Trieste, 8 ottobre 1966: in seguito alle decisioni del piano CIPE (Commissione Interministeriale per la Programmazione Economica) di “razionalizzazione” della cantieristica (in sintesi si trattava di incorporare i Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste e Monfalcone in una società navale unica, con sede a Genova: cosa che di fatto avrebbe comportato la chiusura dei Cantieri ed il ridimensionamento dell’Arsenale San Marco, a fronte di promesse di altre iniziative industriali che rimanevano sul vago – e non ebbero realizzazione concreta) i lavoratori scesero in piazza in una protesta di massa.
Già nei mesi precedenti (la riforma era stata annunciata a fine giugno) si erano svolte manifestazioni di protesta (scioperi e cortei di notevole entità), alcune delle quali degenerate in tafferugli e sassaiole, ma senza incidenti gravi (definite però dal giornalista Luciano Santin “prove generali” della giornata dell’8 ottobre).
Le forze politiche di governo, tranne il Partito Repubblicano, erano state unanimemente concordi nel valutare positivamente questa riforma, alla quale invece si erano opposti i partiti della sinistra ed i sindacati CGIL e UIL, mentre la CISL (legata alla DC) si era mantenuta su una fase interlocutoria ed attendista.
Ma si mobilitarono contro questa decisione dell’IRI anche gli esponenti della buona borghesia triestina (che spesso coincide con la massoneria locale) e che erano rappresentati dal quotidiano locale Il Piccolo (all’epoca diretto da Chino Alessi), che aveva lanciato il 22 giugno un editoriale di fuoco dal titolo “Cancellati dal mare”, che aveva contribuito ad infiammare gli animi (nella foto sotto la sede del Piccolo con gli striscioni di protesta).
Presero posizione contro il piano CIPE, oltre a svariati dirigenti industriali (compresi gli amministratori delle Assicurazioni Generali), anche i governatori del Rotary e del Lion’s; esponenti della cultura e dello sport, dal rettore Agostino Origone all’olimpionico di vela Mauro Pelaschiar.
Tra gli esponenti della scena politica troviamo il sindaco democristiano Mario Franzil ed il vescovo Antonio Santin; ma aggiungiamo poi due ex dirigenti del CLN nazionalista giuliano, il poeta Biagio Marin (liberale) e l’ex sindaco della città negli anni ’50, il democristiano Gianni Bartoli, che all’epoca era anche amministratore del Lloyd Triestino di navigazione, nonché esponente delle associazioni degli esuli istriani.
Il 5 ottobre, in concomitanza con uno sciopero indetto dai navalmeccanici e la presenza in città del ministro Scaglia, il corteo si fermò sotto la sede del Piccolo, fatta oggetto di una sassaiola; poi si spostò in via Pascoli dove il ministro doveva inaugurare un collegio e vi furono poi tafferugli con la polizia.
In questa escalation di tensione, il 7 ottobre il CIPE emanò un altro comunicato, che fu pubblicato dal Piccolo in toni trionfalistici, sostenendo che Trieste era stata “designata sede centrale dell’industria cantieristica di Stato”; nel frattempo il presidente della Regione FVG Alfredo Berzanti, il sindaco Franzil, i dirigenti dei partiti di governo (tranne il Partito Repubblicano) rilasciavano alla stampa sperticate dichiarazioni di elogio del piano di ristrutturazione, parlando di “vittoria del centrosinistra”.
Più cauto il vescovo Santin, che dichiarò “dal nostro san Marco non scenderanno più le grandi e belle navi che ha costruito finora”.
A questo punto i sindacati CGIL e UIL ed il PCI indicevano per la mattina dell’8 ottobre una nuova manifestazione operaia, che vide la presenza di migliaia di persone (settemila secondo l’Unità di quei giorni, tremila scrive Luciano Santin nell’articolo citato).
E sull’organo del PCI leggiamo inoltre che in concomitanza con “l’ordine di scuderia” dato alla stampa di presentare i provvedimenti come un “grande successo per l’economia triestina”, si realizzava anche un “concentramento impressionante di forze di polizia”, comprendente il Secondo reparto celere di Padova ed i Nuclei mobili dei Carabinieri di Gorizia e di Udine (l’Unità, 9/10/66).
