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Geolier. Ovvero dell’ammorbamento social e dintorni

Sono ormai giorni che assisto estasiato su facebook, social e media all‘infiammare della polemica intorno a Geolier e al suo testo selezionato per Sanremo.

I p’ me, tu p’ te”, scritto così come si pronuncia. Ed è principalmente sul presunto reato di sgrammaticatura linguistica che la polemica si appunta. Tra sostenitori del purismo dialettale e fautori di una più progressista eresia dei canoni.

Intellettuali, scrittori, politici napoletani e gente comune che fanno a gara nell’esternare la propria opinione. Anche se a volte molto discutibile e finanche risibile.

Ho assistito e riflettuto. Fino a ieri, quando in fine mi sono deciso a buttare giù qualche osservazione. Giusto per il godimento che mi procura leggere anche le mie cazzate.

E insomma…

Ricordo come fosse ora un Angelo Manna schiumante rabbia dallo studio de “Il Tormentone”, in onda su Canale 21 – si era sul finire degli anni ’70 – per un Troisi che, nella battuta di uno sketch, diceva a Enzo De Caro: «nun guardate a mme, guardate ‘a manomano».

A significare che a Napoli il furto di destrezza era ed è pratica comune. Il futuro senatore Manna del Msi rimproverava a Massimo di ‘offendere Partenope’.

Ricordo mio nonno, vecchio socialista massimalista e intellettuale di non poco vaglio – allievo di Ferdinando Russo e amico personale di Giuseppe Marotta, Raffaele Chiurazzi, Eduardo, il maestro Albano (quello della canzone Zappatore per intenderci), Petito, Murolo – definito “‘a cassazione del dialetto napoletano” e per questo chiamato nientemeno che da Totò per correggere il suo libro di poesie “‘A livella”.

Ricordo mio nonno, dicevo, che a 82 anni si era innamorato di un giovanissimo Pino Daniele, del quale parlava come un innovatore e un vivificatore non solo della lingua napoletana ma soprattutto dei suoi topos poetici.

Insomma Pino, per nonno, mostrava un’altra Napoli. Mentre i suoi amici intellettuali, parrucconi e accademici ne denigravano le canzoni, accusandolo di uccidere la città, il suo vernacolo e la sua tradizione canora e musicale.

Ho letto e studiato della polemica tra il Salvatore Di Giacomo borghese e purista del dialetto e il Ferdinando Russo guappo e popolare. A me piaceva e piace Russo. Come preferisco Viviani a Eduardo.

Ho studiato per ragioni di lavoro le polemiche tra gli amanti del Teatro d’Arte napoletano e i sostenitori della Sceneggiata.

“Calibro 9” di Pino Mauro è un classico della canzone di guapparia. E oggi in molti, anche e soprattutto a sinistra, al maestro Pino Mauro e alla sceneggiata stessa tributano omaggi.

I don’t cry 4 U. Oppure 2 U. Così scriveva Prince nei lontani anni ’80. E lo definirono il Genio di Minneapolis.

La lingua ha evoluzioni sincroniche e diacroniche. Come ogni fenomeno umano e sociale. Basterebbe aver letto in tal senso innanzitutto Marx. Poi De Saussure, Jakobson, Levi-Strauss, Propp. Perfino Stalin.

Ma lingua è anche rappresentazione simbolica di classe, di censo, di casta. Dunque, mai uguale a sé stessa. Tanto nella contemporaneità quanto nel tempo.

Basterebbe anche, intelligentemente, contestualizzarne l’utilizzo. Quotidiano. Colloquiale. Scientifico, Giuridico, Economico. Filosofico. Letterario. Artistico. Tutti codici tra loro diversissimi.

A tal proposito, mi fa sorridere pensare che Cielo d’Alcamo era praticamente un eretico che sarebbe stato identificato come un terrorista, nell’epoca del dominio della Chiesa e del latino...

Anni fa nascevano nuovi generi musicali. Il rap e l’hip-hop. Non mi risulta siano nati per rispettare i canoni linguistici, sociali, politici e culturali imposti dall’ideologia dominante.

