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Mito, tempo e relazione

La cucina in cui si prepara, a fuoco lento, l’individuo che serve

1. Il farsi, ovvero il realizzarsi, del mito

Un mito è una struttura di senso, un universo sensibile in cui le cose sono poste per svolgere un ruolo specifico in rapporto ad altre cose. La sua natura è quella di dare senso a ciò che – senza di esso – senso non ha, perché il senso viene dall’investitura linguistica (semiotica) del mondo.

Più precisamente, per dirla con Wittgenstein, così come i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, la configurazione dei simboli che entrano in gioco in una struttura mitica formano, generano, ritagliano e definiscono il mondo dentro cui il soggetto vive, agisce, pensa, sente.

I miti di cui si avvale il capitalismo contemporaneo fondano un mondo in cui l’allineamento perfetto fra meccanismi economici, valori culturali ed etici, comportamenti ed atteggiamenti individuali, non ha bisogno di continue messe a punto, si svolge con costante e inesorabile continuità, si basa su poche ma efficienti regole fondamentali di funzionamento.

La condizione perché questo allineamento produca i suoi effetti in modo sicuro, naturale, è che il soggetto/individuo – la stazione finale del processo in cui culmina la linea di soggettivazione – pensi e senta e agisca senza dover di volta in volta richiedere una qualsivoglia sorta di promemoria, senza la necessità di richiami.

Il processo funziona se i suoi comportamenti, i suoi sentimenti, le sue azioni, i suoi pensieri siano, appunto, suoi. Come ha brillantemente chiarito Lordon nella sua analisi dei meccanismi di “reclutamento” da parte del capitale, la necessità è quella che si realizzi una qualche forma di “servitù volontaria”, nozione che in realtà l’Autore critica per la sua inesattezza.

Occorre, in altre parole, che il mito “si faccia”, si renda cosa vissuta, cosa fatta. Una struttura di senso che non fornisca soltanto coordinate ideali, ma si trasformi in pura sostanza pensante e senziente, alimenti l’agire quotidiano, senza che sia necessario ritornare a palesarsi come struttura.

Il processo non è scansionabile come se fosse provvisto di un timing preciso e implacabile che ne orienti il flusso: si tratta spesso di occasioni, contesti, passi falsi, aggiustamenti repentini. La strategia è sottile ma non per questo rigorosamente disciplinata e meccanizzata, è pervasiva ma non per questo riconducibile ad un algoritmo assoluto.

Vale qui, nel contesto dei processi di soggettivazione che giungono fino alla formazione di strutture psichiche, quello che valeva per Foucault nel contesto dei medesimi processi fino al punto in cui si è spinta la sua analisi, diremmo proprio alle porte della soggettività intesa come realtà psichica, piuttosto che come realtà ontologica o – se vogliamo – ontologico-sociale.

Per una migliore comprensione della funzione generale del mito, prima di ogni sua dettagliata analisi strutturale, viene in soccorso il pensiero di uno dei più originali filosofi dello scorso secolo, Ernst Cassirer.

Per lo studioso delle “forme simboliche”, il mito non è riducibile alla dimensione ideativa, logicizzante del linguaggio, né riconducibile alla parte defettuale, ambigua, polisemica di quest’ultimo – come alcuni autori a lui coevi sostennero – sebbene con il linguaggio spartisca una comune origine.

La cifra peculiare del mito è nel suo rapporto con il rito, con le azioni, le danze, i gesti, i contesti sovente di tipo orgiastico, che rappresentarono l’alba dello spirito religioso dell’umanità. E di quel rapporto, che il mito si caricò di sviluppare, si conserva l’aspetto saliente: quello emozionale.

I rituali erano occasioni gruppali la cui funzione era quella di moltiplicare, nella sfera sociale del soggetto, la carica emotiva che tale sfera esigeva e al contempo amplificava. Non si trattava di pure emozioni “individuali”, si trattava bensì di emozioni “sociali”, tribali che richiedevano, nel momento della loro “rappresentazione”, un racconto che le spiegassero, che le incardinassero dentro una trama narrativa, un logos delle passioni.