La mattina dell’8 ottobre i manifestanti percorsero la città fermandosi sotto la sede RAI, poi in piazza Unità davanti al Municipio, in piazza Goldoni (sede del Piccolo e del PSI) ed infine in piazza San Giovanni dove avevano sede la DC ed il PSDI. E sarebbe stato proprio in questa piazza che avrebbero avuto luogo i primi scontri con le forze dell’ordine, secondo l’Unità, mentre Luciano Santin scrive che gli scontri sarebbero iniziati in piazza Goldoni e poi spostatisi nella zona di Largo Barriera Vecchia.
La zona visse ore di guerra civile. I manifestanti fronteggiarono i lacrimogeni di polizia e carabinieri con fitte sassaiole; furono innalzate barricate utilizzando anche filobus messi di traverso; il vicino rione operaio di San Giacomo rimase isolato a lungo (e qualche manifestante diede l’assalto anche alla rionale sede delle ACLI, devastandola), finché a tarda sera, dopo l’arrivo di rinforzi dal Veneto, l’ “ordine” fu ristabilito, a prezzo di un’ottantina di feriti e di quattrocento arrestati tra i manifestanti, ed una ventina di feriti tra la polizia.
Il 10 ottobre l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani rispose alle interrogazioni presentate alla Camera dei deputati, che concernevano non solo gli scontri svoltisi a Trieste l’8 ma anche quelli avvenuti a Genova il 5, sostenendo che non si era trattato di “violenze di polizia”, ma di “violenze di dimostranti, spesso di elementi che con il mondo operaio e sindacale ben poco hanno in comune (…) violenze gravi, gravissime, che la polizia ha prima contenuto e poi represso compiendo il suo dovere al servizio dell’ordine democratico”.
Aggiunse che a Genova le violenze erano state provocate da una quarantina di “facinorosi (…) che saltano fuori, indipendentemente da ogni orientamento politico, quando si offrono occasioni di disordine”, e nel caso, “l’occasione” era stata offerta da “gruppi di estremisti comunisti”, cioè i “marxisti–leninisti” con sede nel capoluogo ligure.
Taviani fece anche un’affermazione piuttosto grave, e cioè che gli altri “agitatori”
responsabili degli scontri “vengono da molto più lontano, passando magari da qualche Paese vicino o confinante per terra oppure per mare, al di là dell’Adriatico” (Jugoslavia o Albania, quindi).
Tale affermazione verrà ribadita anche per gli scontri di Trieste, per i quali il ministro dapprima accusò il PCI di avere “fatto affiggere nella notte manifesti in cui si invitava le masse ad insorgere compatte contro le decisioni governative, presentate in una maniera parziale e tendenziosa”, parlando poi di un “doppio metodo del Partito comunista italiano”, causato dalle sue “contraddizioni interne” che vedevano da una parte la “linea dell’ultimo congresso del partito comunista sovietico e dall’altra parte la linea del cosiddetto antirevisionismo”.
Infine il ministro si lasciò andare ad un calo di stile poco degno della carica da lui rivestita, gridando ai deputati comunisti che protestavano: “vi brucia! Non c’eravate abituati!”, aggiungendo nuovamente che gli agitatori “vengono da molto lontano, passando forse da qualche Paese vicino sul mare”.
Taviani infine smentì le affermazioni dell’Unità in merito al concentramento di polizia dal 7 ottobre, dichiarando che i rinforzi furono mandati a Trieste dopo l’inizio degli scontri, ribadendo che l’intervento delle forze dell’ordine aveva impedito violenze ancora più gravi.
La rivolta di Trieste non servì a salvare i cantieri, ma il mese dopo fu nominato sindaco un altro democristiano (anch’egli ex esponente del CLN giuliano), Marcello Spaccini. Il preannunciato sviluppo industriale che avrebbe non solo assorbito le maestranze dei Cantieri ma anche rilanciato l’economia cittadina, si concretizzò nella sola realizzazione dello stabilimento Grandi Motori Trieste, che causò innanzitutto un lungo contenzioso per l’esproprio dei terreni agricoli nel comune di Dolina – San Dorligo (a scapito di appartenenti alla comunità slovena, che già negli anni avevano subito svariate espropriazioni per la costruzione di insediamenti abitativi a favore degli esuli giuliano–dalmati) e non portò però quello sviluppo occupazionale che era stato annunciato trionfalmente al momento degli scontri in città (ricordiamo che negli anni successivi la maggior parte degli stabilimenti industriali triestini chiusero i battenti, lasciando in strada centinaia di lavoratori, e ben recitava uno striscione sindacale “Zona industriale cimitero di fabbriche”.