Come non nacquero su questi presupposti il blues e il jazz. Espressioni musicali dei neri americani in schiavitù.

Non nacque su premesse simili l’arte di Basquiat. O la performance art della Abramovich.

E non nacquero su tali assunti neanche la drammaturgia di Artaud, la poesia drammaturgica di Moscato, il teatro jazz di Leo de Berardinis o la scrittura scenica di Carmelo Bene. Linguaggi prima marginalizzati e sbeffeggiati, poi studiati e in fine sussunti, purtroppo – con tutte le derive del caso -, dalla cultura borghese.

Or bene, Emanuele Palumbo in arte Geolier, è un rapper che fa hip-hop e trap. Un genere, soprattutto il secondo, che francamente non mi fa impazzire.

Innanzitutto per la musica. Poi spesso, soprattutto nelle sue più nuove declinazioni, per i testi e per il corollario video. Ormai complemento a supporto quasi indispensabile del testo. Un ipertesto filmico-mediatico potremmo definirlo.

Non mi piace il messaggio iper consumistico che trasmette, tutto iscritto nei codici del mercatismo occidentale. Mi irritano il machismo e l’immagine femminile che veicola.

Ciò detto, ho letto e ascoltato Geolier. Pezzi iniziali come Narcos, Mercedes, Calcolatrici non mi piacciono. Proprio per l’abuso di marchi, simboli del consumo, estetica gomorrista.

Attenzione, non ho parlato di semplice estetica criminale. Calibro 9 di Pino Mauro o ‘O motoscafo o altri, pur rientrando nel genere malavita, mi restituiscono atmosfere ed emozioni altre.

Man mano però il ragazzo va ripulendosi nei contenuti e nella formalizzazione, anche dei video. Se per autentica esigenza artistica e personale o per mero opportunismo mercantile non mi è dato sapere. Ne prendo semplicemente atto.

Fino a questo Sanremo, dove proporrà un brano (“I p’ me, tu p’ te”, citato all’inizio) che, benché scritto secondo i puristi della lingua in un napoletano sciamannato, avrebbe potuto cantarlo addirittura il mitico Fausto Cigliano negli anni Cinquanta. Un brano dove troneggiano la luna le stelle, il cuore e l’amore.

Questa svolta sentimentale sarà un bene per l’immagine di Emanuele? Forse per il mercato. Non credo per l’autenticità.

Perché pure se non amavo quelle prime tracce, per i motivi che ho esposto, questo nuovo Geolier, ripulito dalle esigenze del tempio della canzone borghese, un po’ mi fa cagare.

Forse è meglio che non si snaturi troppo. Il ragazzo proveniente dalla magmatica, affascinante, durissima realtà di Secondigliano.

Poi però c’è la questione dei modelli culturali mutuati, come si diceva, dalla gangsta song a stelle e strisce, dal paradigma produttivo imperante e dal linguaggio camorristico.

Che dire? Il trionfante capitalismo neoliberista fa guerre da levante a ponente. Si fonda sulla violenza sociale e relazionale. Su rapporti di potere e sottomissione. È colluso con mafie, narcos e fascisti. La sua immagine è criminale, sessista, razzista, classista e maschilista. Forse dovremmo pensare di abbattere il sistema, prima di scagliarci contro Geolier.

Ad ogni modo, agli intellettuali di professione e a quelli della domenica, il mio consiglio è sempre lo stesso.

Prima di dare fiato alle corde vocali, sarebbe necessario studiare. Leggere, guardare, ascoltare, assaggiare. Se non altro per non ammorbarci con pregiudiziali pareri fondati sul nulla cosmico di una cultura precotta.

Vale tanto per le condanne borghesi e reazionarie degli scandalizzati puristi-puritani; quanto per le assoluzioni finto progressiste dei filo lumpen infarciti di ideologia sinistrese.

Ma dopo tutto ciò, è sempre meglio tacere.

E pensare che io San Remo neanche lo guarderò…

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