A questo provvedeva il mito, e questa funzione non è lontana da quella che riusciamo a rintracciare nel mito contemporaneo, il mito neo-capitalistico: quella di fornire immagini delle emozioni, racconti emozionali, emozioni rappresentate, di contro ai riti, in cui le emozioni sono agite.

Se il mito inerisce il mondo emozionale più e prima di quello razionale, ciò non toglie che assolva una funzione che è anche quella di razionalizzare. In realtà le emozioni che il mito sembra imbrigliare nei suoi costrutti narrativi sono tenute in una sorta di condizione conservativa, pronte a riesplodere appena il mito si ricondensa nei rituali che razionalizzava.

La storia, relativamente recente, del nazionalsocialismo ci riferisce di una tale realtà nella sapiente regia che faceva ciclicamente oscillare il baricentro della propaganda fra i riti (le adunate e i comizi pubblici, ecc.) e i miti (la purezza della razza, ecc.).

Il rapporto strettissimo che il mito intrattiene con i riti, un rapporto pensabile addirittura come filiazione del primo da parte dei secondi, ci aiuta a comprendere meglio come la sua sostanza siano le passioni, che nei riti contemporanei tornano ad esplodere mentre la sua grammatica si incarica di rappresentarle, di raccontarle.

2. Il Tempo

Il tempo si è adeguato, conformato, alle richieste. Non il tempo oggettivo, che scorre inesorabile fra le cose, congelante percorso in cui l’uomo non può che restare a guardare, immobile cosa fra le cose, il finire di sé e del mondo che lo ospita.

Quello che è in gioco è il tempo come nozione, il tempo come esperienza, il tempo come durata.

È avvenuta una vera e propria contrazione del flusso temporale, una sua riduzione al momento in corso, una presentificazione assoluta che taglia fuori passato e futuro.

Questo processo è descrivibile, e percorribile, sia se si adotta la “prospettiva” delle cose, ovvero della trasformazione delle cose lungo il corso temporale, sia se si adotta la “prospettiva” del soggetto, che vede nelle cose strumenti mediante i quali soddisfare i suoi bisogni.

Le cose, le cose nel mondo, viaggiano dal passato, attraverso il presente, al futuro: l’affermazione deve qui essere intesa come riferita a stati di cose, a stati-del-mondo. Uno stato-del-mondo era all’istante t1 (passato), che precedeva l’istante tn (presente) in cui quello stato-del-mondo si trasforma, verso l’istante tn+m (futuro) in cui quello stato-del-mondo si sarà trasformato. 

La nostra esperienza delle cose viaggia dal futuro, attraverso il presente, al passato: anche questa affermazione va intesa come riferita a stati di cose, a stati-del-mondo.”

Gli esempi per ognuna di queste due prospettiva sono facilmente maneggiabili nel contesto della quotidianità: 

ho fame, ho bisogno di mangiare. Dispongo le cose affinché il cibo che ho nel frigo mi sazi (scenario1-futuro). Mangio il cibo (scenario2–presente). La fame è scomparsa, passata (scenario3– passato).

Se vediamo la successione dal punto di vista delle cose, ecco ritornare la direzione opposta, quella che va dal passato al futuro, per il tramite del presente. Anche qui possiamo riferirci alle cose come a stati-del-mondo: Il cibo era integro, riposto nel frigo (stato1- passato); lo estraggo e lo mangio, dunque lo trasformo (stato2-presente); in uno degli istanti successivi all’avvenuta trasformazione il cibo non sarà più, avrà cessato di avere la sua precedente integrità, in altre parole: cesserà di essere (stato3-futuro).”

Ci si chiede: “che tipo di sovvertimento si produce, in questo meccanismo naturale, quando il tempo e la sua esperienza sono presi dentro la macchina semiotica del capitalismo?”

La risposta si trova nel concetto di “blocco”.

Il flusso temporale è come bloccato, sia quando è visto dalla parte delle cose sia quando è visto dalla parte del soggetto che fa esperienza delle cose.