Questi sono i fatti. Però ora andiamo a vedere anche gli ante–fatti, cose che sono state rese note nei primi anni ’90 dopo la rivelazione dell’esistenza della struttura Gladio.
Tra le varie “attività addestrative” della Gladio è di dominio pubblico la cosiddetta “Operazione Delfino”, che si sarebbe svolta tra “Trieste, Monfalcone e Muggia, dal 15 al 24 aprile 1966”: quindi due mesi prima dell’annuncio di accorpamento della cantieristica giuliana.
In rete sono disponibili due diversi testi di descrizione dell’Operazione Delfino: il primo è quello reso noto da Roberto Cicciomessere (deputato missino nella XI legislatura tra il 1992 ed il 1994), pubblicato nel 1992 tramite la pagina di Agorà ed oggi reperibile a questo indirizzo web: http://www.misteriditalia.it/servizisegreti/gladio/delfino/Gladio(OperazioneDelfino).pdf.
Il secondo dovrebbe essere un testo redatto da Luigi Cipriani (deputato nella XI legislatura nonché membro della Commissione stragi, deceduto nel settembre 1992) ed è reperibile nella pagina della fondazione che è a lui intitolata: http://www.fondazionecipriani.it/Scritti/appunti.html.
Il secondo testo sembra un riassunto rielaborato del primo (ad esempio nel primo leggiamo la più volte stigmatizzata definizione di “manifestazione velica del 1° maggio”, che in realtà era un traslamento scorretto delle parole slovene “velika manifestacja”, cioè grande manifestazione, termine usato dagli sloveni per il corteo del 1° maggio: questo punto non compare nel secondo documento), però riporta dati di protocollo (Uff. R. sez. Sad n.n.30124.032.280) non presenti nell’altro.
Per questo motivo estrarremo le parti di interesse specificando se si trovano nell’uno o nell’altro documento (che per convenzione indicheremo coi nomi delle rispettive fonti: Cicciomessere e Cipriani).
In premessa apriamo una parentesi per interpretare i dati di protocollo indicati nel documento Cipriani.
In epoca fascista esisteva il SIM (Servizio Informazioni Militare) che aveva al proprio interno la sezione “offensiva” (cioè di spionaggio) Calderini; dopo la caduta del fascismo le denominazioni rimasero uguali (soltanto nel 1949 il SIM diventò SIFAR) e negli anni ’50 all’interno della Calderini, nell’Ufficio R., si era costituita una Sezione Addestramento Guastatori (SAD), base sulla quale si fondò la struttura dell’organizzazione Gladio.
A questo proposito leggiamo una testimonianza resa dall’ex ministro democristiano, nonché dirigente del CLN genovese Paolo Emilio Taviani (sì, proprio il ministro in carica all’epoca degli scontri di Trieste) al giudice Carlo Mastelloni nel 1992, nell’ambito delle indagini sull’incidente occorso all’aereo Argo 16 in uso alla struttura Gladio.
Taviani, che aveva ricoperto la carica di Ministro della Difesa tra il 1953 ed il 1958, dichiarò al magistrato che a metà degli anni ’50 era stato contattato dal generale Musco (allora a capo del SIFAR) che gli aveva parlato delle offerte fatte dai servizi USA per subentrare ai servizi britannici nella collaborazione con una struttura già esistente, “una organizzazione occulta militare, che con supporti paramilitari poggiava su elementi della Brigata Osoppo e su altri elementi partigiani di sicura fede non comunista e tantomeno titina”.
Tale collaborazione avrebbe dovuto essere allargata anche al Servizio militare italiano. Taviani accettò “queste profferte” soltanto nel 1956, dopo la crisi di Suez, quando si era reso conto che il servizio di intelligence britannico non era all’altezza della situazione, ed autorizzò “il generale De Lorenzo, capo del SIFAR, ad accettare le profferte Nord-americane”.
