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Regresso musicale, nell’era digitale

Ho avuto la fortuna, essendo classe ‘60, di aver vissuto un epoca in cui anche chi faceva musica non commerciale guadagnava con i dischi.

La mia media era di 15.000/20.000 copie vendute ad album, per musica autoprodotta e senza nessuna ambizione popolare, commerciale, lenitiva. Non è che Te recuerdo Amanda, Victor Jara o Matteo Salvatore erano propriamente i La Bionda o Umberto Tozzi, e manco Vasco Rossi. Eppure a 2€ a copia, per difetto, fatevi voi i calcoli.

Guadagnavo l’equivalente di un buon avvocato o chirurgo di fama nazionale, se non europea. Forse no, loro avrebbero guadagnato di più… ma io, da figlio di gente comune, per non dire povera, a 45 anni poi ho comprato casa. E non è poco per chi viene da sotto.

Quando è uscito E-mule e le varie piattaforme P2P, sono stato tra i pochi musicisti a difendere, in interviste e sul mio blog, pubblicamente lo scambio di files musicali. Per me non era altro che come scambiarsi cd privatamente, mi presti quel disco?

Nessuno ci lucrava, e la musica girava.

Ma poi è arrivato Steve Jobs, l’idolo della “sinistra 2.0”, ed è arrivata la ricotta.

I magnaccia della musica.

Con lo streaming è arrivato lo stesso rapporto padrone/operaio che c’è in fabbrica: loro con i milioni e l’artista con i centesimi. E chi fa musica oggi è costretto a questo esercizio deprimente di rincorrere le visualizzazioni, la presenza social, le strunzate varie, per accalappiare un pubblico di “giovani” che in definitiva di musica capisce sempre meno.

Perché ne capisce sempre meno? E ve lo spiego. Sapete qual’è l’ascolto medio di un brano su Spotify o su altre piattaforme? 18”. Diciotto secondi.

Siamo passati dal 1824, da Beethoven che dilata i tempi di una sinfonia fino a 74 minuti, più di un ora richiesta di attenzione ai 18 secondi del 2020.

E non ho portato l’esempio di Beethoven a caso: il presidente della Sony volle che la durata del Compact Disk fosse 74’, il tempo necessario a contenere una nona di Beethoven, che prima di allora era sempre stata divisa in 2 o 3 vinili.

Invece ora, 2020, abbiamo i 18 secondi e quelli che “il vinile è molto più caldo e avvolgente”.

O progresso? More ‘o fesso.

E comunque, in questa situazione del kaz, io, come un operaio anarchico che lavora in Fiat, devo chiedere a chi apprezza il mio lavoro di ascoltarmi anche su Spotify o Apple Music, perché l’alternativa è non produrre più nient’altro. Il silenzio totale.

Il completo annientamento.

E quindi aggiungetevi come follower, mi date l’opportunità di continuare a proporvi musica.

Ma resta un fatto: non è progresso, è regresso.

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1 Commento


  • marco p38punk

    per esperienza diretta mi associo a daniele.
    purtroppo è l’amara verità.
    oggi andarci in pareggio è già un lusso. un surplus è antascienza.
    Certo lo si fa soprattutto per passione. ma almeno si dovrebbe cominciare ad educare, o rieducare all’ascolto.
    anche critico, perchè no?
    purchè non sia un ascolto da fast food.

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