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Camminare rasente il muro

E’ appena uscito il libro “Camminare rasente al muro – la libertà d’espressione in Iraq a vent’anni dall’invasione americana”, edizioni Malamente. Ne pubblichiamo la prefazione a cura di Chiara Cruciati.

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C’è una via a Baghdad che racconta l’Iraq più di quanto possa fare il quartiere più famoso della capitale, la Green Zone. Quell’enclave sede di ministeri e ambasciate straniere, oltre il ponte Jumhuriya, è la rappresentazione plastica del potere che si barrica, degli strascichi settari dell’invasione statunitense del 2003.

L’altra si chiama al-Mutanabbi Street, ma la conoscono tutti come “la via dei libri”. È molto di più: libreria diffusa a cielo aperto, che occupa i marciapiedi e si arrampica sulle pareti degli antichi edifici, sede di piccole case editrici, storico luogo di ritrovo degli intellettuali iracheni e culla di tanti movimenti politici. Anche, indirettamente, della rivolta popolare di Piazza Tahrir, che nell’ottobre 2019 ha mostrato al mondo il volto di un altro Iraq.

Una regione che per secoli è stata avanguardia culturale, umanistica e scientifica dell’intero Medio Oriente, con Baghdad a vestire i panni di capitale spirituale, alcova di un’opulenza letteraria e poetica che invasioni militari straniere – fossero le truppe mongole che gettarono nel Tigri secoli di produzione artistica o i marine che ne avallarono i saccheggi – hanno preso di mira per fiaccarne la voce.

Quella voce multiforme si fa plastica in altro luogo, di nuovo al centro di Baghdad, la biblioteca al-Qadiriyya: la si raggiunge da una porta in legno, attraversato l’enorme cortile bianco e abbagliante dell’omonima moschea, fondata nel XII secolo dalla confraternita sufi di al-Jilani.

Dentro, nella penombra rotta da luci calde, stanno 90mila volumi, miniature, manoscritti, testi di matematica e fisica, saggi di calligrafia araba, corani in arabo ed ebraico. Fu saccheggiata nel 1258 da Hulagu Khan, migliaia di libri buttati nel fiume che cambiò di colore: divenne nero e rosso, come l’inchiostro liquefatto.

Quasi otto secoli dopo furono le bombe della “coalizione dei volenterosi” messa insieme da George W. Bush a minacciarne il tesoro: fu il bibliotecario Abdulmajid Mohamed a salvarlo dai saccheggi che sfigurarono l’Iraq, trascorrendo notti sotto i bombardamenti in una Baghdad in preda al caos, per nascondere i manoscritti negli scantinati.

Prendere di mira la cultura per svuotare i popoli, l’identico obiettivo di ogni conflitto. Che sia un’invasione esterna o una guerra interna. È questa che, a vent’anni dal 20 marzo 2003 e l’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”, Fabrizio Sani racconta in questo libro: la guerra fratricida che ha smembrato l’Iraq, frantumandolo in tanti poteri diversi, nell’istituzionalizzazione dei settarismi e nell’emersione di partiti che all’ideologia politica sostituiscono l’identità etnica o religiosa.

Ogni irachena e iracheno incontrati in questi anni mi hanno ripetuto una frase simile: «Prima avevamo un Saddam, ora ne abbiamo cento». Sono i leader di fazioni politiche, di milizie armate che si fanno partito, capi religiosi che guidano eserciti in miniatura e che di fatto gestiscono il territorio, ognuno imponendo una diversa autorità. E una diversa forma di censura che sfocia spesso in auto-censura, perché «anche le pareti qui hanno le orecchie».

Non parla il tassista, non parla l’insegnante, non parla la dottoressa e non parla l’operaio. E, spesso, non parlano giornalisti e intellettuali. Spesso, ma non sempre. C’è chi lo fa: voci che a cui Sani dà la parola perché siano loro – giornaliste e giornalisti, scrittrici e scrittori, ancora in Iraq o costretti alla diaspora – a dare indietro la realtà quotidiana di un popolo che vive ormai da decenni in guerra perenne, senza un’apparente soluzione di continuità.

Lo fanno mettendo fisicamente in pericolo la propria vita, come leggerete scorrendo queste pagine, attivisti uccisi in omicidi mirati, reporter freddati di fronte la porta di casa, nella piena impunità dei responsabili. Sono comunque il sintomo di un paese che sta mutando.

Non nella classe politica, ancorata a un sistema istituzionale che nega e oblia la naturale ricchezza etnica e religiosa dell’Iraq (riconoscendo autorità politica solo a sciiti, sunniti e curdi) e che su simili settarismi ha costruito consenso politico settario, sotto forma di un innaturale senso di appartenenza confessionale prima che politico e di un sistema rodato di prebende e corruzione.

Sta mutando nella sua società. In Iraq negli ultimi vent’anni non è cambiata la mentalità della leadership ufficiale, è cambiata quella della base. Popolo di giovani, la maggioranza dei quali cresciuta in un Iraq senza partito Baath, senza Saddam Hussein, quello iracheno si sta aprendo a un’immagine diversa di sé, si scopre capace di sognare: un paese laico e democratico, privo di settarismi sanguinari, diseguaglianze sociali e divisioni artificiose.

Per mesi l’Iraq, tra il 2019 e il 2020, è stato il paese della Rivoluzione d’Ottobre, delle piazze piene a milioni da Baghdad al sud, Bassora, Najaf, Karbala, dei presidi permanenti, dei giornali indipendenti stampati dai manifestanti, delle piccole librerie aperte nei campi di tende, delle cliniche autogestite, dei tuk-tuk trasformati in ambulanze e della sfida aperta al governo centrale e alle milizie armate.

La principale sfida non è stata prendersi un pezzo di Baghdad o di Bassora, è stata la composizione di quelle piazze: sciiti, sunniti, cristiani, donne e uomini, disoccupati e professionisti, autisti di pulmino e operai, studenti e famiglie, uno spettro sociale vastissimo che in piazza ha capito di avere le stesse identiche aspirazioni sociali e politiche, al polo opposto di quelle imposte dalle fallaci mono-identità dell’appartenenza confessionale.

Nelle pagine che seguono sta l’altro Iraq, che con lucidità e coraggio prende la parola e racconta se stesso e la realtà in cui si trova a sopravvivere.

Spesso invisibile al di fuori dei confini nazionali: la stampa internazionale mainstream alle dinamiche interne irachene e ai suoi moti trasformativi non dedica lo spazio che richiederebbe un’utile narrazione alternativa, che sappia ricostruire con onestà i passi che hanno condotto alla morte – per omicidio – del diritto internazionale in terra irachena, alle violazioni compiute in decenni di guerre altrui e alla calcolata costituzione di un sistema politico disfunzionale e vizioso che da vent’anni tiene in piedi esplosive diseguaglianze sociali ed economiche.

Senza rendersi conto che chi ha fatto una rivoluzione è capace di farne un’altra.

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