Tale accordo “non portò nessuna firma da parte degli organi di governo ma portò alla firma di un accordo bilaterale tra Servizi”, e, conclude l’ex ministro, sia l’allora presidente Segni, sia l’allora ministro degli Esteri Martino erano a conoscenza di ciò, ma “dissero che non c’era nessuna ragione giuridica di presentare l’accordo tra Servizi alle Camere. Così nacque quella che io ho sempre dichiarato struttura antinvasione che gli Americani e la NATO chiamavano S/B (cioè Stay behind) e che, solo nell’ottobre del 1990, seppi essersi anche appellata Gladio”.
Questa quindi la genesi di Gladio, e quindi il protocollo “Uff. R. sez. SAD” conferma che il documento era uscito da una struttura della Gladio.
Abbiamo già accennato l’oggetto della relazione: “Attività addestrativa. Operazione Delfino 15–24 aprile 1966. Trieste–Monfalcone–Muggia. Operazione diretta da Roma”, con la specifica che “come già noto (…) si effettuerà una esercitazione nella zona di Trieste con la partecipazione del nucleo P/4 e un nucleo di evasione–esfiltrazione E/4 e la unità di pronto impiego Stella marina”.
Aggiungiamo qui, per la comprensione del testo, che quando nel linguaggio “gladiatorio” si parla di “insorgenza” si intende l’attività politica “comunista”, mentre per “contro-insorgenza” si intende l’attività della struttura (sia in collaborazione con le forze dell’ordine, sia utilizzando proprio personale).
Nel documento Cicciomessere leggiamo di una prima fase nel corso della quale Trieste si troverebbe in una situazione politica insicura in quanto esiste del malcontento in città motivato da una decadenza dell’economia locale, aggiungendo che “il governo, pur apparentemente dimostrando di interessarsi alla situazione locale economica, sociale e sentimentale, in effetti non concorre in alcun modo al suo risanamento, e si astiene da qualsiasi effettivo e costruttivo intervento”.
Tra le varie motivazioni di malcontento cittadino indicate nella simulazione troviamo anche questo punto: “Grande perplessità e pedina preminente nelle mani dell’insorgenza, il declassamento del Cantiere S. Marco”: considerando che il declassamento del San Marco verrà ufficializzato due mesi dopo l’esercitazione, è interessante che venga indicato come causa di malcontento nella medesima.
Nel documento Cipriani leggiamo alcuni particolari che sembrano prevedere quanto sarebbe poi avvenuto secondo la denuncia del ministro Taviani: ad esempio che “il Pci fomenta le lotte” e che “in talune zone dell’Italia settentrionale gruppi di estremisti, guidati e sostenuti dalla Jugoslavia, stanno promuovendo una situazione che all’attenzione degli elementi più sensibili appare contenere tutti i germi di una possibile più vasta situazione di insorgenza”.
Troviamo poi che tra i “compiti specifici” della controinsorgenza vi sono “azioni di disturbo nelle manifestazioni al fine di creare piccoli incidenti atti a stimolare la reazione”, e come “Azioni di contrasto” un riferimento ai “Cantieri: l’ammodernamento non è stato fatto, ma sono previsti investimenti”.
Nella 3^ fase della esercitazione, mentre la “insorgenza è in atto”, tra i “compiti operativi” troviamo il punto “f) Eventuali atti di terrorismo da addebitare agli insorti” (e non possiamo fare a meno di pensare alla devastazione della sede ACLI di San Giacomo).
Nel documento pubblicato a cura del deputato Cicciomessere leggiamo inoltre per quanto riguarda i “Cantieri: l’ammodernamento (…) non è un fatto compiuto, ma in discussione, certa è invece la costruzione del bacino di carenaggio che impegna lo Stato italiano con un finanziamento per 2 miliardi”.
E nello stesso tempo viene dato quest’ordine alla controinsorgenza: “all’azione dell’occupazione del Cantiere S. Marco da parte delle maestranze nessuna azione di contrasto perché sentita da tutta la popolazione (lutto cittadino)”.
In pratica dare spazio alla lotta dei lavoratori, ma nello stesso tempo agire con azioni di provocazione in modo da scatenare la repressione istituzionale (stiamo sempre parlando di una esercitazione, lo ricordiamo).