Se ho fame, evito accuratamente di produrre le condizioni per cui il cibo che ho nel frigo mi sazi (scenario1–futuro), in modo che la fame scompaia (scenario3-passato), fissandomi invece nell’atto compulsivo di mangiare il cibo, ovvero di consumarlo incessantemente (scenario2-presente).

Seguendo il processo dalla parte del cibo, questo non si rivolgerà al momento della sua scomparsa (scenario3-futuro), a partire dalla sua temporanea integrità (scenario1-passato), passando per una sua trasformazione (scenario2-presente). L’essenza del cibo diverrà quella di essere totalmente fungibile rispetto alla centralità del consumo, dunque quella di essere perennemente trasformabile.

La conclusione è implacabile:

In entrambi i versi del rapporto fra il soggetto e le cose che manipola per la sua sussistenza vi è come un restringimento della dimensione temporale al passaggio centrale, quello della transizione. Una presentificazione assoluta dell’esperienza temporale”

3. Micro-rapporti

Il restringimento temporale alla posizione centrale, a un presente pervasivo e anche un poco mortifero, è solo uno dei tasselli di cui si compone il puzzle complessivo del disegno di mutazione con cui i contenuti valoriali di natura mitica devono divenire contenuti mentali, emozionali, personali. Per dirla in uno: individuali.

Un altro passaggio importante è la riduzione della portata dei rapporti disponibili che il soggetto intrattiene con gli altri soggetti. Per “portata” non intendiamo la quantità complessiva delle relazioni disponibili, quantità che infatti può crescere smisuratamente mediante gli strumenti che più favoriscono la crescita esponenziale dei numeri, vale a dire i social network.

Intendiamo invece riferirci alla profondità, intensità, ampiezza di ogni singola situazione relazionale, di cui si preferirà una modalità caratterizzata dalla velocità, dalla superficialità, dalla tendenza a utilizzare strumenti di seduzione piuttosto che di condivisione.

I micro-rapporti sono il sale della terra nel mondo del capitalismo contemporaneo, che naturalmente predilige seminare dove può la cultura del mordi e fuggi, la religione del chiacchiericcio sostitutivo della conversazione, la regola del gossip che prende il posto della partecipazione.

L’applicazione sistematica di tale principio ha reso vani i numerosi tentativi, fatti dalla caduta del comunismo in poi, di ricompattare le forse sociali antagoniste in una identità politica certa, coesa.

Nel mondo della relazione 3.0, dispersa nel web e nelle strutture dei social, l’identità di genere, o di generazione, o dell’appartenenza al circuito del consumo, o di qualsiasi altro segno artificiosamente eretto a criterio naturale, hanno finito per estinguere l’identità di classe o – per essere meno romanticamente legati ai “miti” del ‘900 – semplicemente l’identità sociale!

La semina di una tale modalità della relazione si salda alla trasformazione del posto che il corpo umano ha nel processo politico, e non solo nel senso foucaultiano della bio-politicai: i micro-rapporti favoriscono una sorta di torsione simbolica che rende i corpi interagenti non più strumenti utili al raggiungimento di un fine comune ma fini essi stessi, obiettivi la cui prensione – nello spasimo cristallizzato in gesti immobili – non ha più niente di erotico, e dunque più niente che abbia un qualche rapporto con il desiderio.

Il corpo serve solo a tenere in piedi una immane messa in scena: il tempo non esiste, ci incontreremo e ci re-incontreremo all’infinito per prometterci di incontrarci e re-incontrarci all’infinito.

Da questo incontro non scaturisce alcuna energia, non deriva alcuna forma di vitale rottura degli schemi, non discende alcuna forza aggregante: l’incontro si sostanzia in un guardarsi reciproco totalmente inefficace, quasi indifferente, nel quale i soggetti in relazione si fanno bastare il mostrarsi, le posture asettiche e plastiche che stanno lì a testimoniare la natura costruita, raziocinante della scena medesima.

Una visita disincantata in un qualsiasi centro fitness contemporaneo avrà una utilità di gran lunga maggiore di qualunque esempio astratto.

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