispettate, il nero, i fitti degli spazi, un CCNL da sempre disatteso, il Covid e i vari Netflix e Chili.

Piattaforme lussureggianti, il cui scopo parrebbe quello di cancellare culture territoriali, tradizioni, sperimentazioni, ricerche; per accedere ad un’omologazione dei linguaggi e, in definitiva, ad un teatro di “classe”, con taglio orizzontale dei lavoratori stessi.

I quali, da una formula come quella del delivery teather, altrettanto deregolamentata e priva di un qualunque quadro normativo chiaro, non si comprende cosa abbiano da guadagnare, se non tutto da perdere.

Mentre i riders, dal canto loro, il cui durissimo e usurante lavoro è mal pagato da sempre, correrebbero il pericolo, secondo noi, di una semplificazione in tema di diritti.

E intendiamoci, non perché sia il teatro ad occuparsene, dato che il suo compito sarebbe proprio quello di farsi doppio e riflesso della società, incidendo culturalmente e politicamente nella coscienza di un paese. Ma per le modalità.

Una requisitoria domestica, privata, seppur appassionata e in buona fede, anche espressa con leggerezza e ironia, sull’uscio di case o sui portoni di palazzi evidentemente benestantiche uno spettacolo di questo tipo possono permetterselo, pur in tempi di tregenda acquisterebbe il sapore di un inutile, scolorito e momentaneo svago borghese.

Che finirebbe per relegare in un angolo remoto del cervello qualunque seria riflessione sul cupo destino lavorativo dei riders e degli attori stessi. Una performance postmodernista di scarso valore artistico e sociale. Un evento mordi e fuggi!

Per non trascurare altrettanto serie questioni. I protocolli di sicurezza igienica – distanziamenti, mascherine, pulizia delle mani -, chi li farebbe rispettare in un simile contesto? Non è altamente rischiosa una formula siffatta, in un’Italia che conta centinaia di morti al giorno?

Non siamo dei fanatici del rigore claustrale e securitario, tutt’altro. Ma da esseri razionali non possiamo fare a meno di chiederci se una simile iniziativa non potrebbe essere percepita, dalla collettività, come la superficiale smania di protagonismo da parte di una categoria che pensa a fare spettacolo purché sia, addirittura a domicilio, nonostante il dramma che attanaglia il Paese.

Finendo così per danneggiare proprio quel teatro e quegli attori cui si vorrebbe dare un po’ di respiro.

Chi garantirebbe, inoltre, la sicurezza del pagamento? Esiste un contratto? Non è dato saperlo…

Al tirar delle somme, dunque, un errore madornale in tutti i sensi. Teatrali, lavorativi, sindacali.

Per tacere del fatto che ci si potrebbe aspettare – considerando il neoliberismo imperante e il suo relativismo morale – che un imprenditore della ristorazione a domicilio, possa, un bel giorno, chiedere ai riders di recitare i Sonetti di Shakespeare o il Calapranzi di Pinter (più in tema) ad ogni consegna.

In definitiva, in questo modo non si fa altro che omaggiare e celebrare inconsapevolmente il dogma della flessibilità, che ha polverizzato ogni diritto del lavoratore, dipendente ed autonomo.

Gli attori sono stati le prime vittime di questa macelleria sociale. Ma invece di lottare seriamente, di esigere il rispetto della propria dignità professionale, finiscono troppo spesso con l’ inchinarsi al sistema che li vuole, oramai, lavoranti a cottimo, sottopagati, e genuflessi alla volontà di una governance che, in pratica, chiede loro di auto-precarizzarsi e di procacciarsi una scrittura porta a porta. Mortificante è un eufemismo.

Saranno loro, difatti, a pagare sulla propria già ulcerata pelle, i disastri e i prezzi più alti di questa sciagurata e criminale gestione della pandemia.

Ma nel contemporaneo inattuale dell’eterno presente, si inneggia al Teatro da asporto. D’altronde, si viaggia con il motorino in stile Liberty, come scrive il giornalista di Repubblica. Una figata fashion, in fin dei conti. Con tanti saluti alla fatica reale di riders e attori.

È l‘ennesima balza di un girone infernale chiamato cultura. Un abisso di mediocrità, di estemporaneità e di improvvisazione, condita con una buona dose di ingenuità e, non di rado, di malafede giornalistica.

Un abisso di cui si fatica a vedere il fondo!

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