Fin qui le similitudini con quanto sarebbe avvenuto a distanza di pochi mesi dalla simulazione programmata dalla Gladio: su altri punti, che potremmo definire “profetici”, torneremo più avanti. Per ora concludiamo stigmatizzando le figure di alcuni dei protagonisti della vicenda triestina: innanzitutto il ministro Taviani, colui che aveva dato il via alla struttura Gladio e che nella sua risposta alle interrogazioni parlamentari inserì frasi che sembrano tratte pari pari dal testo dell’Operazione Delfino; il presidente della Regione Berzanti che nel corso della guerra era stato delegato politico della I Brigata Osoppo, e fu coinvolto in trame con i nazifascisti, ufficialmente in funzione anticosacca (i cosacchi facevano parte dell’esercito nazista) ma in realtà in funzione antigaribaldina, e nel dopoguerra era rimasto tra gli organizzatori della Osoppo anticomunista ed antititina;
infine il sindaco eletto dopo gli scontri, Marcello Spaccini, nel corso del conflitto era stato agente della Calderini.
Aggiungiamo il ruolo della stampa borghese (come il Piccolo) che all’iniziò spinse alla protesta per poi, al momento più alto della crisi, tirare i remi in barca e provocare in questo modo la reazione dei lavoratori anche contro di essa; il fatto che alla protesta aderirono il Partito Repubblicano e la UIL, sindacato creato dal CLN giuliano per aggregare i lavoratori anticomunisti in contrapposizione alla nascente CGIL, ed il cui dirigente era quel Carlo Fabbricci che ritroveremo tra gli iscritti alla Loggia P2; ed infine che molti dei nomi illustri che all’inizio lanciarono la protesta erano membri della massoneria locale.
APPENDICE: le profezie del Delfino.
Nel documento dell’Operazione Delfino troviamo anche dei punti che se non sono stati profetici, possiamo ritenere siano stati organizzativi Tra i suggerimenti d’azione per la controinsorgenza, scritti dagli organizzatori della simulazione, vi sono cose che hanno avuto una concretizzazione negli anni a seguire, come la pubblicazione di una “serie di articoli rievocativi di episodi dell’ultima guerra svoltisi nella zona scritti da elementi qualificati”.
Non possiamo fare a meno di pensare alla propaganda che da anni va avanti sulle “foibe” e su presunti “crimini” commessi dai “titini”, anche se la maggior parte degli articoli non possiamo certo ritenerli scritti da “elementi qualificati”.
Ma aggiungiamo un punto che sembra descrivere la situazione di Trieste dai primi anni ’70: “sempre numerose in città, le manifestazioni di elementi di destra che quasi sempre finiscono col creare incidenti. Sempre evidente però la spontaneità ed improvvisazione delle manifestazioni italiane contro la compattezza dell’organizzazione slavo–comunista”.
Ed è profetica anche questa indicazione: “la sottoscrizione indetta dalla LN (Lega Nazionale, n.d.r.) per riprendere la pubblicazione del giornale Voce Libera ha dato un risultato plebiscitario, temprando gli animi dei promotori e permettendo la ripresa della pubblicazione dello stesso”.
Giova ricordare che la Voce Libera era l’organo del CLN triestino nel dopoguerra (quello di Spaccini, Marin e Bartoli), e che nel 1976, all’epoca delle contestazioni contro il Trattato di Osimo (ratifica dei confini tra Italia e Jugoslavia), l’organo di stampa del gruppo politico che cavalcò la protesta, composto in parte anche da esponenti della massoneria locale e che confluì successivamente nella Lista per Trieste, si chiamò proprio La Voce Libera.
È di interesse anche un altro punto, che nella simulazione sarebbe finalizzato a mettere zizzania nella comunità slovena: “A mezzo stampa viene chiarita e smascherata l’azione svolta dai capoccioni della Lega Democratica Slovena (LDS) (un’organizzazione con tale nome non è mai esistita, n.d.r.) che curavano gli interessi dei proprietari interessati dell’oleodotto. Risulta infatti che le indennità di servitù e non di esproprio, sono state quasi completamente assorbite dagli onorari dei suddetti patrocinatori e pertanto solo per questo motivo le indennità risultano inadeguate. Nella ripartizione degli onorari sono sorte tali divergenze da provocare accuse reciproche di truffa e relative denunce all’autorità giudiziaria tra i suddetti patrocinatori”.
È interessante, perché nelle trattative per gli espropri dei terreni sui quali edificare lo stabilimento della Grandi Motori Trieste (che avrebbe dovuto essere una delle “compensazioni” alla città per la perdita dei Cantieri), vi furono malcontenti e sospetti di truffa da parte degli intermediari nei confronti degli espropriati.
Invece vediamo tra i punti ipotizzati nella simulazione una cosa di stretta contemporaneità:
“In conseguenza del ricorso fatto dal Partito Indipendentista all’ONU, pubblicato dal Corriere di Trieste del 25.1 (il Corriere di Trieste, quotidiano dell’indipendentismo di sinistra, aveva cessato le pubblicazioni più di dieci anni prima, ma nel testo dell’operazione si simula che uscisse ancora, n.d.r.) a definitiva risoluzione della questione, la stampa nazionale chiede venga effettuato un plebiscito in tutte le zone interessate A e B, naturalmente riportando la situazione etnica ante esodo”.
Ed ancora sul tema indipendentista, vediamo questa descrizione delle manifestazioni dei lavoratori: “lo slogan predominante continua ad essere quello della creazione di un territorio libero”.
Vi consigliamo vivamente la lettura integrale dei testi dell’Operazione Delfino, per valutare anche altre similitudini e coincidenze posteriori, ma concludiamo con un’annotazione “culturale”.
Nel 1975 uscì, nella collana Segretissimo della Mondadori, un racconto di spionaggio dal titolo “E lo chiamavan Drago”, autore un non meglio identificato Bernard Souliè (del quale non abbiamo trovato traccia se non per questo romanzo: ma va detto che il testo originale è italiano per cui possiamo supporre trattarsi di pseudonimo di autore italiano).
Il racconto (che fu segnalato in un articolo sul Meridiano di Trieste del settembre 1975) parla di un progetto, denominato “Operazione Avvoltoio”, elaborato nelle Baleari da un gruppo che comprendeva ex SS, ex OAS e falangisti spagnoli collegati ad una sorta di “Ordine Nero” europeo.
Il piano prevedeva l’arrivo a Trieste, a bordo di un aliscafo, di un reparto d’assalto, che, diviso in due gruppi, avrebbe provveduto a sabotare le principali installazioni industriali, cominciando dal terminale dell’Oleodotto transalpino (che, giova ricordare, fu oggetto di attentato nell’agosto 1972); gli attentatori avrebbero dovuto vestire divise jugoslave e lasciare dei morti nei luoghi degli attentati, vestiti anch’essi con divise jugoslave, in modo da provocare la reazione delle forze Nato, che avrebbero pensato ad una invasione da parte delle truppe della Repubblica confinante.
Agli attacchi di Trieste, attribuiti agli Jugoslavi, sarebbe seguita una sorta di “rappresaglia” della Nato a Fiume, con decine di vittime, ed a quel punto la situazione sarebbe precipitata in un conflitto armato di proporzioni imprevedibili.
Il misterioso Souliè decise però di concludere il racconto con un lieto fine, difatti la manovra fu svelata e disinnescata dall’eroe di turno, un giovane e coraggioso agente arruolato da non chiariti servizi segreti, che assieme ad altri collaboratori fece in modo di neutralizzare il commando di provocatori, riuscendo addirittura a far credere che tutta la presenza in città di militari di vario tipo era in realtà il set di una ripresa cinematografica.
A margine della fiction dobbiamo aggiungere che la trama ricorda in parte le esercitazioni della Gladio; e che nelle Baleari si trovava una base per i terroristi neri.
Vi soggiornarono, e vi persero la vita, sia il principe nero Junio Valerio Borghese, datosi alla latitanza dopo essere stato colpito da mandato di cattura per il suo tentativo di golpe, sia il neofascista Gianni Nardi, ricercato non solo per traffico d’armi, ma anche perché era sospettato di avere ucciso il commissario Calabresi**: e vi fu chi rilevò che una mercedes nera, come quella usata da Nardi nella sua fuga, era stata vista aggirarsi nei pressi dell’Oleodotto transalpino alcuni giorni prima dell’attentato.
* ripreso da http://www.diecifebbraio.info che si presenta così:«MATERIALI DI RESISTENZA STORICA ANTIFASCISTA E INTERNAZIONALISTA SULLE QUESTIONI DEL CONFINE ORIENTALE ITALIANO»
** sospetto poi rivelatosi infondato.
*** Ripubblicato meritoriamente da La Bottega del Barbieri
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